Non c’è alcun dubbio: il governo Renzi – che nasce malissimo, perfino con la benevola neutralità di Berlusconi, ben contento di aver trovato un suo quasi sosia in questo interregno – si gioca tutto sulla politica economica. Sia che al ministero dell’economia vada un tecnico sia che ci vada un fedelissimo del segretario Pd, o Renzi dimostra di riuscire in poco tempo a spingere il paese sulla strada di una rinnovata crescita, e verso un sensibile calo della disoccupazione, o soltanto l’arte della propaganda (di cui del resto è maestro quasi quanto Berlusconi) potrebbe dissolvere nel 2015 l’aria di fallimento che inevitabilmente si formerà intorno alla sua esperienza di governo. Ora, stando a quello che si è visto del Jobs act, ciò che si può prevedere è un intervento sul mercato del lavoro. Non siamo affatto fuori dalla logica che ha caratterizzato gli ultimi decenni: cioè semplificazione delle regole (di per sé non un male, se venissero salvaguardati i diritti dei lavoratori), flessibilità, maggiore libertà per i datori di lavoro di assumere e licenziare. L’unico punto non controverso, condivisibile senza riserve, è la proposta del contratto unico; per il resto – specialmente se si dovesse prevedere, in aggiunta, una qualche defiscalizzazione degli oneri sociali a favore delle imprese, come di recente è stato fatto da Hollande in Francia – non ci sarebbe da stare allegri. Quali le garanzie, infatti, che gli imprenditori così premiati riprenderebbero a investire? Nessuna. Il nodo reale quindi è quello non di una semplice facilitazione delle condizioni dell’offerta, ma di una ripresa su larga scala della domanda. O si trova il modo di dare più soldi ai lavoratori, insomma, o l’economia non ripartirà.