Jean-Luc Mélenchondi Rino Genovese

Jean-Luc Mélenchon non è simpatico. Se vogliamo, è un idiota in senso etimologico – uno che pensa solo a se stesso e al proprio tornaconto elettorale. Hollande, alludendo qualche giorno fa a lui, lo ha definito un tribuno; potrei aggiungere anche un demagogo, per averlo visto durante la campagna elettorale del 2012 in un comizio: un insieme di frasi fatte che andavano dalla “rivoluzione cittadina” (nel senso dei “cittadini” della Rivoluzione francese) alla proclamazione di una sesta repubblica (come se non ce ne fossero state già in numero sufficiente nella storia di Francia). La sua posizione sull’Europa è ambigua, con una strizzatina d’occhio all’elettorato lepenista: in sintesi, “o la cambiamo o ce ne andiamo”. Sulla prima parte dell’alternativa, perfettamente d’accordo: l’Europa attuale va profondamente trasformata, e uno dei grandi demeriti di Hollande è stato quello di essersi fatto eleggere su un programma che prevedeva una rinegoziazione del patto di stabilità europeo (leggi: dell’austerità in chiave tedesca) ma di non averne poi fatto nulla. Sulla seconda parte dell’alternativa, invece, c’è da nutrire seri dubbi: che cosa vorrebbe dire andarsene via dall’Europa, per un paese come la Francia, se non aprire al nazionalismo e al protezionismo? Dal processo di costruzione europea, per quanto sia nell’impasse o forse proprio per questo, oggi si può uscire solo da destra, dando la stura, volontariamente o involontariamente, a tutti i peggiori sentimenti regressivi e alle paure incontrollate del cosiddetto popolo.

E qui veniamo al punto. Il “popolo” è quello che la filosofa Chantal Mouffe, una delle principali fonti d’ispirazione teorica del fenomeno Mélenchon, vorrebbe costruire dentro una visione dell’ “autonomia del politico” di marca schmittiana declinata a sinistra. È possibile un’operazione del genere? Più volte (anche in un recente saggio pubblicato dalla Manifestolibri) mi sono criticamente soffermato su questa prospettiva, come la si chiama, di un “populismo di sinistra”. Secondo me è pura aria fritta, il populismo contemporaneo – a differenza di quello russo dell’Ottocento, basato sull’idea di una centralità della comunità contadina – essendo sempre, al fondo, di destra, anzi una conseguenza e una trasformazione delle esperienze totalitarie del Novecento. Una politica di sinistra oggi, inserita in un orizzonte socialista, dovrebbe piuttosto avere come faro un individualismo sociale alternativo all’atomizzazione individualistica neoliberale, rivolto quindi ai gruppi d’individui anziché a un immaginario quanto indistinto “popolo”. In un mondo multiculturale (che preferisco definire il mondo dell’ibridazione culturale, per non perdere l’elemento di drammaticità insito nella situazione) l’idea di popolo assume, anche al di là delle intenzioni, una pericolosa coloritura etnica.

La prospettiva indicata da Mélenchon, nonostante i suoi richiami alle virtù multiculturali della Francia (bisognerà pure attirare i voti delle banlieues), non sfugge a una forma di autoconsistenza identitaria che, in un paese storicamente segnato dal nazionalismo come la Francia, non sarebbe da incoraggiare. Per il resto, il suo programma – appoggiato da un Pcf da tempo residuale e da un certo numero di gruppi, tra cui spicca quello “personale” di Mélenchon stesso – non si distingue granché da quello del candidato del Partito socialista. Il problema è che quest’ultimo, Benoît Hamon, non trova l’appoggio da parte del suo stesso partito. Ciò spiega perché, a dieci giorni dal primo turno elettorale, Hamon sia crollato nei sondaggi e Mélenchon navighi, invece, verso il terzo posto dopo Macron e Marine Le Pen, entrambi appaiati in testa.

L’elettore di sinistra si domanda: perché votare per uno come Hamon, condannato a perdere già dal suo stesso partito, e non piuttosto per Mélenchon che almeno nei comizi dimostra di sapere abbaiare? Inoltre, ferma restando la dinamica “centrista” incarnata da Macron (segno, del resto, di un’implosione della politica francese, essendo Macron un candidato “fai da te”, senz’alcun partito alle spalle), non sarà meglio sostenere Mélenchon per tentare di riequilibrare, sia pure solo in parte, una barca inesorabilmente inclinata verso destra?