È allo studio una normativa italiana sui crimini internazionali, tenendo conto degli obblighi assunti dall’Italia con lo Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale. Si pone la questione della giurisdizione: tribunali ordinari o militari? In concomitanza, più in generale, in Italia ci sono nuovi interessamenti al riparto della giurisdizione fra giustizia ordinaria e giustizia militare, un tema aperto da anni. Alcune di queste modifiche riguarderebbero processi su crimini commessi nelle guerre in corso, compresa quella in Ucraina.
Il 22 marzo di quest’anno il Ministero della giustizia ha istituito la Commissione per elaborare un progetto di codice dei crimini internazionali, presidenti Francesco Palazzo e Fausto Pocar, che il 31 maggio ha presentato la relazione (la bozza di testo normativo non è stata diffusa). Mi concentro sulla scelta degli uffici da investire delle funzioni giurisdizionali. Quanto ai crimini di guerra commessi da militari italiani, la Commissione non ha trovato una soluzione univoca e ne ha proposte tre.
La prima è attribuire tutti i crimini internazionali alla giustizia ordinaria; questo osservando, fra l’altro, che «l’unitarietà della giurisdizione risponde all’obiettivo di una ineludibile uniformità di trattamento, anche nell’ottica di una più puntuale aderenza agli obblighi internazionali di prevenzione e di repressione».
La seconda è attribuire i crimini internazionali commessi da militari alla giustizia militare. Fra i motivi a sostegno, c’è che «rinunciare a tale risorsa che la Costituzione ha previsto per i militari significa arrecare un danno alle Forze armate che dovrebbero rapportarsi a un giudice ordinario che non ha specifica competenza della materia militare»; la relazione osserva:
«La totale equiparazione della giurisdizione militare a quella ordinaria sotto il profilo dell’indipendenza e autonomia, impedisce che si possa ipotizzare una condizione che potrebbe comportare l’attrazione della giurisdizione della Corte penale internazionale per inidoneità degli strumenti giudiziari apprestati dallo Stato italiano, in quanto i tribunali militari italiani assicurano un giusto processo con le stesse regole processuali della giurisdizione ordinaria».
La terza è attribuire alla giustizia militare i crimini di guerra, quelli compresi in un articolato, commessi da militari italiani. Anche in favore di questa soluzione si argomenta: «Le garanzie di indipendenza e imparzialità della giurisdizione militare italiana soddisfano pienamente il criterio del “giusto processo secondo il diritto internazionale” posto dall’art. 17(2) dello Statuto di Roma per determinare la genuinità della volontà (willingness) della giurisdizione nazionale di investigare o di procedere».
In precedenza, il 9 settembre 2021, il Ministero della difesa aveva istituito la Commissione di studio e approfondimento per la riforma del codice penale militare di pace, presidente Michele Corradino. Si prevedeva di prendere in considerazione la proposta di legge AC 1402, adottata come testo base il 30 giugno 2021 alla Camera dalle commissioni II, giustizia, e IV, difesa, per verificarne la sostenibilità. Fra le premesse dell’istituzione della Commissione c’era la consapevolezza degli inconvenienti di quella proposta, che considera come reato militare, seppure a certe condizioni, quasi ogni violazione della legge penale commessa da un appartenente alle Forze armate. Ipotesi diverse estenderebbero la giurisdizione militare a singoli reati o gruppi di reati: delitti contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica, il patrimonio, la persona.
La vicinanza delle due questioni (giurisdizione sui crimini internazionali e perimetro della giurisdizione militare) e il lavoro quasi contemporaneo delle due Commissioni invitano ad approfondire. Comincio dalle caratteristiche attuali della giustizia militare.
Con la legge n. 244 del 2007 le sedi giudiziarie sono state ridotte da nove a tre: Roma, Verona e Napoli; il ruolo organico dei magistrati militari è stato ridotto da 103 a 58 unità; il Consiglio della magistratura militare è stato ridotto da nove a sette componenti; in seguito, col decreto legge n. 78 del 2009, convertito con la legge n. 102 del 2009, lo stesso Consiglio è stato ulteriormente ridotto a cinque componenti. La materia è stata riordinata, con quest’ultima composizione del Consiglio, nel decreto legislativo n. 66 del 2010, codice dell’ordinamento militare. Si nota una rarefazione degli uffici sul territorio, con distribuzione asimmetrica, che non fa bene alla giustizia e anzi può mettere in difficoltà gli imputati, le parti lese, i testimoni e i difensori. Anche l’esiguità del numero di magistrati non giova. Sul Consiglio tornerò.
