decolonizzazionedi Rino Genovese

Con il trascorrere delle ore, si precisano i contorni della terribile notte parigina di venerdì 13 novembre. E sono i soliti: gli attentatori, i jihadisti disposti a farsi saltare in aria, sono giovani europei, francesi e belgi, usciti dalla immigrazione post-coloniale. Figli, a tutti gli effetti, di quella République con cui a Parigi ci si sciacqua la bocca, ma che ha allevato una generazione di paria.

Andate nelle banlieues, toccherete con mano che cos’è l’odio nei confronti del razzismo strisciante che pervade la Francia, e che sarebbe riduttivo riassumere con il nome di Marine Le Pen. Non sono solamente i dati statistici a dirlo (la disoccupazione giovanile, il fallimento scolastico: chi è nato e vissuto nelle periferie francesi ha il doppio delle possibilità di non terminare gli studi, e parliamo della scuola dell’obbligo); sono soprattutto i cappucci delle felpe perennemente alzati, gli sguardi torvi. Là c’è una numerosa schiera di arrabbiati, alcuni dei quali disposti a diventare dei kamikaze e a fare un macello.

Non bisogna credere che, da un punto di vista urbanistico, le banlieues siano un disastro – tutt’altro: a Scampia si sta molto peggio. Ma c’è uno scarto sostanziale tra le periferie delle grandi città italiane (soprattutto Roma e Napoli) e le periferie francesi. Si tratta della differenza culturale. In Italia, grosso modo, i giovani sono tutti controllati dalle famiglie, sono immersi nella stessa temperie familistica o familistico-criminale, quando si tratta della malavita organizzata. Nei paesi dalla storia coloniale e post-coloniale più complessa della nostra, invece, la differenza culturale è vissuta come una riappropriazione delle radici da parte di giovani per lo più allo sbando, provenienti da gruppi familiari numerosi e scombinati (c’è persino una psichiatria specializzata nel trattamento delle sindromi depressive derivanti dal passaggio da una cultura a un’altra). Del resto, pensate al rap: che cos’è questo ritmo musicale dei giovani delle banlieues se non un grido di dolore?

Insomma la Francia e il Belgio hanno un problema sociale-generazionale interno. Sartre l’aveva chiamato una volta “colonialismo a domicilio”. Significa che il colonialismo si è prolungato in una sorta di servitù nella stessa metropoli. Soprattutto, nella misura in cui la decolonizzazione si è realizzata, come possiamo constatare oggi, è un processo andato a male. Come potrebbe dirsi di una mela, promettente a mangiarsi ma dentro marcia.

Che cosa ha fatto marcire la decolonizzazione? Un insieme di fattori, naturalmente. L’Algeria, per fare un esempio macroscopico (a proposito, ai suoi tempi anche il Fronte di liberazione metteva le bombe nei caffè e mieteva vittime civili, cioè all’occorrenza praticava il terrorismo), non ha mantenuto le promesse. Una casta politico-burocratica, arricchita con i proventi della manna petrolifera, ha confiscato la liberazione di quel paese riducendola a poca cosa. I decenni della divisione del mondo in blocchi contrapposti, con il pretesto dell’antimperialismo, hanno prodotto i mostri alla Gheddafi. Sempre è rimasta una sorta di supervisione neocoloniale, da parte dei paesi europei (in particolare la Francia), sulle realtà uscite dall’apparente decolonizzazione. Il fatto che Hollande – sia pure chiamato da una parte degli stessi contendenti della locale guerra civile – abbia fatto la scelta d’intervenire nel Mali, è stato l’ennesimo esempio che, in Africa, la République non ha mai mollato la presa.

Non c’è nessuna guerra in Europa, e neppure dell’Europa contro chissà chi. C’è invece una questione post-coloniale (in cui il “post” è pressoché un eufemismo) che si collega drammaticamente alla perdita d’influenza, a livello mondiale, di un’alternativa che non sia chiliastico-religiosa come quella prospettata dall’islamismo radicale. L’utopia politica e la pratica messianica possono intrecciarsi, quando va bene – ma possono anche essere in netto contrasto e in competizione tra loro; se l’utopia perde terreno, al contrario il fanatismo, che fa leva sulla disperazione, può guadagnarne. È ciò che sta accadendo. La mancanza di un’utopia politica da offrire alle nuove generazioni, e la ricerca identitaria che ne consegue, danno un senso alle scelte più estreme.

Di tutto questo Hollande dimostra di non aver capito nulla. Il suo è un doppio fallimento: come presidente socialista, che avrebbe dovuto far scendere la curva della disoccupazione e non c’è riuscito, e come presidente francese in generale, che non ha saputo – per il tramite del suo governo – migliorare i servizi di intelligence, unica risposta seria a un terrorismo interno, sia pure con collegamenti internazionali. Ma per l’intelligence ci vorrebbe, se non altro, un dirigente politico intelligente, non uno che, bombardando in Siria, fa crescere la rabbia nelle periferie ed espone il proprio paese alle ritorsioni.