di Lanfranco Binni
[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 4 de Il Ponte – aprile 2014]
Arriva la tempesta. Alla vigilia della prossima crisi finanziaria globale, preannunciata dalla crisi del 2008, la guerra in corso tra poteri finanziari e politici per il controllo delle aree di influenza e di dominio sta accelerando strategie attive di posizionamento degli attori principali su tutti gli scenari. L’iniziativa è agli Stati Uniti e all’Unione europea. Ci sono società da disintegrare, mercati da «liberare», processi «democratici» da imporre con la forza delle armi e con le armi della comunicazione. Il percorso è tracciato dagli anni novanta del secolo scorso: Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, «primavere arabe», Libia, Iran, Siria, Grecia, oggi Ucraina e Venezuela, prossimamente Russia e Cina. Sono soltanto gli scenari principali, ai quali si aggiungono le numerose guerre locali, più o meno “coperte”, in tutto il mondo.
Dagli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica, lo schema tattico politico-militare è sempre lo stesso, sperimentato e attuato dall’Unione europea a guida tedesca e dagli Stati Uniti nella disgregazione della Federazione jugoslava: in quel caso, il sostegno all’indipendenza della Croazia e della Slovenia, con politiche di divisione e pulizia “etnica” che avrebbero massacrato la multietnica Bosnia Erzegovina, fino all’indipendenza del Kosovo sancita da un referendum secessionista preparato dai bombardamenti della Nato. Le successive aggressioni americane all’Iraq e all’Afghanistan, con la partecipazione attiva dell’Unione europea e della Nato, introdussero il nuovo delitto internazionale delle «guerre umanitarie» a copertura degli interessi della “democrazia” occidentale: risorse energetiche e dominio su aree strategiche da un punto di vista geo-politico. Stati Uniti e Unione europea conducono un gioco di squadra, articolando gli strumenti tattici nel rispetto dei propri interessi economici, talvolta contraddittori.
Dalla disintegrazione della Jugoslavia lo schema è sempre quello: si finanzia un’opposizione “democratica”, si provoca la reazione dei governi istituiti, si sostengono i “ribelli” sul campo attraverso agenti coperti (della Cia, del Mossad, dei servizi europei) e attraverso martellanti campagne mediatiche (televisioni, stampa, social media), e si gestiscono i processi successivi usando tutte le risorse dei “diritti civili”, del “diritto internazionale”, della “libertà”. Quanto sta accadendo in Ucraina è da manuale: la strategia dell’ampliamento a est della Nato e dell’Unione europea, avviata negli anni novanta (dal 2006 i campi paramilitari in Polonia, di addestramento dell’opposizione “democratica” ucraina, reclutando neonazisti e criminali comuni) ha avuto una brusca, auspicata accelerazione con il rifiuto del governo legittimo ucraino di entrare nell’area d’influenza europea a condizioni capestro. La spirale manifestazioni di piazza-repressione è stata ulteriormente accelerata il 20 febbraio quando i cecchini della “libertà” hanno sparato sui manifestanti e sulla polizia. La reazione all’escalation è stata l’autodifesa della popolazione russofona da una prospettiva certa di pulizia etnica, il referendum, l’annessione della Crimea alla Federazione russa, l’annessione dell’Ucraina (per ora politica, ma il governo di Kiev è già partner della Nato) all’Unione europea. Le poste in gioco principali sono due: l’estensione dell’area d’influenza americano-europea ai confini con la Federazione russa, le risorse energetiche dell’area (gas e gasdotti, petrolio), la prospettiva di aprire nuove linee commerciali europee al gas americano. Non finisce qui: l’accordo di associazione del governo “europeista” di Kiev, con la sua milizia nazionalista e neonazista, susciterà inevitabilmente le reazioni delle regioni russofone dell’est dell’Ucraina, che già si stanno mobilitando per seguire l’esempio della Crimea. Così come la Nato sta velocemente militarizzando i paesi baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, per controllare le rivendicazioni delle minoranze russe.