In via generale, non solo sui crimini internazionali, il riparto della giurisdizione penale è un tema complesso. Le due giustizie, ordinaria e militare, applicano le stesse norme di procedura con strutture molto diverse, indagando e giudicando su due insiemi di reati che, per quantità e gravità, sono difficilmente paragonabili; la giustizia ordinaria riguarda un numero imponente di fattispecie astratte, quella militare si occupa delle fattispecie contenute nei codici militari e in qualche altro atto legislativo. Anche il confronto più semplice, basato sul numero di magistrati, rende l’idea della differenza: l’organico dei magistrati ordinari è oltre centosettanta volte quello dei magistrati militari. Per non parlare della diffusione delle sedi e di altri fattori. Come osserva l’atto istitutivo della Commissione Corradino, una modifica «può avere riflessi sull’efficienza e financo sullo stesso ruolo della giurisdizione penale militare nel rapporto con quella ordinaria».
Va evitato un equivoco. La giurisdizione militare ha carattere di specialità, ma assimilarla a tutti gli effetti alle altre giurisdizioni speciali sarebbe irrealistico. Nessuno dei giudici speciali previsti a regime dalla Costituzione celebra processi penali, sicché un raffronto serio va fatto con la giustizia ordinaria, nell’interesse dei cittadini e, quanto ai crimini internazionali, nell’interesse di tutte le persone, dei popoli e della pace.
I magistrati militari sono equiparati a quelli ordinari per stato giuridico, trattamento, carriera; ma l’autogoverno e l’indipendenza non sono altrettanto garantiti. Per il Consiglio superiore della magistratura la Costituzione prevede, oltre ai componenti di diritto, due terzi di magistrati eletti; invece per il Consiglio della magistratura militare la legge, come si è visto, prevede cinque componenti, fra i quali i magistrati eletti sono solo due. A fronte, per la magistratura ordinaria, di una robusta maggioranza qualificata elettiva, quella militare vede una netta minoranza. Eppure, in precedenza, nel Consiglio una maggioranza elettiva c’era. Il passo indietro è stato grave. Anche su questo, paragoni al ribasso con altre giurisdizioni speciali non convincerebbero: si tratta della giustizia penale. È più costruttivo tener conto di cosa chiede l’Europa.
Quanto ai giudici, già nel 1998 l’European Charter on the Statute for Judges del Consiglio d’Europa vuole che per i provvedimenti disciplinari sia competente un’autorità con una componente elettiva non minoritaria («a tribunal or authority composed at least as to one half of elected judges»). L’Opinion n. 10 del 2007, The Council for the Judiciary at the service of society, del Consultative Council of European Judges del Consiglio d’Europa, suggerisce per i consigli una composizione togata integrale o almeno «a substantial majority». Nel solco di quell’orientamento la Magna Carta of Judges, approvata nel 2010 dallo stesso Consultative Council of European Judges, disegna una composizione togata ed elettiva integrale, o comunque che costituisca una maggioranza, e non di stretta misura: «The Council shall be composed either of judges exclusively or of a substantial majority of judges elected by their peers». Lo scopo di queste garanzie è chiaro già nell’Opinion del 2007:
«The independence of judges, in a globalised and interdependent society, should be regarded by every citizen as a guarantee of truth, freedom, respect for human rights, and impartial justice free from external influence. The independence of judges is not a prerogative or privilege granted in their own interest, but in the interest of the rule of law and of anyone seeking and expecting justice. Independence as a condition of judges’ impartiality therefore offers a guarantee of citizens’ equality before the courts».
La raccomandazione del Consiglio d’Europa sull’indipendenza, CM/Rec (2010) 12, Judges: independence, efficiency and responsibilities, prevede che almeno la metà dei componenti dei consigli sia elettiva. Nelle premesse, l’indipendenza è considerata «inherent element of the rule of law» e sono invocati i Basic Principles on the Independence of the Judiciary approvati dall’Onu nel 1985, che a loro volta richiamano la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ecco un’altra conferma della sostanza in gioco.
