Ormai siamo ai bollettini di guerra, di una guerra postmoderna in cui implode il cortocircuito tra «antico» e «moderno», tra mezzi convenzionali (i bombardamenti, il terrorismo, le rappresaglie, la propaganda, la disinformazione) e nuove tecnologie di distruzione (le campagne di comunicazione, i nuovi armamenti hi-tech). Dietro la «strategia del caos», della guerra di tutti contro tutti (dalla geopolitica all’esercizio quotidiano del dominio di potere sulle singole esistenze), un lucido e «antico» disegno di natura esclusivamente economica: la tenace resistenza del modo di produzione capitalistico alla crisi del suo insostenibile «modello di sviluppo» che sta devastando il pianeta. Le devastazioni strutturali, in nome delle necessità dei mercati finanziari (l’«uovo del serpente»), procedono in stretto rapporto con devastazioni politico-culturali sempre più rabbiose: la supremazia indiscutibile (da non mettere in discussione) della «civiltà» dell’imperialismo occidentale, lo svuotamento della democrazia formale a cui contrapporre i «valori» della predazione economica e del consumo forzato di merci, del malthusianesimo, della xenofobia, la divisione profonda tra le vittime della guerra economica e militare, schierate come complici subalterni e «rifiuti» da schiacciare.
La guerra è apparentemente «a pezzi», in scenari geografici diversi, ma in realtà è globale, unificata da un modo di produzione complesso e articolato, con differenze al suo interno e retroterra storici che determinano strategie diverse. Dietro la modernità degli Stati Uniti, con il loro ruolo attivo nella «strategia del caos» sviluppata dopo il crollo dell’Unione Sovietica, c’è un’intima coesione tra sistema politico formalmente democratico e potere economico, dallo sterminio dei nativi alle politiche imperialistiche nel Novecento; oggi gli Stati Uniti, forti della loro tradizione economica e militare (di crisi in crisi, di guerra in guerra), perseguono con decisione l’obiettivo di ampliare il loro territorio di mercato su scala planetaria: a questo servono il trattato di libero scambio con l’Europa, l’ampliamento della Nato a est in funzione antirussa, la disgregazione dei paesi laici del mondo arabo (Iraq, Libia, Siria), il sostegno allo Stato ebraico e alle monarchie islamiste del Golfo. Dietro la modernità della Russia e della Cina, i due principali competitors della guerra economica in corso, agiscono altri retroterra: le esperienze profonde del «socialismo di Stato» dell’Unione Sovietica e della Repubblica popolare cinese. Nella Russia di Putin coesistono in maniera complessa la tradizione del leninismo e dello stalinismo, il tentativo fallito della perestrojka di Gorbaciov, la restaurazione di antiche pratiche oligarchiche, e la tradizione di una politica di potenza vissuta come valore identitario da gran parte delle popolazioni dell’ex Unione Sovietica. Dietro la modernità della Cina c’è la «lunga marcia» della prima grande rivoluzione dei popoli colonizzati, che prosegue con nuove strategie e tattiche sapienti il suo confronto con il capitalismo e con l’imperialismo occidentale; mentre l’Occidente in crisi torna alla vecchia politica delle cannoniere, la Cina rafforza la sua struttura sociale per ridurre la povertà, si propone come attivo partner economico in Asia, in Africa e anche in Occidente, gestendo oggi gran parte del debito degli Stati Uniti: la partita è aperta.
In questo scenario, per l’Occidente le politiche di guerra sono investimenti produttivi; le distruzioni, le stragi di civili, le migrazioni forzate sono danni collaterali. È un investimento produttivo anche il terrorismo: per destabilizzare Stati (dall’Ucraina al Maghreb, al Medio Oriente), per estendere le aree di dominio in una logica essenzialmente neocoloniale. È una creatura occidentale il sedicente Stato islamico, criminale «società per azioni» finanziata dagli Stati Uniti, dalle monarchie del Golfo e dalla Turchia per distruggere la Siria e provocarne la spartizione; l’S.p.A. dei tagliagole è straordinariamente «moderna»: è un’impresa finanziaria (petrolio, mercato dell’arte, ecc.) che sa stare nel mercato con una propria forza di comunicazione; lavora sui simboli (la bandiera nera, la gola tagliata, l’uso strumentale della religione) e attua un «modello di sviluppo» e di espansione che incide positivamente sull’andamento della finanza internazionale (armi e affini). E come ogni impresa quotabile in Borsa, ha un suo portafoglio di clienti e consumatori. I clienti spesso coincidono con i committenti e con i servizi segreti di mezzo mondo; i consumatori sono i combattenti, per lo più mercenari, attratti dalla forza guerriera di un presunto Califfato vendicatore.
