re_vittorio_emanuele_iidi Tomaso Montanari

La nascita del governo Conte non deve distogliere da ciò che il suo travagliato avvento ha rivelato. In particolare, non deve distogliere da una seria analisi del discorso che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha tenuto, in diretta televisiva, la sera di domenica 27 maggio 2018: un discorso che sarà ricordato molto a lungo. Sicuramente come uno svelamento drammatico dei reali rapporti di forza che governano la post-democrazia italiana. E, probabilmente, anche come un punto di non ritorno.

Non ci sono veri precedenti per la vicenda culminata in quel discorso: non ce ne sono per la decisione del presidente di assumersi la responsabilità di non nominare un ministro, e dunque di far saltare un governo che poteva contare su una maggioranza assoluta, sia parlamentare che elettorale (due cose stavolta miracolosamente coincidenti). In tutti i casi passati in cui cronache più o meno sicure (comunque basate su fonti orali o su diari privati) attestano un attivismo del presidente della Repubblica nella scelta dei ministri, esso si era sempre manifestato attraverso una persuasione che aveva indotto il presidente del Consiglio incaricato a proporre formalmente ciò che il capo dello Stato gradiva.

E dunque in tutti quei casi la lettera e la sostanza dell’articolo 92 erano salvi: «il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri». (Vale la pena di notare, per inciso, che se la nomina è affidata al capo dello Stato non è infatti per invitare a un “concerto” tra i due presidenti, di cui non c’è traccia, ma perché il presidente del Consiglio e i suoi ministri, essendo nominati dalla stessa autorità, siano sullo stesso piano, parti di un organo collegiale presieduto da un primo tra pari che non ha potere di revoca.) Ebbene, non era invece mai successo che un presidente della Repubblica non riuscisse a convincere l’incaricato a formulare una proposta “gradita”.

Non sappiamo perché questa volta sia invece accaduto: per la malafede di Matteo Salvini, desideroso di far saltare tutto? Perché invece lo stesso Salvini voleva testare fin dall’inizio quanto avrebbe avuto mano libera, preferendo rinunciare in caso di esito negativo del test? Per l’esile personalità di Giuseppe Conte, non titolato a mediare e a decidere alcunché? Non lo sappiamo, appunto: ma non è rilevante.

Ciò che è rilevante è che il presidente si è rifiutato di firmare un decreto di nomina: e che il presidente del Consiglio a quel punto non ha cambiato proposta, e ha invece rimesso l’incarico. Anche qua non sappiamo quale sia stata la vera ragione che ha indotto Mattarella a un atto così grave. In assenza totale di precedenti, si potrebbe pensare, per analogia alla prassi con cui si attua l’articolo 74, che egli non abbia voluto nominare Paolo Savona al ministero dell’Economia per «evidenti motivi di incostituzionalità». Fosse così, si potrebbe e dovrebbe discutere: quali erano questi motivi? Quale articolo della Carta riguardavano? E dove li ravvisava: nel curriculum, nei libri, nelle opinioni, nei propositi della personalità proposta dall’incaricato?

In ogni caso, il capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, ha reagito chiedendo – in diretta tv, sul servizio pubblico della Rai: all’interno del programma di Fabio Fazio: particolare grottesco – la messa in stato d’accusa del presidente per attentato alla Costituzione (articolo 90). Dalla generale levata di scudi contro questa proposta estrema si è separata la voce del giurista Ugo Mattei, che ha detto in pubblico ciò che molti suoi colleghi, tra cui non pochi costituzionalisti, hanno detto in privato: e cioè che ricorrevano in pieno gli estremi per l’applicazione dell’articolo 90, un evento traumatico ma meno traumatico del precedente che si è andato a consolidare, e che imprime all’istituzione della presidenza della Repubblica una torsione inaudita. Perché in futuro sarà impossibile impedire a un altro presidente di invadere con forza la sfera dell’autonomia dei prossimi presidenti del Consiglio. È, oggettivamente, un passo nella direzione di una repubblica presidenziale: che è quanto di più remoto dal progetto della Costituzione.