Va detto che, anni fa, la Cassazione a sezioni unite civili, n. 26033 del 2013, ha escluso dubbi di legittimità sulla composizione del Consiglio della magistratura militare, rilevando fra l’altro, quanto alla raccomandazione del 2010, che per la sua tipologia l’atto non ha carattere normativo vincolante. Dopo questa tesi formalistica, però, in Europa sono stati fatti passi nuovi.
La European Commission for Democracy through Law (Commissione di Venezia), nella Rule of Law Checklist del 2016, ha fatto riferimento a consigli composti esclusivamente di giudici, o in cui i giudici siano la maggioranza, e non di stretta misura. L’Opinion n. 24 del 2021, Evolution of the Councils for the Judiciary and their role in independent and impartial judicial systems, sempre del Consultative Council of European Judges, si è espressa di nuovo per consigli con una maggioranza di giudici eletti. E la Corte di giustizia dell’Unione europea ha valorizzato l’effettività dell’indipendenza dei giudici in varie sentenze (quelle che riguardano la Polonia sono fra le più importanti): 27 febbraio 2018, C-64/16; 24 giugno 2019, C-619/18; 5 novembre 2019, C-192/18; 17 dicembre 2020, C-354-20 e C-412/20. La giurisprudenza di Lussemburgo applica l’art. 19 del Trattato sull’Unione europea sia interpretandolo insieme alla nozione di Stato di diritto, di cui all’art. 2, sia basandosi sul principio dell’indipendenza dei giudici di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Le esigenze in ambito europeo, non solo per la giustizia militare, sono state ricordate: nel 2019, al convegno La giustizia militare tra passato e futuro: cinquanta anni di associazionismo giudiziario militare, dal presidente dell’Associazione magistrati della Corte dei conti, Luigi Caso; nel 2021, al convegno Quaranta anni della legge n. 180 del 1981: la rilevanza innovativa di quell’intervento e l’attuale necessità di modernizzare il sistema giudiziario militare, dal presidente della stessa Corte, Guido Carlino (ex magistrato militare); nel 2022, al convegno La Corte dei conti al servizio del paese per una ripresa economica equa ed efficiente, sempre da Carlino.
Ancora in Europa. A marzo Filipe César Marques, presidente di Medel – Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés, ha osservato che «il rafforzamento dell’indipendenza riguarda chiaramente aspetti istituzionali come l’indipendenza della Procura (se necessario, in Francia o in Germania), la struttura e la composizione dei Consigli superiori (come dimostra l’incomprensibile situazione spagnola) o la protezione dai rischi del corporativismo (così attuale in Italia)». Lo scorso 23 maggio, Giornata di allerta per l’indipendenza della giustizia, Medel ha dichiarato: «L’indipendenza del potere giudiziario è la pietra angolare di ogni società libera e democratica. […] La lotta incessante per lo Stato di diritto è il miglior tributo che possiamo rendere alla memoria di Giovanni Falcone e di tutti coloro che si sono sacrificati per la giustizia».
L’importanza della componente togata – che si misura più sugli eletti che sui componenti di diritto – è evidente; inoltre alcuni strumenti europei non si accontentano né della parità né di una maggioranza di stretta misura. Si riferiscono ai giudici, ma la Costituzione non permetterebbe un regime differenziato per i pubblici ministeri. Quanto alla consapevolezza di questo ruolo, il referendum di gennaio nell’Associazione nazionale magistrati, col rigetto sia del sorteggio sia del sistema maggioritario per il Consiglio superiore, segnala nella magistratura ordinaria la prevalenza dell’orientamento più partecipe.
Le garanzie dei magistrati sono a beneficio dei cittadini, come confermano l’Opinion del 2007 e la raccomandazione del 2010. E sulle garanzie dei cittadini, proprio in ambito militare, va ricordata la sentenza della Corte costituzionale n. 60 del 1996, occasionata dal processo Priebke sulle Fosse Ardeatine, che permise la costituzione di parte civile nel processo militare, prima non consentita:
«Occorre innanzitutto riaffermare il principio in forza del quale, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, viene superata radicalmente la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare, ricondotto nell’ambito del generale ordinamento dello Stato, rispettoso e garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini, militari oppure no, di guisa che il diritto penale militare di pace, “non solo non può più ritenersi avulso dal sistema generale garantistico dello Stato, ma non va più esaltato come posto a tutela di beni e valori di tale particolare importanza da superare, nella gerarchia dei valori garantiti, tutti gli altri” (v. sent. n. 278 del 1987)».
