Il labirinto del silenziodi Luca Baiada

Arriva con un po’ di ritardo, nelle sale italiane, Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli. È dedicato ai processi di Francoforte, celebrati a partire dal 1963, poco dopo il processo Eichmann di Gerusalemme. Anche a Francoforte furono giudicati criminali nazisti, e si giunse a condanne severe, a condanne miti e a qualche assoluzione.

Nel film, un giovane pubblico ministero è sconvolto dall’emergere della verità sui Lager, in particolare su Auschwitz, e dalle dimensioni della rete di complicità morale e di indifferenza, anche nel suo ambiente di lavoro. Superando incertezze e diffidenze, osteggiato da alcuni colleghi, sostenuto da altri, riuscirà a far celebrare un dibattimento di importanza eccezionale. Dalle pieghe della ricostruzione processuale emergeranno fatti e sentimenti inattesi, si apriranno crepe sconcertanti.

La cifra interessante del film sta proprio nello sguardo sul passato e sul presente, attraverso l’indagine sul vissuto unita al vissuto dell’indagine. È una chiave di lettura che arricchisce il discorso: forse la memoria del processo, con la messa in chiaro dell’attività investigativa, è una buona strada per le narrazioni dei nati dopo, un utensile contro l’oblio.

L’attenzione ai fatti, crimini di immensa gravità, calibrata attraverso la ricostruzione processuale, è accompagnata da una messa a fuoco sui protagonisti. Ma si tratta dei protagonisti, a questo punto, non più solo dei fatti, ma proprio del processo, e di ciò che circonda il suo lavoro preparatorio. Ed è un’importante conquista, che fra i protagonisti ci sia proprio il magistrato, in questo caso il pubblico ministero, mentre narrazioni più convenzionali preferiscono, nell’ordine: l’imputato, la vittima, l’avvocato, il testimone.

Ecco che, forzandomi a vincere una certa reticenza, sento la necessità di prendere il mio posto. Devo dichiarare che non sono imparziale, guardando questa pellicola. Ho partecipato a processi sulle stragi nazifasciste in Italia e ho preso la penna per scriverne anche dopo. Altri potranno essere più obiettivi, di chi ha indossato la toga per celebrare dibattimenti, e poi il fustagno per bussare alle porte dei casolari. Ma se incontreranno gli orfani, li sfido a restare imparziali.

Ora che mi sono liberato da un peso, mi sento di dire qualcosa su questo film necessario. Un film da vedere, ma in buona parte irrisolto. Direi che potrebbe essere la prima puntata di un girato che non può avere i titoli di coda: un film sulla giustizia, sui suoi protagonisti e sul suo contrario. È stato notato che il processo di Norimberga realizzò un inedito cortocircuito mediatico: nel dibattimento si proiettarono film e il dibattimento venne filmato. Ecco, forse la giustizia sull’estremo crimine si presterebbe a un cinema estremo sulla giustizia.

Però. Il sottinteso più pericoloso del Labirinto del silenzio è che in Germania si giunse a una denazificazione soddisfacente. Smentire questa leggenda è necessario, purché si sottolinei che in Italia non ci fu la piena defascistizzazione. Le due mancate rese dei conti possono essere lette insieme, ma stando in guardia: non c’è solo il rischio banale che un insuccesso storico giustifichi l’altro, c’è anche il pericolo che un senso di colpa italiano per certe continuità tra fascismo e dopoguerra spinga a tacere, o ad accettare una versione edulcorata di ciò che accadde in Germania.

Chi esce dalla sala porta con sé l’impressione che i tedeschi abbiano capito sino in fondo, che la coscienza tedesca sia definitivamente cambiata, e nell’insieme che i processi abbiano non soltanto emesso condanne meritate, ma anche conseguito gli effetti che la filosofia del diritto, e la stessa nozione di processo che abbiamo ricevuto dal mondo greco, o piuttosto dalla lettura moderna del mito e della tragedia, ci indicano come obiettivo sociale, ampio e condiviso, della celebrazione di un dibattimento. «Se lei crede che si tratti di giudicare chi è colpevole, parzialmente colpevole o innocente, allora non ha capito niente, proprio niente», dice il procuratore generale al giovane pubblico ministero, nel suo momento di crisi.

