di Rino Genovese
Ci sono due Renzi, uno europeo e uno italiano. Se il primo – bisogna riconoscerlo – si muove con un dinamismo sconosciuto alle cariatidi del socialismo europeo al punto da essere diventato il leader della sinistra che vuole, se non altro, maggiore flessibilità nei vincoli imposti dal patto di stabilità , il secondo mostra il volto di un berlusconismo sotto la specie del Pd, con una capacità di manovra che, agitando il bastone e la carota, riduce a pura testimonianza la volontà di “fronda” di una parte dei suoi stessi gruppi parlamentari, specialmente al Senato. Certo, la partita che si gioca intorno alla sostanziale abolizione della Camera alta è lungi dall’essere conclusa. E continuo a pensare che ci saranno delle sorprese in aula, nonostante Renzi in commissione si sia assicurato un’ampia maggioranza perfezionando l’accordo con il partito berlusconiano. Ma le sorprese verranno più da una comprensibile scarsa volontà , da parte dei senatori, di fare la fine dei capponi che s’infilano nel forno da soli che da una capacità di resistenza organizzata. La minoranza del Pd, rinunciando a essere una corrente e presentandosi come un insieme di personalità risentite (i Letta, i Bersani, i D’Alema), ha di fatto lasciato il dissenso nelle mani dei Chiti e dei Mineo, che conducono una battaglia rispettabile ma a titolo personale.
Ma come? verrebbe da dire: non c’è oggi nel Pd renziano un’opposizione che sappia levarsi per dire che si può benissimo tagliare il numero complessivo dei parlamentari senza manomettere un impianto costituzionale diffamato come “bicameralismo perfetto” quando è invece semplicemente quello di una repubblica parlamentare? La “stranezza” di una camera che fa lo stesso lavoro dell’altra non è affatto tale: bisogna insistere su questo punto, a dispetto di un’opinione oggi corrente. In una repubblica in cui le maggioranze si formano nelle aule parlamentari – e non sulla base di una presunta sovranità popolare che si eserciterebbe nelle forme di un “direttismo” di marca bonapartista, o almeno presidenzialista –, in una repubblica siffatta, il doppio lavoro delle camere è garanzia per il cittadino che le leggi non siano votate assecondando umori passeggeri o interessi parziali, ma sulle più solide fondamenta di maggioranze nei due rami del parlamento e mediante un esame attento delle proposte di legge.
È il premio di maggioranza alla Camera, che la legge elettorale proposta da Renzi e da Berlusconi conserva, a essere in contraddizione con la impostazione di fondo della repubblica parlamentare. È quel premio che ha scombinato fino a sfigurarlo il risultato elettorale, dando una enorme maggioranza alla Camera e nessuna al Senato. Il parlamento abnorme uscito dalle urne nel 2013 richiedeva sì, e alla svelta, una nuova legge elettorale, ma non che si mettesse mano, sotto mentite spoglie, a un cambio di repubblica – veramente una seconda repubblica – il cui sbocco finale non potrebbe che essere una forma più o meno larvata di presidenzialismo.
Non c’è alcuna ragione oggettiva, tantomeno una di politica europea, che spinga in questa direzione – se non la speranza del Berlusconi di turno, in questo caso Matteo Renzi, di riuscire a far man bassa del potere parlamentare una volta insediato il nuovo sistema. Però si è ancora in tempo per impedirlo.