di Marco Dardi
Il prossimo venerdì 6 dicembre, presso la Biblioteca di Scienze Sociali del Polo universitario di Novoli, si terrà un incontro di presentazione del Fondo costituito da carte e libri appartenuti a Giacomo Becattini (Firenze 1927-Scandicci 2017) e donati dalla famiglia all’Università di Firenze. Il fondo comprende l’intero archivio personale di Becattini e una parte della sua biblioteca di lavoro. L’inventario del fondo sarà disponibile online non appena ultimate le operazioni di riordino e catalogazione di tutti i materiali contenuti. Un’altra parte della biblioteca di lavoro di Becattini, ristretta tematicamente a pubblicazioni su economia italiana e distretti industriali, fu donata in vita da lui stesso alla biblioteca del Polo universitario Città di Prato, dove è andata a formare un altro Fondo Becattini esistente dal 2003. La parte libraria del nuovo fondo ha carattere meno specialistico e copre tutta la varietà di temi di cui Becattini si è occupato nel corso di una carriera che va dagli anni 50 del secolo scorso fino quasi alla data della sua scomparsa – con un nucleo significativo di volumi su società, cultura e pensiero economico-sociale dell’era vittoriana. Entrambi i fondi, il nuovo e quello pratese, confluiscono nel Sistema Bibliotecario di Ateneo fiorentino e quindi di riflesso in quello della regione toscana (SBART).
Il fondo librario nella sua interezza, oltre a contenere volumi non facilmente reperibili altrove, consente una mappatura accurata dell’itinerario di ricerca di Becattini attraverso le sue scelte bibliografiche e i molti segni d’uso sparsi nei libri. Ma la parte di massimo interesse del fondo è senza dubbio quella archivistica: corrispondenza con figure più o meno eminenti dell’epoca da lui attraversata, appunti di lavoro, progetti, bozze di scritti pubblicati o rimasti inediti, ritagli di stampa etc, aprono uno scorcio particolarmente illuminante sul contesto in cui Becattini si è mosso e rivelano dietro tante sue scelte di ricerca reazioni a momenti di tensione storica, sentimenti di disagio, frustrazione o speranza, tentativi di influenzare processi di cambiamento in corso – in sintesi, il nocciolo tutto politico della carriera di uno studioso con gli occhi bene aperti sulla società in cui gli è capitato di vivere. Scrivo queste note sotto l’impressione lasciata dal lungo minuzioso lavoro di spoglio delle carte condotto insieme con Fabio Sforzi nella tranquilla ospitalità di casa Becattini a Scandicci. Pur avendo familiarità di prima mano con Becattini per aver collaborato con lui, in forme e in fasi diverse su un arco di tempo di quasi cinque decenni, per entrambi l’inventariazione dell’archivio è stata un’esperienza di scoperta, come ripercorrere una realtà che avevamo vissuto e credevamo di conoscere ma senza più i paraocchi di cui all’epoca eravamo portatori inconsapevoli. Storici professionali più distaccati di noi troveranno certamente in queste carte evidenze preziose per ricostruire dinamiche episodi e atmosfere della storia italiana recente.
Siccome il tempo consuma rapidamente la memoria, non sarà inutile qui cercare di fissare sinteticamente l’impressione del personaggio suscitata dallo spoglio del suo archivio. Giacomo Becattini è stato uno degli economisti italiani che nell’ultimo terzo del 900 hanno inciso di più nel dibattito politico-economico del nostro paese. A differenza di oggi, in quegli anni gli economisti, critici o consiglieri del principe che fossero, erano interpellati e ascoltati in quanto depositari di competenze richiestissime da forze politiche alle prese con il compito di regolare processi di trasformazione strutturale dirompenti: in agenda, non l’ossessiva gestione del debito da una legge finanziaria all’altra ma l’industrializzazione a toppe del paese, il così detto dualismo, lo scivolamento dell’economia verso un modello export-led, la ricerca di una via percorribile di centro-sinistra insieme con l’avviamento del decentramento regionale, ipotesi di programmazione distribuita sul doppio livello centrale-regionale. Contemporaneamente, sul fronte della cultura economica e dell’accademia il fiorire di uffici studi pubblici e privati, di nuove facoltà di economia (Cosenza, Modena, Siena), di riviste e iniziative editoriali; la sprovincializzazione dei giovani economisti emergenti, quasi tutti con almeno una fase di formazione realizzata all’estero, per lo più Inghilterra o USA; l’ascendente culturale di un gruppo accademico di giovani innovatori, dal 1964 per due decenni riuniti nel glorioso “gruppo CNR per lo studio dei problemi economici della distribuzione, del progresso tecnico e dello sviluppo”; un capolavoro di rarefazione teorica come Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa calato nella lotta politico-sindacale e trasformato in vessillo di un certo neo-marxismo.