Questo pieno successo dei processi di Francoforte, come grande esperienza catartica collettiva, sta nelle intenzioni di alcuni interpreti, ma è un miraggio. Già Theodor Adorno, osservatore attento di dinamiche e umori della Germania postbellica, notava in quell’epoca un senso di accomodamento e di conciliazione, e una perdita di senso della realtà del passato, soppiantato da un solido spirito di fiducia, di operosità presentista. Nel film, la fidanzata del magistrato apre una sartoria, con rapido successo commerciale (e l’amore entra in crisi). Forse, Adorno sentiva prima degli altri proprio quella laboriosità ottimista, quel ronzio di macchine e di volontà che ha portato, dagli anni sessanta e in circa due generazioni, alla ricostruzione tedesca, alla riunificazione tedesca e all’affermazione in Europa di una valuta unica con baricentro tedesco. Da rivedere, Anni di piombo di Margarethe von Trotta. È ambientato negli anni settanta, ma torna indietro, ai sessanta, in una scuola: gli adolescenti tedeschi guardano un documentario girato dagli Alleati all’apertura di un Lager; forse proprio uno dei film proiettati a Norimberga. I film di prima, messi dentro i film, si capiscono solo con gli altri film che vengono dopo.

All’epoca dei processi il Muro di Berlino era stato costruito da poco, la crisi dei missili a Cuba era cosa recente, il fronteggiamento dei blocchi passava attraverso l’Europa e comprendeva anche la ricerca di un primato morale. Sarà un caso, ma oggi a Francoforte, dove si celebrarono i processi, l’Eurotower detta la finanza a un continente. La Germania degli anni sessanta stava preparando il suo futuro, molto più di quanto stesse elaborando il suo passato, o piuttosto una cosa era in funzione dell’altra. È duro da ammettere, specialmente visto dall’Italia, paese che pur di non avere un futuro è disposto a ricordare del suo passato alcune cose, solo alcune, a patto che servano a non cambiare nulla, a non compromettersi. Anche il titolo originale di un film, Im Labyrinth des Schweigens, cioè nel labirinto, in Italia diventa il labirinto: così, per guardare da fuori, per non stare scomodi. Se poi si parla di cinema del processo storico, per l’Italia vengono in mente solo Giorni di gloria di Luchino Visconti, col girato documentario del processo Caruso sulle Ardeatine, Il processo di Verona di Carlo Lizzani, e poco altro.

Persino più attento di Adorno, Peter Weiss afferrò cose inconfessabili, tramite e dentro i processi di Francoforte. Basata sulle udienze, la sua opera in versi L’istruttoria: oratorio in undici canti trasmette molto più, di quanto accadde nel Lager. Comunica anche ciò che avvenne davvero in quel processo, coi suoi sussulti, con l’imbarazzo, il cinismo, le esitazioni. È un’opera sul dopo, perché non perde di vista il prima. E comunica quanto accadde dentro Weiss, ebreo sfuggito allo sterminio, ascoltando cosa era stato degli altri, dei sommersi. Il titolo originale del testo di Weiss, Die Ermittlung, ha un senso non del tutto traducibile, che si adatta sia alla trasmissione di una narrazione attraverso il lavoro processuale, cioè alla deposizione di un testimone, sia a una narrazione strutturata ma non esclusivamente giudiziaria. Ermitteln è un verbo buono per il testimone che racconta Auschwitz al giudice, ma anche per chi viene dopo, per chi trasmette un processo per comprendere la giustizia e la memoria. Considerando lo statuto di verità riconosciuto al cinema, anche Il labirinto del silenzio è Ermittlung, perciò chi fa cinema è insieme testimone e giudice: una grossa responsabilità.

Peter Weiss, dicevo, compose i versi cucendo insieme deposizioni e documenti preesistenti, raccolti nel lavoro processuale. Sul diario di un medico tedesco: «Il tribunale possiede il diario / che lei scrisse nel Lager. / Ecco la prima cosa che vi si legge: “Oggi per pranzo arrosto di lepre / una bella coscia / con gnocchi di farina e cavolo rosso. / Poi / sei donne vaccinate da Klehr […] Fatto un giro in bici / con tempo splendido. / Poi / presente a undici esecuzioni / tre donne che imploravano grazia. / Materiale epatico freschissimo / asportati milza e pancreas”». L’effetto è dirompente, è degno del realismo dantesco che Weiss aveva studiato a fondo, dedicando all’Inferno un lavoro pubblicato postumo. Eppure anche all’Istruttoria manca qualcosa: e deve essere così. La memoria non si ferma, lo scorrimento e le lacune sono il suo sostegno. Deve muoversi come l’ala di un aereo, che si regge sul vuoto incessante che crea.