Uno schema analogo è stato applicato in Iran, con esiti limitati nonostante l’impegno israeliano, e in Siria, con esiti catastrofici per il paese ma senza raggiungere l’obiettivo. Lo stesso schema è oggi attuato in Venezuela, per abbattere il governo legittimo di Maduro: anche qui i “cecchini della libertà” all’opera contro il chavismo; anche qui l’impegno dei media occidentali ad amplificare il conflitto tra l’oligarchia proprietaria venezuelana e le classi popolari. La posta in gioco è, come sempre, il petrolio, e il dominio degli Stati Uniti sul “cortile” di casa. Lo stesso schema comincia a essere applicato alla Cina: a Taiwan stanno iniziando le prime manifestazioni contro le sempre più strette relazioni economiche con la Repubblica popolare cinese, in nome della “libertà” occidentale.
Questi processi, in Ucraina come in Siria, in Venezuela come in Iran, sono tutt’altro che lineari. A ogni azione corrispondono reazioni conflittuali, non sempre prevedibili. Di fatto si sta creando una polarizzazione principale tra Stati Uniti-Unione europea e Russia-Cina-America latina. La guerra economica sta assumendo la forma del confronto militare.
In questo quadro di grande conflittualità di cui è facile prevedere l’aggravarsi in coincidenza con una crisi finanziaria globale annunciata, le società sotto qualunque regime tendono a serrare le fila, a militarizzarsi. Nelle società oligarchiche dell’Unione europea si accelerano i processi di consolidamento dei poteri, di smantellamento dei vincoli della “democrazia rappresentativa”, di indebolimento strutturale delle classi popolari. In questo caso lo schema applicato è quello della Grecia: impoverire, dominare con tallone di ferro, consolidare le oligarchie perché facciano il lavoro sporco al servizio dell’Unione europea e del Fondo monetario internazionale.
In Italia il lavoro sporco è stato assegnato ai governi Monti, Letta e Renzi, sulle macerie del ventennio berlusconiano: sono Monti, Letta e Renzi i nostri cecchini della libertà. Le “riforme” costituzionali e istituzionali, opera di un parlamento delegittimato e abusivo, nominato sulla base di una legge elettorale incostituzionale, eterodiretto dalla finanza internazionale europea e americana, commissariato da un presidente della Repubblica che rappresenta il peggio del «migliorismo» tatticista e senza principi del suicidato Pci, non sono altro che un’opera di cecchinaggio. L’eliminazione del Senato serve a ridurre i controlli degli atti parlamentari, la pluralità del controllo democratico sul governo. Con il pretesto di un’irrisoria riduzione dei costi della politica, invece di intervenire sulla qualità del bicameralismo, garanzia costituzionale, si vuole trasformare il Senato della Repubblica in una Camera infima delle rappresentanze locali dell’oligarchia politica. Con il pretesto del rilancio della “crescita” (che non ci sarà, nella fase del declino del modello di sviluppo capitalistico), si distrugge il diritto al lavoro e il diritto del lavoro: il primo intervento concreto dell’attuale governo è la radicale precarizzazione dei giovani lavoratori, senza diritti e senza futuro. Con il pretesto della “governabilità” si aggrava l’incostituzionalità di una legge elettorale che serve soltanto all’arroccamento di una classe politica corrotta, sempre più corrotta, sempre più estranea alla realtà drammatica, malthusiana, di questo paese. Ma le “riforme” sostenute dai media e dai loro topi da guardia a difesa del formaggio servono soprattutto a fiaccare, lavorare ai fianchi, stroncare il tessuto politico, sociale e culturale di questo paese, connivente con le peggiori nefandezze ma anche ricco di potenzialità di reazione, soprattutto ricco di una lunga e profonda tradizione di lotte per la democrazia, dal socialismo all’antifascismo, dalla Resistenza ai movimenti rivoluzionari degli anni sessanta e settanta. Le esperienze di cittadinanza attiva del movimento No Tav, del movimento per l’acqua pubblica, di tanti movimenti settoriali ma di buona qualità progettuale, dello stesso Movimento 5 Stelle, per tanti aspetti contraddittorio ma sicuramente antagonista della casta politica e impegnato in tentativi di progettazione di un “altro” modello di società, l’esperienza in corso della lista elettorale «L’altra Europa» con Tsipras, in cui coesistono vecchi vizi della migliore sinistra italiana (primo tra tutti l’elitarismo azionista) e antiche, indispensabili, virtù etiche e internazionaliste, possono contrastare questa deriva irreparabile di una pseudodemocrazia rappresentativa a copertura di un’oligarchia finanziaria e istituzionale da isolare e attaccare con le armi della controinformazione, della noncollaborazione, del sabotaggio, per accumulare forze di cambiamento e sviluppare reti di collegamento, nazionali e internazionali. Sui pochi, le oligarchie economiche e politiche, l’aristocrazia dei peggiori, dei corrotti corruttori, deve stringersi l’opposizione attiva dei più, del vecchio e del nuovo proletariato, da ricomporre in nuovo schieramento di classe. La metaforica parola d’ordine di Occupy Wall Street, «voi 1%, noi 99%» può orientare le pratiche di un’altra globalizzazione, di rifondazione di una progettualità politica che rielabori e sviluppi le esperienze dei processi di liberazione del Novecento nella prospettiva di un socialismo libertario che permetta all’umanità di uscire dal vicolo cieco del capitalismo post-industriale. Ricordando sempre, con il Brecht di Me-ti, che è nei vicoli ciechi che avviene il cambiamento.