In questo contesto storico la vicenda personale di Becattini si svolge inizialmente ai margini, in una Firenze e una Toscana un po’ defilate rispetto al resto d’Italia, ma con una intensa voglia di partecipazione al rinnovamento che sente nell’aria, sia nell’economia e società italiane sia nel pensiero economico. Alle spalle, nella sua formazione, due forze che al tempo stesso lo motivano e lo reprimono: il PCI di Togliatti, di cui è militante fino al 1958 ma con entusiasmo rapidamente declinante dopo Polonia e Ungheria; e il seminario fiorentino del professore di economia politica Alberto Bertolino, liberalsocialista vicino a Calamandrei e Codignola, punto di riferimento importante nella storia di questa rivista, amico di Giorgio La Pira. Da una parte una scuola di morale politica ma nemica della libertà di pensiero, dall’altra una scuola intellettualmente liberale ma di indirizzo neo-idealista ed estranea (anche se non pregiudizialmente ostile) al marxismo. Una frizione fonte di sofferenze interiori ma anche di energia, un’energia che si scarica su due direzioni di ricerca inizialmente poco o punto comunicanti, e solo a distanza di tempo convergenti fino a sovrapporsi. La prima è la ricerca sull’evoluzione dell’economia toscana a partire dal dopoguerra, un’indagine inquadrata fin dai primi anni 60 nell’ambito della programmazione regionale e condotta per un periodo (1968-1973) stando alla direzione dell’appena creato IRPET, istituzione allora barricata contro il pericolo di intrusioni partitiche grazie a amichevoli “tutori” politici come Elio Gabbuggiani e Giuseppe Parenti. La seconda linea di ricerca, squisitamente accademica, riguarda le difficoltà e le implicazioni della teoria economica dei mercati imperfetti o monopolistici. E’ una ricerca che col tempo vira dalla teoria alla storia del pensiero economico e finisce col focalizzarsi su uno dei grandi economisti della transizione post-classica, il vittoriano di Cambridge Alfred Marshall: un autore che, al momento in cui Becattini decide di occuparsene con sistematicità nel 1970, è decisamente fuori moda; ma è trattato con rispetto in ambienti marxisti (Antonio Pesenti) per il suo essere sostenitore di una forma interessante di industrialismo sociale, ed è preso sul serio persino da Sraffa nonostante lo avesse pesantemente criticato sul piano strettamente analitico.
Col tempo, la ricerca sulla Toscana ha portato Becattini a promuovere quella svolta fondamentale nell’interpretazione dello sviluppo economico italiano del dopoguerra che consiste nella scoperta del ruolo progressivo di quelle concentrazioni locali di piccole imprese incontrate tante volte sul terreno, tipiche del tessuto industriale di aree distribuite soprattutto nell’Italia di centro-nord est, che oggi conosciamo con il termine (da lui lanciato nel 1978) “Distretti Industriali” (DI). Un’interpretazione entrata immediatamente in conflitto non solo con il suo partito di origine, che dava di quel tipo di industrializzazione una lettura tutta diversa e fondamentalmente negativa, ma anche con visioni più convenzionali e meno politicizzate delle prospettive di sviluppo dell’economia italiana. Nel prosieguo degli anni 80 e 90 l’indirizzo, diciamo genericamente “localistico”, di Becattini trova alleati in Giorgio Fuà, Sebastiano Brusco, Arnaldo Bagnasco; solo in parte convince Sylos Labini; si scontra polemicamente con meridionalisti del calibro di Augusto Graziani e poi, ed è storia recentissima, con i sostenitori del così detto “declino italiano”. All’inizio un indirizzo fra tanti nel dibattito sul modello da seguire per l’economia italiana, si è gradualmente fatto strada fino a diventare un protagonista con cui chiunque avesse altre linee da proporre doveva prima o poi misurarsi.