Ancora sul Consiglio della magistratura militare, sempre tenendo presente la Corte costituzionale. Con la sentenza n. 67 del 1984 – nel periodo intermedio fra la legge n. 180 del 1981, che prevedeva la futura costituzione dell’organo di autogoverno, e la sua effettiva istituzione con nove componenti – la questione di costituzionalità sulla mancata istituzione dell’organo è stata dichiarata inammissibile per l’incertezza del petitum: la censura sollevata oscillava tra la caducazione della disciplina transitoria (i provvedimenti erano di competenza del Ministero della difesa) e la devoluzione delle competenze al Consiglio superiore della magistratura. Sullo stesso tema l’esito è stato diverso con la sentenza n. 266 del 1988: la censura chiedeva la caducazione della competenza ministeriale e così è stato fatto, dichiarando l’incostituzionalità. La motivazione è limpida:
«Non ha rilievo l’osservazione per la quale il giudice a quo non avrebbe dato dimostrazione d’operare in “situazione di non indipendenza”. Non si riesce ad intendere quale dimostrazione il giudice rimettente debba mai offrire allorché eccepisce la mancanza delle oggettive garanzie d’indipendenza che il secondo comma dell’art. 108 Cost. impone alla legge d’assicurare a tutti i magistrati delle giurisdizioni speciali, al pubblico ministero presso di esse ed agli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia. Il secondo comma dell’art. 108 Cost. non sottopone ad alcuna condizione l’assicurazione delle predette, oggettive garanzie d’indipendenza. Né va dimenticato che, quali che siano i riflessi, “in foro interno”, nel giudicante, della carenza di reali, oggettive garanzie d’indipendenza, le medesime, appunto perché “garanzie”, valgono a prevenire attacchi all’autonomia e indipendenza dell’esercizio delle funzioni giudiziarie e, comunque, non sono condizionate, nella loro attuazione, alla concreta esistenza di specifiche aggressioni alle predette autonomia e indipendenza. Se è vero che l’indipendenza è, nella materia in esame, forma mentale, costume, coscienza d’un’entità professionale, non è men vero che, in mancanza di adeguate, sostanziali garanzie, essa, come è stato rilevato, degrada a velleitaria aspirazione».
Altre pronunce riguardanti il Consiglio della magistratura militare (n. 71 del 1995, n. 52 del 1998, n. 251 del 1998, n. 116 del 1999 e n. 542 del 2000), emesse quando i togati eletti erano in maggioranza, adesso non sono pertinenti. Nessuna di queste pronunce – e neppure di quelle sulla magistratura contabile, n. 230 del 1987, n. 16 del 2011, n. 109 del 2014 – risolve in modo davvero preciso la questione della proporzione numerica; tutte aiutano ad affrontarla e sono favorevoli alle garanzie. Comunque occorre prudenza nell’applicare alla giustizia militare, fra gli enunciati della giurisprudenza, anche costituzionale, quelli emessi in settori riguardanti interessi patrimoniali, amministrativi, contabili. Sulle garanzie, enunciati riduttivi rispetto alla giustizia penale ordinaria porrebbero serie domande. La giustizia militare è un ramo della giustizia penale, e per alcuni aspetti le due si comportano come vasi comunicanti, sicché, anche se per la giustizia amministrativa o contabile fossero ammesse garanzie inferiori a quelle nella giustizia ordinaria, la lacuna nell’ambito della giustizia militare dovrebbe essere colmata, altrimenti l’esito sarebbe inaccettabile. Sul punto è rilevante una pronuncia di legittimità di quest’anno.
La Cassazione a sezioni unite penali, n. 8193 del 2022 – qui considero in estrema sintesi l’accurata motivazione – , dopo aver ricordato come la giurisdizione militare, quella secondo le norme entrate in vigore nell’Italia unita nel 1870, fosse stata estesa nel 1930 e nel 1941, cioè dal fascismo, non solo ha fatto riferimento a Corte cost. n. 429 del 1992, che invece sottolinea «il principio che la giurisdizione normalmente da adire è quella dei giudici ordinari anche nella materia militare», ma ha citato un’altra sentenza delle sezioni unite, la n. 25 del 1999, che – pur riconoscendo alla giustizia militare la giurisdizione sulla liquidazione di onorari – individua nei «confini delineati dall’art. 1 c.p.p. per la “giurisdizione penale”» un «sistema chiuso che quella disposizione configura con funzione ricognitiva, analoga e simmetrica a quella assegnata dall’ordinamento alla norma dell’art. 1 c.p.c. per delineare i contorni del separato ramo della “giurisdizione civile”». Cioè, la giurisdizione penale va vista nell’insieme, è appunto un sistema chiuso.