I bombardamenti economici della prossima crisi finanziaria finiranno di distruggere quanto sopravvive dei patti sociali e delle società. «Socialismo o barbarie» tornerà a costituire l’alternativa drammatica e concreta di un conflitto ancora oscurato e occultato da potenti operazioni comunicazionali e che riemergerà in tutta la sua forza. Un importante segnale in questa direzione ci viene dalla Bosnia Erzegovina, già laboratorio della strategia europeo-americana: nel mese di febbraio, in tutto il paese, a Serajevo, Tuzla, Zenica, si sono moltiplicate le manifestazioni contro i palazzi del potere, assaltati e incendiati da una popolazione che nella lotta alla politica economica imposta dall’Unione europea ha superato le divisioni etniche e religiose esasperate strumentalmente negli anni novanta. Presto o tardi i nodi vengono al pettine.
E vengono al pettine, nel nostro sciagurato paese, i nodi di una “sinistra” che ha rinunciato a svolgere il proprio ruolo, prima di tutto confrontandosi con la complessità dei cambiamenti provocati e attuati dal liberismo internazionale e dalla sua variante locale, il devastante ventennio berlusconiano in continuità con la tradizione profonda del fascismo. Questa “sinistra” si è fatta “destra” (i pentimenti degli ex comunisti e i latrocini dei socialisti, negli anni ottanta, furono solo l’inizio di una deriva inarrestabile), tra destra e sinistra si è formato un partito unico, un’intesa solidale, al servizio della finanza internazionale e dei gendarmi europei e americani. Contro questa deriva, e senza nessun disegno riformista, dobbiamo oggi riprendere il percorso interrotto negli anni ottanta, ricostruendo pratiche di elaborazione teorica e di organizzazione politica che producano soggettività autonome e rivoluzionarie, estranee a logiche di ricambio della classe dirigente oligarchica e impegnate invece nell’analisi concreta delle situazioni concrete, nella costruzione di contropotere dal basso, in un contesto sociale che “liquido” non è, in cui il proletariato tradizionale (la classe operaia, la piccola borghesia, i contadini) sta ampliando e articolando la sua composizione di classe (il ceto medio dei servizi, i migranti), e in cui si stanno rapidamente polarizzando le disuguaglianze. Le esperienze rivoluzionarie del Novecento, rimosse attivamente da campagne di destra che hanno sistematicamente trovato complici a sinistra, devono essere non archiviate ma studiate e rielaborate nel lavoro teorico, a partire dal socialismo libertario degli anni trenta e quaranta e dalle aporie del «socialismo reale». Massimo socialismo e massima libertà, rovesciando la piramide sociale.
Quanto alla pretesa “modernità” del liberismo, dell’analfabetismo mediatico, dell’impoverimento economico e culturale dei sudditi e dei servi volontari, della criminalità diffusa, della distruzione programmata della scuola pubblica, della «grande bellezza» della discarica sociale, della prospettiva di aggiungere alla qualifica italiota di poeti, santi e navigatori quella di camerieri e cuochi al servizio del turismo (è questa l’unica vocazione riservata alla bella Italia dal marketing internazionale), dell’eterno presente del consumo di merci, non basterà un tweet a cancellare questi orrori.