Sull’altro fronte, la ricerca su Marshall è sboccata in una rilettura che ha messo in luce aspetti del pensiero di questo economista che la letteratura prevalente non aveva saputo cogliere o valorizzare, e ciò ha guadagnato a Becattini una reputazione di interprete originale e innovativo, a Marshall una nuova giovinezza come autore che ha qualcosa di rilevante da dire anche per la teoria economica dell’ultimo scorcio del secolo che lo aveva affossato. La convergenza fra questa linea di ricerca e quella sui DI si realizza dopo il 1975, quando per la prima volta l’attenzione di Becattini è attratta da un argomento dell’economia industriale marshalliana – le economie di scala, sotto certe condizioni, sono egualmente accessibili indipendentemente dall’essere la produzione concentrata in pochi grandi stabilimenti o distribuita fra tanti piccoli stabilimenti aggregati nello stesso distretto – di cui farà ampio uso in seguito per spiegare il non-svantaggio, qualche volta anzi il vantaggio competitivo dei DI nei confronti di strutture industriali più concentrate. Da allora, in misura crescente, la ricerca su Marshall si concentra sugli aspetti della sua opera più funzionali a costruire una definizione del DI come concetto teorico generale e non, come era in Marshall, semplice generalizzazione empirica: da storiografica diventa ricerca politico-industriale. Ma questa è anche la fase in cui Becattini è coinvolto nel progetto di una lunghissima (1979-1997) ricerca multidisciplinare sulla storia di Prato nel dopoguerra, ed è indubbio che la realtà di questa città analizzata minuziosamente in tutte le sue caratteristiche lo mette di fronte a un prototipo vivente di cos’è, come nasce e come funziona un DI di successo. Inevitabilmente, concetto di DI e storia ragionata di Prato “città del tessile” dal dopoguerra agli anni 80 finiscono con l’alimentarsi a vicenda. Se alla fine di questo decennio Becattini decide di attribuire al concetto di DI la qualifica di “Marshalliano”, questo è per designare non tanto un’origine – l’origine rimane a tutti gli effetti toscana – quanto un’affinità culturale e ideologica con il modo in cui Marshall concepisce il rapporto società-industria, in un certo senso un’appartenenza di scuola.
Becattini ha cominciato relativamente tardi a muoversi sulla ribalta internazionale e quando lo ha fatto è stato sempre con una certa ansia di rientro alla base. L’impressione è quella di un suo radicamento locale molto forte anche sul piano intellettuale. Combinando l’ampiezza delle letture con l’esperienza di una realtà regionale limitata ma intensamente vissuta, partecipata e osservata, Becattini è riuscito a portarsi dalla dimensione locale a una virtualmente universale perché nel suo oggetto di attenzione è riuscito a identificare il modello di una possibile soluzione a un problema, appunto, universale: in che modo una società può ritagliarsi un’organizzazione industriale a misura della propria cultura e capace di resistere alla pressione selettiva dei mercati esterni. Il ruolo della “toscanità” in tutta questa operazione non è stato accidentale. E forse, proprio in questo radicamento locale più che in astratte considerazioni metodologiche va cercata l’origine della sua esigenza, costantemente ribadita, di multidisciplinarità nella ricerca sul campo: se il suo punto di partenza era l’esperienza diretta di forme di vita in cui socialità e modo di soluzione del problema economico si presentano indissolubili, è chiaro che non poteva essere soddisfatto di una ricerca condotta esclusivamente con i metodi dell’economia.
Becattini ha offerto alla discussione una possibile risposta politica a quello che lui percepiva come il disagio della sua epoca. Se è vero che il disagio di oggi è figlio di quello, allora non è ancora il momento di considerare chiusa la discussione. La presentazione dell’archivio del 6 dicembre non deve servire ad “archiviare” Becattini: al contrario, dev’essere vista come un atto di apertura per rimettere in circolo idee che forse non hanno esaurito la propria carica.