di Lanfranco Binni
Un caos apparente (ma non è solo una questione di limitata visione antropocentrica) sta sconvolgendo il mondo. Cause, processi in corso e conseguenze di devastanti cambiamenti climatici, crisi economiche strutturali, strategie sanitarie e militari, malthusiane diseguaglianze sociali, sistemi politici corrotti a difesa di vecchie sporche società, si intrecciano e confliggono in un caleidoscopio impazzito, sbarrato il futuro, negate sorti “magnifiche” e regredite. Saltano le dimensioni temporali e le “progressive” categorie politico-economiche-culturali di “modernità”, “sviluppo”, “crescita”, “speranza” in un futuro migliore. Geopolitica e vita quotidiana dei “soggetti della Storia” (sudditi e ribelli) si intrecciano e si confondono in paesaggi drammatici e instabili, dominati dalla paura e dai condizionamenti di una lugubre sopravvivenza, in attesa di nuovi bombardamenti economici, di nuove catastrofi ambientali, di nuove pandemie. Su questi temi, oggi brutalmente centrali, intervengono numerosi autori di questo numero, tutti accomunati da una profonda e necessaria cognizione del tragico: analisi puntuali e urgenti, senza concessioni a illusori inganni, tenacemente tese a trasformare la comprensione dei dati di realtà (in orizzontale nel mondo globale e in verticale nelle dinamiche biopolitiche) nella necessità di elaborare e sviluppare strategie di radicali “rivolgimenti” e di processi teorico-pratici di liberazione. Nuovi processi in corso, per un altro mondo necessario. Come insegnò Brecht in Me-ti. Libro delle svolte, «Mi-en-leh indicava molte condizioni necessarie per il rivolgimento. Ma non conosceva momenti in cui non vi fosse da lavorare per esso». Brecht scrisse il suo «libretto in stile cinese, di regole di comportamento», durante l’esilio danese tra 1934 e 1937, negli anni di propagazione dell’infezione fascista e della peste nazista in Europa e di preparazione dei grandi massacri della Seconda guerra mondiale. «Me-ti insegnava: I rivolgimenti avvengono nei vicoli ciechi».
Geopolitica del caos apparente
È il vorticoso trionfo delle universali “divergenze parallele”, l’insostenibile coesistenza degli opposti in un tutto totalitario: multilateralismo e unipolarismo, atlantismo ed europeismo, ambientalismo ed estrattivismo, “transizione ecologica” e finanza “verde”, diritti umani e corsa agli armamenti e alle “materie prime”, salute pubblica e guerra dei vaccini, stereotipi orientalisti e occidentalisti a non capire i mondi, socialità e violenza antisociale, le moltitudini sommerse e i branchi sempre più ristretti dei salvati, le virtù della “resilienza” come adattamento a condizioni di vita inaccettabili e la criminalizzazione della resistenza di classe e di specie. Sotto il caos apparente, le antiche strategie di potere di un ordocapitalismo estrattivo, le predazioni delle risorse naturali e delle vite delle moltitudini dei nuovi proletariati mondiali. Una corsa contro il tempo per “salvare il pianeta” o per finire di distruggerlo, celebrando l’evento con finali fuochi d’artificio nel Luna Park di Dubai?
La conclusione della ventennale guerra occidentale in Afghanistan, con un’apparente disfatta atlantica sulla base degli accordi segreti di Doha (i talebani non hanno sparato un colpo per occupare Kabul), ha semplicemente riposizionato la strategia statunitense su altri obiettivi, su altre “nuove sfide”. I talebani e le formazioni locali del terrorismo Isis e qaedista terranno aperte le ragioni della “democrazia” occidentale e degli impegni “umanitari”, mantenendo il controllo geopolitico su quell’area strategica ai confini della Cina e della Russia; non servono più gli scarponi sul terreno, meglio i droni e le nuove tecnologie; e i servizi occidentali sono già al lavoro per intervenire nelle zone sensibili dei confini afghani attraverso operazioni mirate in Tagikistan, ai confini della Russia, e nella stessa Cina, attraverso il separatismo potenziale della minoranza uigura. È complicato esportare la democrazia, ma non il terrorismo. E, subito dopo la tattica “ritirata” dall’Afghanistan (un’inutile guerra di posizione), l’accordo Aukus per un patto nucleare con Australia e Gran Bretagna, per il dominio militare ed economico dell’area indo-pacifica, con un ruolo di piattaforma anticinese assegnato all’Australia. Un’altra delocalizzazione, più avanzata, in funzione della vera “nuova sfida” degli Stati Uniti, il bersaglio grosso della Repubblica Popolare Cinese, ma anche in funzione antieuropea, a riaffermare il suprematismo degli interessi strategici statunitensi, America first da Trump a Biden con assoluta continuità.