Una norma recentissima, nella legge n. 71 del 2022, delega il governo a intervenire in tema di stato giuridico dei magistrati militari; la legislazione delegata dovrà mantenere l’equiparazione a quelli ordinari, «per quanto compatibile», e portare il numero dei togati eletti nel Consiglio da due a quattro «per garantire la maggioranza di tale componente elettiva». Il tutto, ferme le tre sedi giudiziarie. La novità è significativa, anche perché implica l’ammissione che da molto tempo la proporzione nel Consiglio è inadeguata (questo pone, su anni di attività giudiziaria, interrogativi che tengo da parte). In concreto, però, al momento i togati eletti restano due e solo una futura decretazione li porterebbe a quattro. Anche così, non sarebbe sicura l’equiparazione alla magistratura ordinaria, sia perché con la compatibilità si potrebbero avere sorprese, sia per le caratteristiche dei due collegi. Nel Consiglio superiore i togati eletti sono due terzi dei componenti non di diritto; dopo la stessa legge n. 71 del 2022, che ha portato gli eletti da 16 a 20 e i laici da 8 a 10, i togati eletti sono 20 su un totale di 33, cioè una frazione di 140/231; invece nel Consiglio della magistratura militare, anche quando i togati eletti fossero quattro, sarebbero ben quattro quinti dei componenti non di diritto ma 4 su un totale di 7, cioè una frazione inferiore: 132/231. In pratica l’effetto sarebbe disomogeneo: troppi rispetto alla componente laica e troppo pochi sul totale. Oltre a queste differenze aritmetiche, pignole e poco espressive della realtà, resterebbe una questione di fondo, umana e non misurabile: la ristrettezza dell’organico e del Consiglio si presta male a distinzioni, maggioranze e posizionamenti, insomma a quella vita di gruppo, culturale e politico-istituzionale, di cui vive il prezioso autogoverno (e di cui il correntismo nella magistratura ordinaria è solo una degenerazione). Dunque, malgrado l’intento dichiarato di «garantire la maggioranza di tale componente elettiva», una vera equiparazione sarebbe in forse. Per i procedimenti sanzionatori, poi, resterebbe il problema di costituire un collegio paragonabile alla sezione disciplinare del Consiglio superiore.
Anche sull’unico laico nel Consiglio della magistratura militare c’è qualche perplessità, dovuta, se non a dubbi di natura costituzionale, a un’asimmetria. Mentre i laici nel Consiglio superiore sono nominati dal Parlamento in seduta comune, e quelli nei Consigli delle giustizie amministrativa e contabile per metà dalla Camera e per metà dal Senato, qui il laico è scelto d’intesa tra i presidenti dei due rami del Parlamento. Per la magistratura militare, malgrado il sistema chiuso della giurisdizione penale, che farebbe pensare allo stesso metodo seguito per il Consiglio superiore (impossibile senza una modifica della Costituzione), non vi è un coinvolgimento delle Camere con attività collegiali, soltanto un’intesa fra due persone.
Attualmente, magistrati con statuti di indipendenza diversi si occupano di reati simili o identici, a seconda che siano commessi in ambito civile o militare (per esempio, truffa e truffa militare, oppure furto e furto militare). Se questa situazione può essere motivo di perplessità, superabili con opportune considerazioni, invece l’attribuzione alla giustizia militare di crimini internazionali, per loro natura gravissimi, o un cambiamento incongruo del riparto della giurisdizione potrebbero creare problemi più consistenti.
Alle ricadute sulle garanzie si aggiungerebbero gli inconvenienti dell’esiguità della struttura col ridotto numero di sedi. Con reati più gravi aumenterebbero i provvedimenti cautelari, oggi rari, e quindi le incompatibilità derivanti dalle funzioni di gip, di gup e di riesame: tribunali militari con sei magistrati potrebbero avere difficoltà a comporre il collegio giudicante, con necessità di attingere magistrati da un’altra regione, a spese dello Stato. In processi per crimini internazionali, con più imputati ed eventualmente rinvii dalla Cassazione, si potrebbe rischiare l’incompatibilità di tutti i magistrati giudicanti della struttura.