Ma l’Isis (così si chiama oggi, ma il fenomeno non è nuovo; nell’Italia degli anni sessanta-ottanta si chiamò «strategia della tensione») è un investimento produttivo anche per le conseguenze che provoca nell’assetto interno degli Stati che lo combattono o dicono di combatterlo. Gli «stati di emergenza» comportano sempre una forte restrizione delle libertà formali, una rapida militarizzazione delle società, e il dilagare di ansie securitarie nelle popolazioni; i poteri oligarchici si compattano, cercano una nuova legittimazione nell’«emergenza», nel gorgo del «nemico» esterno e interno precipita ogni forma di conflittualità sociale, e si rafforzano le politiche di guerra. Con il pretesto di una lotta al terrorismo islamista, limitatamente combattuto sul campo e senza volerne colpire i mandanti, i finanziatori e i gestori politico-militari, le oligarchie occidentali e del mondo arabo stanno trascinando il pianeta in uno scenario di guerra senza confini. L’accerchiamento militare della Russia (la cooptazione del Montenegro nella Nato è solo l’ultimo episodio), il rafforzamento della Turchia come avamposto della Nato e il finanziamento dell’Unione europea al governo di Erdogan per imprigionare in campi di concentramento i rifugiati in fuga dalle aree di guerra, sono atti di guerra. Così in Libia, dove la Nato sta accelerando i tempi di un intervento militare senza mandato Onu, che coinvolge il governo italiano in maniera «privilegiata».
Muri e barriere di filo spinato stanno disunendo un’Europa in stagnazione economica, avvelenata da pulsioni nazionalistiche che esprimono formazioni politiche xenofobe e razziste sempre più aggressive: il fenomeno si manifesta nei confronti dei rifugiati in fuga e degli immigrati in genere, ma ha ovunque implicazioni più complesse nelle realtà della disoccupazione e dell’emarginazione sociale. Il successo del Front national alle elezioni regionali francesi, momentaneamente tamponato dall’union sacrée dei socialisti e dei «repubblicani» di Sarkosy, non è tanto dovuto alle azioni terroristiche del 13 novembre (che hanno comunque contribuito alla svolta a destra dell’elettorato) quanto alla crisi endemica di una società in cui settori importanti delle classi popolari e del ceto medio hanno da tempo perduto ogni rapporto con un sistema politico che non li rappresenta più, riservando condizioni di esclusione sociale alle «classi pericolose», e di apartheid agli immigrati. In questo clima le appartenenze religiose si prestano facilmente al loro uso politico, diventano fattori di schieramento e divisione, sovrapponendosi alle reali dinamiche sociali. La «modernità» dei diritti, della democrazia, della laicità, entra in un pericoloso cortocircuito con antiche tradizioni di violenza e sopraffazione.