In Medio Oriente l’Accordo di Abramo stretto da Trump tra Israele e alcuni Stati arabi rafforza con Biden il ruolo di Israele in funzione anti-iraniana e consolida la comune storia di “colonialismo d’insediamento” tra Stati Uniti e Stato ebraico; l’espulsione dei palestinesi, rendendo loro la vita impossibile attraverso tutti gli strumenti (repressivi ed economici) di una feroce occupazione della Cisgiordania e di Gaza, con i loro corollari di assassinii mirati e di genocidio generalizzato attraverso l’espansionismo coloniale, assegna a Israele, unica potenza nucleare dell’area, la direzione di una Nato araba sostenuta anche dall’Unione europea in cambio di residuali quote di mercato (armi, petrolio e affini).
Vedremo nei prossimi mesi cosa comportano queste “nuove (antiche) sfide” del rinnovato unipolarismo statunitense, ormai oltre i limiti di una tradizionale “deterrenza”, incontrandosi e scontrandosi con le strategie multilaterali dei suoi numerosi e attivi “nemici” in ogni continente, in primo luogo la Cina in una fase di profonda “modernizzazione” redistributiva del socialismo “con caratteristiche cinesi”, alla vigilia del prossimo congresso del Partito comunista.
In Europa, il nuovo corso dell’unipolarismo statunitense tra la ritirata afghana e la chiusura dell’area indo-pacifica agli interessi economici degli alleati euro-atlantici (l’umiliazione della Francia con la vicenda dei sottomarini nucleari venduti all’Australia ha aperto una ferita strategica) ha rimesso in discussione l’atlantismo, accentuando le spinte centrifughe della disunione europea: resta forte lo schieramento militare atlantico sui confini della Russia, si va accentuando la divisione tra paesi del nord e del sud alla vigilia di un ripristino delle politiche economiche pre-Covid, e nel paese fondamentale dell’Unione, la Germania, gli esiti delle recenti elezioni stanno creando una situazione di tipo nuovo. Il quadro generale dell’Unione europea è caratterizzato da una profonda incertezza, partiti in crisi, società civili ed elettorati ovunque in movimento. In crisi l’unione economica affidata a precari rimbalzi post-Covid, mai iniziata un’unione politica federale, mentre dilaga il panico dei cambiamenti climatici in atto a cui gli Stati non sanno dare risposte, ora ci si affida all’illusoria prospettiva di una “difesa comune” come alternativa militare-strategica alla Nato perduta. Difesa da chi? Dai cambiamenti climatici? Dal pericolo giallo? Dai fantasmi dell’Unione Sovietica? Dal suprematismo degli Stati Uniti? Dalle migrazioni provocate anche dall’Europa? Seguendo i soldi dei vari attori dell’Unione europea, risulta evidente un groviglio inestricabile di interessi nazionali in competizione tra loro e subalterni alle potenze esterne all’Unione, che complica ulteriormente il quadro. A situazioni nuove, antiche e inadeguate non risposte.
Ritorno al futuro, socialista
Uno e trino (Banca centrale europea, Commissione dell’Unione europea, Fondo monetario internazionale), «uomo della Provvidenza» (le gerarchie cattoliche sono fedeli al tema, dal 1929, e allora si trattò di Mussolini), in missione per conto del Dio di Ignazio di Loyola, Mario Draghi, con il consumato supporto del presidente della Repubblica, sta incarnando l’improbabile resurrezione di un sistema politico in agonia. Forte dell’inconsistenza di una sinistra scomparsa nelle fascinazioni di un liberismo accattone e parassitario, e delle complicità di una destra in continuità con le tradizioni peggiori, nazionaliste e fasciste, della nostra sempre più improbabile “democrazia rappresentativa”, si è fatto autocrate portavoce di un arcaico “governo dei padroni”. Chiamato a normalizzare la patria in pericolo, a ripristinare l’ordine dopo lo sconquasso delle elezioni politiche del 2013 e del 2018, e a gestire un’ingente quantità di miliardi procurati dal secondo governo Conte in odore di timide redistribuzioni sociali, sta seguendo una linea (provvisoria) di incremento del debito e di conversione dei flussi finanziari europei e statali in sostegni alle “imprese”. Anche per la Confindustria è un uomo della provvidenza (nel senso dei finanziamenti). Il debito pubblico dell’Italia, già considerato pericoloso quando raggiunse il 130% del prodotto interno lordo, è per quest’anno previsto al 153,5%. Sarà “sostenibile” e “resiliente” un tale debito? E le ingenti risorse del cosiddetto Piano nazionale di ripresa e resilienza non potranno trasformarsi in un durissimo commissariamento dell’Italia sull’esempio della Grecia insolvente? Non dimentichiamo che uno degli autori dello strangolamento della Grecia fu proprio il Draghi della Banca centrale europea. Trattano approfonditamente questi temi numerosi contributi a questo numero del «Ponte». Ma la sostanza è: quale modello di società perseguono le attuali oligarchie italiane, in una fase di necessaria e radicale trasformazione dei rapporti di potere nella società, e di profonda divaricazione tra gli interessi vitali della stragrande maggioranza della popolazione e gli spiriti animali dei gruppi ristretti di predatori.