Bisogna considerare anche il modo in cui la giustizia militare, che pure ha mostrato di saper fare progressi, si pone rispetto alla società, al suo cammino e ai suoi conflitti. Come breve esempio, si pensi alle questioni di genere sia nelle Forze armate sia nei crimini di guerra e contro l’umanità. Nella magistratura militare le donne entrano in teoria dagli anni Ottanta e in concreto dal 1992, ma in trent’anni, per ora, nessuna è stata titolare neanche di un ufficio giudiziario semidirettivo; nella giustizia ordinaria le prime presero servizio nel 1965 e da molti anni ci sono donne con incarichi importanti. L’attribuzione di un ufficio direttivo o semidirettivo a una donna, quando sarà, comunque segnerà mezzo secolo di ritardo rispetto alla giustizia ordinaria. Dinanzi alla giustizia militare italiana i processi per crimini internazionali sarebbero svolti da uffici abituati a essere diretti da uomini. Invece, le donne sono entrate a far parte della Corte penale internazionale sin dall’inizio, una donna è stata nominata procuratore già dieci anni fa, un’altra presidente sette anni fa, e attualmente una donna è prima vice presidente.
A proposito di crimini estremi, è bene ricordare la vicenda atroce dell’Armadio della vergogna, il deposito di fascicoli e prove sulle stragi nazifasciste (decine di migliaia di morti dal 1943 al 1945), trattenuto illegalmente nella sede centrale della giustizia militare e rifrequentato dalla metà degli anni Novanta. Con quegli atti sono stati celebrati una ventina di nuovi dibattimenti e l’ultimo processo è finito nel 2015, settant’anni dopo i fatti; l’esito di tutto questo è stato che un solo colpevole è andato in carcere. C’è una certa continuità sia fra il processo di Norimberga e la Corte penale internazionale, sia fra Norimberga e i processi, sempre sui crimini nazifascisti, di cui era previsto lo svolgimento nel dopoguerra a livello statale. Ma la giustizia militare italiana è stata coinvolta nell’impunità di quei crimini e quindi nell’inadempimento del progetto di Norimberga.
Sono elementi significativi, se si vuol tenere presente il principio di complementarità ricordato dalla Commissione Palazzo e Pocar: per l’art. 17 dello Statuto, l’attività giudiziaria di uno Stato esclude sì quella della Corte penale internazionale, però non se tale Stato non vuole o non può svolgere correttamente le indagini o il procedimento («unless the State is unwilling or unable genuinely to carry out the investigation or prosecution»). La disponibilità teorica non basta. La complementarità, che fa riferimento, tra l’altro, ai casi di ritardo ingiustificato («unjustified delay in the proceedings»), o a quelli di procedimento condotto in modo non indipendente o non imparziale («the proceedings were not or are not being conducted independently or impartially»), o ancora ai casi in cui lo Stato sia affetto da indisponibilità del sistema giudiziario («unavailability of its national judicial system») oppure sia in qualunque altro modo incapace di svolgere i suoi procedimenti («otherwise unable to carry out its proceedings»), pone esigenze che, come l’indipendenza secondo la pronuncia della Consulta del 1988, non possono ridursi a velleitaria aspirazione.
Segnalo qualche altro aspetto.
I riferimenti della Commissione Palazzo e Pocar alle caratteristiche della giustizia militare, in punto di indipendenza e giusto processo, sono fra le motivazioni a sostegno della seconda soluzione (alla giustizia militare i crimini internazionali commessi da militari) e della terza (alla giustizia militare i crimini di guerra, compresi in un articolato, commessi da militari italiani), che però, appunto, non sono state condivise e vengono presentate insieme alla prima, quella che attribuisce i crimini internazionali alla giustizia ordinaria.
Anche con la seconda e la terza soluzione, sembra che i minori resterebbero sotto la giurisdizione dei tribunali per i minorenni, cioè della giustizia ordinaria (sul punto la relazione potrebbe essere più esplicita). Considerando la presenza di giovanissimi in molti conflitti, l’esito della seconda e della terza soluzione lascerebbe perplessi, perché tra minorenni e maggiorenni è più ragionevole una distinzione sulla competenza che sulla giurisdizione.