In nome della «modernità», l’oligarchia italiana (politica, economica e culturale) sta precipitando il paese in una rapida regressione all’antico: la «modernizzazione» produce disoccupazione e povertà, disgregazione sociale, pulsioni xenofobe e razziste, distruzione dello stato sociale, del lavoro, della scuola pubblica, disinformazione, analfabetismo. Il populista Governo della Mancia (dagli 80 euro al proprio elettorato, ai 500 euro ai diciottenni come antidoto del terrorismo) interpreta le strategie devastanti del neoliberismo in un modo tutto italico: una parvenza di modernità affidata alle magnifiche sorti delle nuove tecnologie di mercato e dei miraggi di un consumismo negato dalla crescente povertà, e la continuità con pratiche di potere, democristiane, che costituiscono l’anima di un partito in cui la componente ex Pci si è da tempo suicidata. Il selfie del rapporto 2015 del Censis è impietoso: un paese alla deriva, prigioniero di una stagnazione economica che rende endemiche la disoccupazione giovanile, la corruzione del sistema politico, l’evasione fiscale, la criminalità, un «letargo esistenziale collettivo». Le «riforme» del lavoro, della scuola, dell’assetto istituzionale, imposte dal governo con arroganza decisionista, a colpi di voti di fiducia di un Parlamento eletto sulla base di una legge elettorale dichiarata incostituzionale, pieno di indagati per corruzione e di impresentabili nominati dai partiti, campioni di un trasformismo straccione, completano il quadro: una kasbah del malaffare, forte delle sue reti di complicità con i potentati economici e finanziari, con tutti i livelli della pubblica amministrazione; per di più, il «giglio magico» del piazzista di Rignano, così «moderno», è espressione diretta delle lugubri reti massoniche dell’area Firenze-Siena-Arezzo. Ora, questa «banda stretta» che si è impadronita di un partito e del governo del paese, smascherata dalla durezza della realtà, sempre più isolata (il recente appello alla base elettorale, con democratici banchetti, si è rivelata un clamoroso flop), può cercare diversivi e vie di uscita sull’antico terreno della guerra. Nello scenario geopolitico attuale, compito dell’Italia è intervenire non tanto in Siria e in Iraq (nello schieramento occidentale campi di razzia degli Stati Uniti, della Turchia, di Israele e delle monarchie del Golfo) quanto in Libia, sotto la direzione della Nato che sta creando le condizioni per un intervento senza mandato Onu. In nome della difesa degli interessi nazionali (il petrolio gestito dall’Eni) dal caos libico creato dall’intervento occidentale del 2011, dal pericolo di una occupazione dei pozzi petroliferi da parte dell’Isis, e dai traffici degli scafisti, l’Italia è pronta a svolgere un ruolo militare, come assicura da tempo un’improbabile ministra della difesa: ne avrà grandi vantaggi il Pil, e i produttori di armamenti già si sfregano le mani; naturalmente gli interessi «nazionali» dell’Italia entreranno in competizione con gli interessi francesi e inglesi.
La «strategia del caos» è tutt’altro che caotica per gli attori principali dell’attuale risiko geopolitico: gli Stati Uniti, l’Isis S.p.A., l’Unione europea, la Russia, l’Iran, la Turchia, le monarchie del Golfo e Israele. È decisamente caotica per quanto riguarda l’Unione europea. «Siamo sull’orlo del collasso», ha dichiarato il socialista Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo l’8 dicembre, riferendosi alle politiche degli Stati dell’Unione rispetto alla questione dei rifugiati. Ma il «collasso» riguarda la tenuta dell’intero ordine economico e politico europeo a trazione tedesca. «L’Unione europea – ha continuato Schulz – sta vivendo il suo momento forse più drammatico dai giorni dell’unificazione e dell’allargamento all’Europa orientale. Ci sono forze che vogliono riportare l’Europa indietro agli Stati nazione». Quello che il socialista Schulz non dice è che l’Unione europea a guida tedesca ha svolto e continua a svolgere un ruolo attivo, con le sue politiche finanziarie di austerità riservate ai paesi del sud Europa, con le sue politiche di aggressione all’Ucraina e di accerchiamento della Russia, con le sue politiche di emergenza securitaria nei confronti dei rifugiati, nel tracollo della governance europea. Il dilagare della xenofobia e del razzismo, dall’Ungheria alla Danimarca, dalla Polonia alla Francia, la «svolta a destra» dell’intero scenario europeo, il nazionalismo, il militarismo, sono i frutti avvelenati di politiche di guerra in nome degli «interessi» di un’economia di rapina prigioniera del proprio fallimentare «modello sviluppo». La realtà incombente del riscaldamento climatico non ammette deroghe: con i cambiamenti climatici e con le loro conseguenze si deve coesistere, è questo il messaggio della stentata conferenza mondiale di Parigi che si è ben guardata dal mettere in discussione multinazionali e petrolio.
