di Marcello Rossi

[Nel n. 3 (maggio-giugno) del 2019 su Zingaretti scrivevamo queste brevi note. Di fronte agli avvenimenti odierni ci sembra che non abbiano perso di attualità e pertanto le riproponiamo al lettore].

Non intendo commentare le elezioni ma parlare del Pd, prendendo a spunto un giudizio di commento alle elezioni europee che un amico mi ha inoltrato via e-mail e che suona così: «la destra sfonda, la lista Pd-Pse è l’unico argine all’onda nera. Con un risultato di ripresa, cui abbiamo contribuito, ma che non va esaltato. Positivo ma ampiamente insufficiente». È la posizione di Zingaretti secondo cui il risultato del Pd è la spia della rinascita del partito: ’a nuttata è passata.

Non sono d’accordo perché a me sembra che Zingaretti nulla di nuovo abbia fatto per giustificare la ripresa, che in realtà ripresa non è in quanto, secondo l’analisi dei flussi elettorali, al Pd si sarebbe riavvicinato solo l’elettorato di Liberi e Uguali più una parte minima (ma su questo i dati sono ancora incerti) di chi precedentemente aveva votato M5S.

Ma il punto non è questo perché della possibile ripresa del Pd si è cominciato a parlare fin da quando Zingaretti ha vinto le primarie. Finalmente, si è detto, il popolo della sinistra ha ritrovato il suo leader, finalmente il Pd lascia i Parioli e torna nelle periferie, tanto che a Casal Bruciato riapre una sezione. Finalmente! Zingaretti è il messia: il popolo della sinistra che fu prima Pci, poi Pds, Ds e infine Pd ritiene che con lui tornerà a vincere in un futuro non troppo lontano.

Questa immagine di un Pd, partito della sinistra, a me sembra una grande mistificazione. E non da ora. Nell’aprile 2007 scrivevo su questa rivista: «i Democratici di sinistra senza battere ciglio hanno sposato tutti i principi del liberismo: in economia libero mercato, concorrenza, privatizzazione, liberalizzazione, mobilità del lavoro, che poi diviene precarietà; nelle istituzioni sistema maggioritario, bipolarismo, riforma del Titolo V della Costituzione, e in prospettiva premierato. C’è da meravigliarsi se questo partito nella sua stragrande maggioranza ha deciso di dar corso a un’unione con la Margherita (gli ex democristiani)? A me sembra, questa, la logica conclusione di un percorso che è iniziato con la Bolognina. E dico di più: il Partito democratico sarà finalmente un chiarimento, o addirittura la fine degli equivoci, all’interno di una sinistra che attualmente non si sa più che cosa sia. I Ds che diventano Partito democratico daranno forma istituzionale a quel grande centro, che in realtà è già operativo, e che intende trasformare – dubito in meglio – la politica italiana».

La mia previsione nella sostanza si è avverata: la sinistra è divenuta l’Araba fenice e il Partito democratico la versione 2.0 della Democrazia cristiana. Purtroppo gli equivoci non sono finiti e ancora molti militanti del Pd credono di militare in un partito di sinistra: addirittura nel Pci del XXI secolo.

E Zingaretti? Per il momento nulla ha fatto per dissipare questi equivoci. Ha confermato alla presidenza del partito un democristiano doc e, per quanto Renzi sia nell’ombra, ha accettato che i suoi palafrenieri mantenessero le loro posizioni. Esempio significativo è quello di Dario Nardella, notoriamente uomo di Renzi – anche se alcune voci sostengono che si sia emancipato –, che, rieletto sindaco al primo turno con più di 108.000 preferenze, dopo questo successo ritiene che il Pd si identifichi con Firenze e in particolare con lui stesso. E forse ha ragione perché Zingaretti fino a ora si è attestato su un piatto continuismo, al di là del richiamo a un vago “rinnovamento” che a più riprese ha portato in campo. Un rinnovamento che non si sa su cosa insista e che non pone la domanda che andrebbe posta a monte: questo Pd è riformabile? È un po’ come quando ci chiedevamo se era riformabile l’Unione Sovietica, tanto che Zingaretti, si parva licet componere magnis, sembra essere, purtroppo per lui, il Gorbaciov del Pd.

Il Pd sembra non essere riformabile non solo perché in quella che fu detta una fusione a freddo mal riuscita hanno finito per avere la meglio le forze della conservazione, ma fondamentalmente perché per la sinistra, che il Pd a parole dice di voler ricostruire, c’è prima da sciogliere il dubbio se esista. Una sinistra si ricostruisce solo se questa stabilisce legami forti con la parte più debole della società. Il libero mercato, le liberalizzazioni, le privatizzazioni e quant’altro il nuovo riformismo del Pd ha postulato negli anni non sembrano essere le medicine giuste a creare questi legami.

C’è chi ritiene (penso in particolare a Cacciari e a Travaglio) che la via del rinnovamento del Pd, quale forza di opposizione alla destra imperante, sia la realizzazione di un accordo politico con il M5S. A parte la difficoltà – specialmente all’interno del M5S che potrebbe ancora perdere una parte dei suoi simpatizzanti – di dar corso a un simile progetto, siamo sicuri che questa operazione favorirebbe la rinascita della sinistra o invece non rafforzerebbe l’esistente, cioè l’attuale Pd?

Dunque, torno a ripetere: questo Pd, quinta essenza del liberismo politico ed economico, espressione della conservazione, non è riformabile e va sciolto e dalle sue ceneri si deve provare a far rinascere quell’idea di socialismo per cui i nostri maggiori combatterono e morirono.

Si dirà: belle parole, ma come realizzarle? Do una risposta semplice e difficile e assolutamente fuori dai tempi: occorre mettere da parte ogni velleità di nuovismo e ogni scorciatoia politicista e tornare a studiare il socialismo del XIX secolo e gli sviluppi, con le sue luci e le sue ombre, che questo ebbe nel XX secolo per comprendere – al di là e oltre ogni storicismo – come dovrà essere il socialismo del XXI secolo. La sinistra oggi o è socialista o non è.