Intanto, come se fossero “questioni private”, l’attuale governo italiano continua a dichiararsi «atlantista, europeista, ecologista» praticando una sgangherata politica estera servilmente atlantista per partecipare al mercato delle armi (Fincantieri, Leonardo, Unicredit e affini), ed euro-colonialista a fianco della Francia in Africa; impegnato in una “transizione ecologica” fondata sul fossile (trivelle al lavoro), in una riforma della giustizia che prevede l’improcedabilità dei processi; affiancato dal lavoro sporco di “propaganda fide” dei media di regime a riscrivere la storia del Novecento in chiave liberal-padronale e anticomunista (dalle falsificazioni storiche sulle foibe alla criminalizzazione degli anni sessanta e settanta – tutti “anni di piombo” terroristici –, a spacciare per attori senza alternative le comparse di un sistema politico d’avanspettacolo, a sostenere vendette giudiziarie contro i nemici di ieri e di oggi (i movimenti dal basso), a spacciare per “cultura” il consumismo turistico, grande impresa di “crescita” economica fondata sul precariato e il lavoro nero, a spacciare per “modernizzazione” una digitalizzazione gestita dalle multinazionali dei dati pubblici e privati in funzione di un totalitario controllo sociale, di una violenta corruzione consumistica e di una caotica apologia dell’egoismo sociale, della negazione di ogni senso civico e collettivo. E naturalmente diffondendo gli stereotipi occidentali sui “nemici” dell’Occidente, in nome di diritti umani che in Occidente sono sistematicamente calpestati e offesi.
Continuiamo a ripeterlo, con radicale semplicità: oggi l’umanità è a un bivio: farsi distruggere dagli orrori di una storia che gronda sangue, oppure costruire – con alta visione e alta passione – realtà liberate dalla schiavitù economica, dall’isolamento dei sudditi, dai poteri oligarchici. Creare e organizzare società di tutti non è un’utopia, è una necessità. Non c’è più tempo. Ognuno si faccia centro di processi corali (relazionali, sociali, culturali e politici), ognuno sviluppi il proprio potere per un potere di tutti (ma proprio tutti, liberando tutti dai loro attuali ruoli sociali di vittime e carnefici), da costruire dal basso attraverso esperienze concrete di autonomia e autorganizzazione, sui temi urgenti del lavoro (negato e schiavizzato) e della radicale riconversione del sistema produttivo in una prospettiva di nuovo socialismo, erede della grande tradizione internazionale delle esperienze e del pensiero critico del socialismo, del comunismo e dell’anarchismo; guardando al mondo non solo occidentale, dando centralità alla concreta complessità dei soggetti della storia, ricostruendo gli Stati corrotti dai poteri oligarchici attraverso pratiche di nuova socialità collettiva e di democrazia diretta, creando, sperimentando e organizzando un’altra società, un’altra realtà liberata in cui tutto sia di tutti, e di tutti il potere.
Chiudiamo questo numero mentre ancora si vota nelle elezioni amministrative del 3-4 ottobre (ne analizzeremo i risultati). Il dato della bassa affluenza al voto è comunque un altro segnale della crisi del sistema politico, del suo sempre più esteso non riconoscimento. Le ragioni dell’astensionismo (attivo e passivo) sono numerose. In generale, da molti anni, rappresentano un forte NO al miserabile spettacolo di una politica ridotta a precaria, privata, personalistica amministrazione della cosa pubblica. Ma ci dicono anche che la crisi del sistema e dei suoi strumenti di corruzione sociale, politici e ideologici, costituisce una condizione favorevole allo sviluppo di un “movimento dei movimenti” radicalmente alternativo e forte di una visione strategica di reale trasformazione dei “rapporti di produzione” e “di classe”, con un’alta visione internazionale e internazionalista. Dei contorcimenti del sistema in crisi fanno parte le temerarie “sovraesposizioni” delle forze politiche di governo su temi sensibili (su cui le opinioni generali degli elettorati sono oggi molto attente) come la qualità della democrazia, le diseguaglianze crescenti (ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri, su scala planetaria), la redistribuzione della ricchezza, l’ambiente, il cambiamento climatico in atto, le politiche di guerra, le migrazioni. Su questi temi è in atto, in Italia, in Europa e su scala mondiale, uno scontro generale tra capitalismo terminale (finanziario e di guerra) e alternative necessarie sul piano economico, politico e culturale. I tempi sono oscuri? Niente affatto. Certamente sono drammatici, ma la visione del dramma, la consapevolezza della sua natura e delle sue dinamiche, permettono di capire il contesto reale di quanto sta accadendo intorno a noi. E rendono necessarie radicali alternative di sistema, progettuali e di prassi sociale.
Sia chiaro: senza teoria, senza visione politica di lungo periodo, nessun cambiamento è possibile, e questa condizione riguarda anche tutte le forze che “a sinistra” della destra-sinistra stanno reagendo alla crisi di sistema e soprattutto stanno costruendo relazioni e collegamenti all’interno di un’area sociale vasta e non organizzata, sui temi del lavoro, della socialità, dell’ambiente, dell’internazionalismo.