La clamorosa, e un poco farsesca, “inversione a u” dei giorni immediatamente successivi (e cioè il rientro in scena dell’incaricato congedato, e la nomina a vicepresidente del Consiglio di colui che poche ore prima aveva annunciato la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica) non cambia la sostanza delle cose. Perché delle due l’una: o il giovedì Mattarella ha dato disco verde al governo Conte perché è riuscito a imporre a quel governo il proprio indirizzo politico (violando così la Costituzione, art. 95); o Mattarella ha deciso di abdicare alle prerogative che si era riservato la domenica precedente. Essendo del tutto evidente che il principio di non contraddizione è violato dal fatto che domenica Paolo Savona non può essere ministro perché è nemico dell’Europa, e quattro giorni dopo Savona viene nominato ministro all’Europa.

In ogni caso, ciò che resta indelebile – e ciò che c’è di più inaudito – più ancora dell’atto del presidente Mattarella, è appunto il suo discorso.

Dopo una lunga introduzione in cui si riassumevano le vicende delle ultime settimane in modi e con toni che pure interesseranno gli studiosi dell’istituzione della presidenza, Mattarella è arrivato ad affrontare il nodo dello scontro istituzionale, descrivendone la genesi in termini assai espliciti: «Avevo fatto presente, sia ai rappresentanti dei due partiti, sia al presidente incaricato, senza ricevere obiezioni, che, per alcuni ministeri, avrei esercitato un’attenzione particolarmente alta sulle scelte da compiere. Questo pomeriggio il professor Conte – che apprezzo e che ringrazio – mi ha presentato le sue proposte per i decreti di nomina dei ministri che, come dispone la Costituzione, io devo firmare, assumendomene la responsabilità istituzionale. In questo caso il Presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia, che non ha mai subito, né può subire, imposizioni. Ho condiviso e accettato tutte le proposte per i ministri, tranne quella del ministro dell’Economia».

Se il discorso si fosse arrestato a questo punto, tutta la vicenda sarebbe stata consegnata in modo quasi esclusivo alla riflessione critica e alla ricerca del diritto costituzionale.

Ma ciò che viene subito dopo – e cioè la trasparente ammissione delle ragioni che hanno spinto il presidente a questa decisione – ha squarciato, in diretta televisiva, il “velo del diritto” rivelando di colpo la vera natura del braccio di ferro consumatosi tra gli arazzi e i tappeti del Quirinale. Ma «squarciare il velo del diritto – ammoniva Hans Kelsen – è pericolosissimo: dietro quel velo si cela infatti la Gorgone del potere, capace di pietrificare col suo sguardo chi se la ritrova dinnanzi» (così il costituzionalista Francesco Pallante, in un acuto e puntuale commento uscito su «il Fatto Quotidiano» del 31 maggio 2018).

Ecco dunque il testo integrale di questa seconda parte dell’intervento presidenziale:

La designazione del ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato, di fiducia o di allarme, per gli operatori economici e finanziari. Ho chiesto, per quel ministero, l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con l’accordo di programma. Un esponente che – al di là della stima e della considerazione per la persona – non sia visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano.

A fronte di questa mia sollecitazione, ho registrato – con rammarico – indisponibilità a ogni altra soluzione, e il Presidente del Consiglio incaricato ha rimesso il mandato.

L’incertezza sulla nostra posizione nell’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane. Occorre fare attenzione anche al pericolo di forti aumenti degli interessi per i mutui, e per i finanziamenti alle aziende. In tanti ricordiamo quando – prima dell’Unione Monetaria Europea – gli interessi bancari sfioravano il 20 per cento.