Nel caso di giurisdizione della giustizia ordinaria, quanto alla competenza si è scelto di attribuirla alla corte di assise, e non al tribunale, anche perché «presenta una collegialità più vasta e ritrova al suo interno una componente popolare che meglio rispecchia la rappresentatività democratica». I tribunali militari sono privi di quelle caratteristiche.
La Commissione propone una circostanza attenuante speciale per collaborazione processuale o impegno riparatorio; il beneficio, quanto alla collaborazione, è paragonabile a istituti già esistenti, in Italia, in tema di terrorismo, eversione e criminalità organizzata, ma non ha corrispondenti applicati in ambito militare.
La Commissione disegna l’introduzione di una responsabilità amministrativa per crimini internazionali, anche tenendo conto del ruolo di attori economici in questi illeciti («business complicity»); se questi provvedimenti dovessero essere presi dalla stessa autorità del processo penale, c’è da chiedersi se gli uffici giudiziari militari sarebbero i più adatti per approfondimenti, contabilizzazioni e liquidazioni di tale complessità tecnica; se fossero attribuiti a un’autorità diversa, la giurisdizione militare sui reati produrrebbe duplicazioni procedimentali.
Comunque, la Commissione ricorda che il corpus dei nuovi crimini internazionali deve avere fra i suoi punti di riferimento i principi fondamentali della Costituzione; fra i principi campeggia quello di ragionevolezza.
Quanto alla Commissione Corradino, un documento dell’Anm ha spiegato che un ampio travaso di competenze, invece di razionalizzare il sistema, creerebbe disfunzioni: solo la giustizia ordinaria, con la sua diffusione sul territorio e i suoi mezzi, può garantire la tutela dei diritti della persona e dei principi costituzionali. Il documento ha riguardato in generale l’aumento della giurisdizione militare, ma principi e punti critici valgono, adesso, ancor più per i crimini internazionali: questi illeciti offendono gravemente le persone e, come osserva la Commissione Palazzo e Pocar, «si caratterizzano per attingere beni giuridici estremi e universali, che si pongono fuori dell’ordine comune dei beni giuridici della normale vita sociale in quanto collegati a situazioni di assoluta eccezionalità da cui mutuano il loro disvalore particolare».
Nell’insieme, l’attribuzione della giurisdizione su crimini internazionali alla giustizia militare presenterebbe inconvenienti, già autorevolmente notati. È anche oscuro come sarebbe conciliabile con l’impianto ricordato quest’anno dalle sezioni unite penali; Cassazione n. 8193 del 2022 riepiloga:
«Secondo le sezioni unite, il mantenimento in vita dei tribunali militari in tempo di pace costituisce un’eccezione al principio stabilito dall’art. 102 Cost., “con la lineare conseguenza che, da un canto, non può ritenersi preclusa, per principio, alla giurisdizione ordinaria la cognizione dei reati militari, quando esistano preminenti ragioni d’interesse collettivo generale, e, d’altro canto, deve, di volta in volta, stabilirsi se particolari esigenze, beni o valori possano essere stimati preminenti rispetto a esigenze, beni e valori tutelati attraverso la speciale giurisdizione dei tribunali militari di pace (cfr Corte cost. n. 78 del 1989), poiché la giurisdizione normalmente da adire è quella dei giudici ordinari anche nella materia militare (Corte cost. n. 429 del 1992 e n. 271 del 2000)”».
Proprio sulle esigenze connesse alla complementarità potrebbe basarsi una stima di preminenza, tale da attribuire tutti i crimini internazionali alla giustizia ordinaria. In fondo, sarebbe in linea con quanto sostenuto nella Commissione Palazzo e Pocar in favore della prima soluzione:
«Per fatti lesivi di diritti umani fondamentali o di altri valori fondanti della comunità internazionale, anche in deroga al c.p.m.g., la giurisdizione non [deve] essere radicata in base allo status dei soggetti coinvolti, bensì in base agli elementi, del tutto prevalenti, del disvalore dell’evento e dei caratteri di contesto che connotano i crimini internazionali».
L’intento di fare giustizia, specialmente sui crimini internazionali, va apprezzato, se si rispettano la Costituzione, le esigenze in ambito europeo, la ragionevolezza e, appunto, i valori fondanti della comunità internazionale.