Per esempio, Weiss riporta i nomi degli imputati, ma delle vittime è nominata solo una, Lili Tofler, la ragazza uccisa per aver scritto una lettera a un altro internato. L’istruttoria è degli anni sessanta, e occorreranno anni, decenni, per riuscire almeno a mitigare l’effetto di rapina della scena prodotto dal sangue: l’aguzzino tende a diventare protagonista, come nella cronaca nera. O come nel linguaggio processuale, dove è d’uso chiamare i casi dal nome dell’imputato, non dai nomi dei morti o dei luoghi devastati: infatti si è detto «processo Sommer», e non «processo Sant’Anna di Stazzema», o «processo Jauss» e non «processo Fucecchio». Il borgo massacrato sparisce, l’assassino campeggia. In questo, il film beneficia di conquiste culturali più avanzate, e argina in parte il protagonismo del carnefice. Certo, c’è il rischio del protagonismo del magistrato, ma è un inconveniente meno odioso. Qui c’è in primo piano la sofferenza del pubblico ministero, ci sono i suoi scatti nervosi, i suoi incubi: la scena in cui quest’uomo sogna le sue mani insanguinate possiede una carica di realtà ineguagliabile, e non riesco a ricordare un altro magistrato che sogna, in tutta la storia del cinema. Però, chi ha partecipato a processi come questi sa che non tutti condividono lo stesso turbamento: anzi, c’è chi lo considera un segno di debolezza, persino un tratto professionalmente discutibile. Chi vuole che il giudice impari l’indifferenza dal carnefice, vorrebbe una scuola di cinismo, e troverà balordo questo giovane investigatore, che è capace di piangere, che parla da solo nel bagno, o che si presenta a una festa jazz con la giacca abbottonata e un mazzolino di fiori in mano.

Se poi si accostano i processi di Francoforte alla questione delle stragi, come quelle compiute in Italia, si resta a bocca amara. Certo, il film non ha questo per oggetto, e sarebbe eccessivo pretendere che cambiasse direzione; ma visto da qui, dall’Italia, il tema esige almeno qualche osservazione. Quando si celebrano i processi di Francoforte, in Italia i criminali tedeschi sono stati quasi tutti liberati: già dagli anni cinquanta, sono rimasti a espiare la pena solo Kappler e Reder. Sin dall’immediato dopoguerra, le indagini sulle stragi sono state accentrate a Roma, e dal 1960 sono state imboscate con un provvedimento illegale, una «archiviazione provvisoria». Proprio negli anni sessanta, però, sarà la Germania a chiedere atti processuali all’Italia, per celebrare lì i dibattimenti sulle stragi commesse qui, perché stanno per scadere i termini di prescrizione. Ma è poco più che una finta, non si fa sul serio, e l’esito sarà deludente: una diffusa impunità. E poi, all’epoca dei processi di Francoforte è già in vigore da tre lustri la costituzione tedesca del 1949, che vieta l’estradizione del cittadino, per qualsiasi reato: una norma blindata, un dono postumo del nazismo a tutti i tedeschi, compresi quelli delle generazioni successive. E ancora, nessuno degli imputati a Francoforte appartiene alla Wehrmacht: si tratta di SS. La mostra sui crimini dell’esercito (Verbrechen der Wehrmacht: Dimensionen des Vernichtungskrieges 1941-1944), non si vede neppure all’orizzonte: si svolgerà negli anni novanta, e anche allora sarà osteggiata dai negazionisti e dalle associazioni militari. Il mito che attribuisce tutti i crimini alle SS sarà duro a morire, e ancora adesso c’è chi crede all’innocenza dell’esercito tedesco, mentre proprio sull’esercito pesa la responsabilità della maggior parte delle quindicimila vittime in Italia.

Il quadro generale in cui si inseriscono i processi di Francoforte, insomma, è piuttosto distante da una seria resa dei conti, anche giuridica, e lascia aperte possibilità di lettura meno confortanti di quelle del film. In particolare, consente di intravedere in quell’epoca i gesti fondativi di un mito valoriale, quello che propone, insieme all’onore senza macchia dell’esercito e all’attribuzione di ogni crimine alle SS, l’immagine di una presa di coscienza tedesca, contrita e allo stesso tempo costruttiva. Anche dai processi di Francoforte, dipende la nozione comune secondo cui la Germania si sarebbe emendata; la realtà è che prima e dopo quei processi, in Germania, gli ex nazisti fecero parte dell’esercito, della polizia, della politica e dell’amministrazione. Alcuni di loro avevano partecipato allo sterminio degli ebrei, altri alle stragi nei paesi occupati, compresa l’Italia.

Per esempio. Il maggiore Josef Strauch, comandante del reparto esplorante della 26ª divisione corazzata della Wehrmacht, condannato a Firenze per la strage di Fucecchio di 174 morti ma libero già nel 1950, poco dopo la sua liberazione intraprese una carriera politica di seconda fila nella Repubblica federale tedesca, ed ebbe incarichi pubblici per il resto della vita. Maria Malucchi, quattro mesi di età, la più giovane delle sue vittime, non ebbe altrettante possibilità di successo e nessun film parla di lei. Ecco un altro silenzio, un altro labirinto.