È mio dovere, nello svolgere il compito di nomina dei ministri – che mi affida la Costituzione – essere attento alla tutela dei risparmi degli italiani. In questo modo, si riafferma, concretamente, la sovranità italiana. Mentre vanno respinte al mittente inaccettabili e grotteschi giudizi sull’Italia, apparsi su organi di stampa di un paese europeo. L’Italia è un Paese fondatore dell’Unione europea, e ne è protagonista. Non faccio le affermazioni di questa sera a cuor leggero. Anche perché ho fatto tutto il possibile per far nascere un governo politico. Nel fare queste affermazioni antepongo, a qualunque altro aspetto, la difesa della Costituzione e dell’interesse della nostra comunità nazionale. Quella dell’adesione all’Euro è una scelta di importanza fondamentale per le prospettive del nostro Paese e dei nostri giovani: se si vuole discuterne lo si deve fare apertamente e con un serio approfondimento. Anche perché si tratta di un tema che non è stato in primo piano durante la recente campagna elettorale.

Il “bene” che il presidente ha voluto tutelare è dunque la “percezione” della posizione politica dell’Italia da parte dei mercati finanziari. Il ministro dell’Economia sarebbe innanzitutto un «messaggio» a questi ultimi: una definizione assai sbilanciata nel senso di una “democrazia recitativa” (Emilio Gentile) in cui quel che davvero conta è la comunicazione. Il problema è dunque percettivo e il punto, sono le parole presidenziali, è come un nome o un altro «sarebbe visto». Perché la percezione avrebbe influenzato i mercati, turbandone la “psicologia collettiva” e inducendoli a mettere a rischio il bene che il presidente, in ultima analisi, ha scelto di proteggere sopra ogni altro: i «risparmi degli italiani». Non sfuggirà l’estrema labilità di questa motivazione: messaggio, percezione, influenza. Se la sfera semantica è questa, si può facilmente capire quanto disgraziatamente ampia e soggettiva è la discrezionalità che questo precedente dischiude ai prossimi inquilini del Quirinale.

C’è di peggio. Per orientare messaggi e percezioni, Mattarella traccia esplicitamente una linea che sottrae alle Camere appena elette, e agli esecutivi che da esse riceveranno una fiducia, una scelta cruciale: quella di una possibile uscita dalla moneta unica europea.

Nelle parole del presidente questa scelta di inaudita gravità appare del tutto consapevole («non lo faccio a cuor leggero») e coincide con «la difesa della Costituzione e dell’interesse della nostra comunità nazionale». Come si vede, il problema è ancora una volte duplice: sul piano formale il presidente, politicamente irresponsabile per dettato costituzionale, decide quale sia l’interesse nazionale e impone questa decisione al Parlamento e al governo. Sul piano sostanziale, egli decide che interesse nazionale e permanenza nell’euro coincidano perfettamente. Si badi: come si vedrà nel prossimo periodo, Mattarella non sostiene, come una parte della dottrina ha provato a fare, che la partecipazione dell’Italia all’Unione europea, o addirittura alla moneta unica, siano irreversibili in quanto ormai costituzionalizzate. Avesse detto questo, ci sarebbe stato da discutere, e molto. Ma ciò che ha detto è invece formalmente ancora più grave: perché egli non ha detto di voler difendere la Carta, ma un «interesse nazionale» che egli stesso ha individuato.

Conscio dell’enorme responsabilità che si assume, Mattarella afferma quindi che sarebbe legittimato a decidere un’uscita dall’euro solo un Parlamento eletto dopo una campagna elettorale in cui quel tema avesse avuto un ruolo «di primo piano». E qua, anche trascurando la vaghezza di questa unità di misura e l’autolesionismo dell’evocazione di un simile scenario, colpisce l’istituzione e la dichiarazione di una sorta di macroscopico vincolo di mandato: il presidente mette in discussione la sovranità del Parlamento condizionandola a una singolare forma di democrazia diretta che coinciderebbe con la qualità della campagna elettorale che precede l’elezione delle Camere. Un passaggio in cui si vede, per così dire, a occhio nudo come un senso comune ormai lontanissimo dal dettato costituzionale abbia raggiunto e colonizzato non solo l’immaginario, ma anche la dottrina ufficiale, della più alta magistratura dello Stato.