In Europa il naufragio della «modernità» del capitalismo sta travolgendo anche le ultime imposture riformistiche della tradizione socialdemocratica, per un capitalismo «dal volto umano». Il neoliberismo condiviso dalle «destre» e dalle «sinistre» dei sistemi politici nazionali produce una sistematica deformazione della «democrazia» in terra di nessuno per le scorribande dei gruppi di potere; le condizioni di costante emergenza per le ragioni più diverse, dalla crisi economica al terrorismo agli impegni neocoloniali, accelerano gli arroccamenti securitari delle oligarchie e il loro strapotere in società non più fondate sul «contratto sociale» tra le classi, confliggendo con gli interessi vitali dei settori sempre più estesi di popolazioni impoverite e proletarizzate, con le tradizioni di lotta per la democrazia, il retroterra culturale e politico della vera modernità occidentale.
Questo carattere delle attuali oligarchie europee assume tinte grottesche nella situazione italiana. Dietro la «modernità» del partito della nazione c’è la tradizione interclassista del fascismo e dei regimi democristiani, il centralismo statalista, la cooptazione di gerarchi locali nelle reti verticali di sottogoverno, la creazione del consenso sociale attraverso la corruzione e un’opera sistematica di manipolazione: l’assuefazione dei sudditi (non più cittadini ma «consumatori») è una virtù da incoraggiare, e il loro destino è irrilevante. Ma basta l’evento simbolico del suicidio di un pensionato imbrogliato dalle banche, per di più iscritto al Pd, per far riemergere in tutta la sua forza la dura realtà. Forte del proprio arroccamento, una sedicente «classe dirigente» stretta intorno a un capo autistico ed egolatra, ragazzo di bottega delle banche e della Nato, si autocondanna all’isolamento e si espone a duri contraccolpi nella sua stessa area di controllo sociale: l’abbandono del Pd da parte di settori sempre più consistenti del tradizionale elettorato ex comunista e cattolico popolare, la ricerca spasmodica di alleanze trasformistiche con la destra e con i suoi settori sociali di riferimento (dalla Confindustria agli evasori fiscali), la denigrazione isterica del Movimento 5 Stelle, sono i segni più evidenti di una crisi in atto.
L’altra Italia della cittadinanza attiva, delle reti sociali di opposizione, dei tentativi di autogestione nelle fabbriche fallite, della difesa della scuola pubblica e del diritto al lavoro, della difesa della Costituzione nata dalla Resistenza, della lotta alla mafia e alla corruzione, della difesa dell’ambiente, trasversale all’intera società e occultata o deformata dalla disinformazione dei media asserviti al potere, l’Italia dei cittadini che non si sentono più rappresentati nelle istituzioni e ne rifiutano i riti di potere, mette all’ordine del giorno la questione della democrazia e di un altro modello sviluppo della società di tutti. Su questo terreno di opposizione e di non collaborazione con i disastri della Storia devono svilupparsi, urgentemente contro la guerra, movimenti di «nuova democrazia» dal basso per costruire, con le armi dell’informazione e dell’azione, dei collegamenti tra esperienze e situazioni, un movimento politico generale di soggettività autonome e attive, una progettualità politica di governo dal basso che ridisegni l’intero assetto sociale. La democrazia è la lotta per la democrazia, il socialismo è la lotta per il socialismo. Al numero 1-2016 del «Ponte» sarà allegato uno dei fascicoli dei nostri «classici»: due scritti di Aldo Capitini, maestro di democrazia diretta, più che socialista, dagli anni quaranta del Novecento, che rivolgiamo ai movimenti che operano per un reale cambiamento della società italiana. Uno dei due scritti ha come titolo Omnicrazia: il potere di tutti. La critica dell’esistente ha bisogno di pensieri lunghi, di «un’alta passione» e di «un’alta visione», come scriveva Capitini in un articolo dell’autunno del 1945, Allarme per i giovani, denunciando il clima di restaurazione di antiche dinamiche oligarchiche e di abbandono dei giovani, passata la tempesta della guerra e della Resistenza.