Ma il punto politico va cercato in un altro passaggio. Quello in cui Mattarella afferma che il suo fine ultimo era tutelare la «sovranità italiana»: opponendosi evidentemente alle tesi del cosiddetto “sovranismo”. Laddove ci si aspetterebbe una riflessione critica sulla sovranità popolare e sui suoi limiti, arriva invece un orgoglioso richiamo motivazionale alla sovranità italiana rispetto all’Unione europea. Per tutelare la “sovranità italiana” si può sospendere la “sovranità popolare”, sembra dire Mattarella. In nome dei rapporti internazionali si può dunque arrivare a travalicare «le forme e i limiti previsti dalla Costituzione» perché la sovranità del popolo venga esercitata: per esempio nei cruciali passaggi che trasformano l’esito elettorale in un governo dotato di autonomo indirizzo politico.

Sergio Mattarella ha dunque inflitto all’istituzione della presidenza della Repubblica una torsione che costituirà un precedente pericolosissimo. Il suo lungo discorso ha esplicitato il fatto che egli si è assunto la responsabilità di decidere l’indirizzo politico del governo, entrando nel merito di idee e di scelte politiche: così non rispettando spirito e lettera della Costituzione. Le sue motivazioni hanno formalizzato una dura verità: la sovranità dei mercati ha preso il posto della sovranità popolare, riscrivendo di fatto l’articolo 1 della Costituzione.

Così la “costituzione materiale”, intesa come lo stato delle cose con i suoi apparentemente pietrificati rapporti di forza, ha preso anche formalmente e solennemente il posto della Costituzione scritta: l’unica vera costituzione. L’incarico al commissario Carlo Cottarelli, scelto per la sua storia personale al Fondo monetario internazionale e dunque incarnazione simbolica dell’ordoliberismo internazionale, ha infine tratteggiato icasticamente l’immagine di una democrazia commissariata. Ed è impossibile non domandarsi cosa significhi, dunque, la nomina del ministro Giovanni Tria al dicastero dell’Economia del governo Conte poi nato: egli ha garantito al presidente della Repubblica l’attuazione di un indirizzo politico preciso, di fatto configurando un vero “governo del presidente”, o almeno sotto tutela presidenziale? La domanda appare legittima.

Infine, nel suo discorso Mattarella ha detto che aveva accettato tutti i ministri tranne quello dell’Economia. Tutti: anche Matteo Salvini (noto per aver espresso più volte opinioni xenofobe o francamente razziste, e per aver esercitato una pubblica apologia del fascismo) all’Interno. In questo doppio registro c’è il senso profondo della crisi generale in cui siamo sprofondati: si tutelano i soldi («i risparmi degli italiani»), non i corpi. L’articolo 47 e non – per esempio – gli articoli 1, 3, 10. Gli investitori, non i principi fondamentali della Carta. È una dittatura dei mercati in cui le vite, i diritti, l’eguaglianza contano meno di zero. Ed è qui, è proprio in questa sottrazione di democrazia e in questa generale genuflessione al potere del denaro, che la propaganda della Lega prospera e macina consenso.

Il discorso che Sergio Mattarella ha pronunciato il 27 maggio 2018, un vero “discorso del re”, sarà ricordato come la costituzionalizzazione dello stato delle cose, di quella mancanza di alternativa che l’acronimo TINA, There is no alternative, ha reso simbolo e cifra della lunga stagione del dominio del mercato sulle democrazie.

È, questa, una costituzionalizzazione che nega le ragioni più profonde del progetto costituzionale italiano, ragioni che hanno a che fare con una modifica, e in prospettiva con un ribaltamento dei rapporti di forza attuali. Perché «c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani» (Piero Calamandrei, Discorso sulla Costituzione, gennaio 1955).