di Rino Genovese
L’errore di Guido Mazzoni, per i numerosi apologeti della modernità occidentale e della democrazia liberale, sarà quello di dichiararsi a disagio, come scrive nella frase finale del suo libro (I destini generali, Roma-Bari, Laterza, 2015), oppresso da uno stato d’animo melanconico circa le sorti del mondo. Va invece a suo merito, ai miei occhi, proprio l’ambivalenza nevrotica nei confronti dell’esistente assunto come intollerabile nel momento stesso in cui ne stabilisce l’invincibilità. La parte di pianeta oggi relativamente al riparo dalle guerre a base etnica o religiosa, non priva di livelli di benessere ancora elevati, ha come risvolto rapporti di classe mondiali di tipo neo-ottocentesco: così giustamente li definisce l’autore, è questo uno dei suoi rovelli. Sono allora altri gli errori di Guido, per me in forma schematica i seguenti:
1) egli fonda il suo pessimismo su una visione per nulla originale della realtà contemporanea, che ha il suo punto di riferimento nell’analisi di Pasolini riguardo alla “mutazione antropologica” (cui era associata quella sulla “omologazione culturale” indotta dai consumi di massa) adeguata – se anche lo era – a un mondo perfettamente integrato nella sua divisione in blocchi, in cui la cultura occidentale la faceva da padrona nella versione occidentale liberaldemocratica come in quella marxista sovietica, ma non a un mondo come quello odierno caratterizzato dall’esplosione caotica delle culture particolari (con la forma di vita occidentale moderna ridotta a una cultura tra altre, cosa che era in fondo fin dall’inizio nonostante le pretese universalistiche); si pensi, per fare un esempio, al documentario pasoliniano Le mura di Sana’a, in cui sembrava che l’antico Yemen dovesse scomparire di lì a poco sotto l’avanzare dell’omologazione e in virtù di uno sviluppo dissennato, laddove oggi è distrutto da una guerra di tipo confessionale, prolungamento di uno scontro regionale più ampio tra sciiti e sunniti; sarebbe sufficiente riflettere su una situazione neotradizionale del genere per archiviare i concetti pasoliniani e iniziare a ragionare, piuttosto, sulla ibridazione culturale in cui sono presi tanto l’Occidente quanto le culture “altre”;
2) Guido combina l’analisi pasoliniana con la ormai ultracitata conferenza lacaniana del 1972 circa l’obbligo a godere che sarebbe implicato dal “discorso del capitalista”, in controtendenza rispetto alla tendenza all’ascesi dell’accumulazione del suo spirito originario; si tratta di una prospettiva che, peccando contro la teoria materialistica del piacere, vede nel consumismo un’espressione edonistica in senso pieno – un edonismo di massa –, quando invece nell’iperconsumo odierno si tratta di ben altro: di suscitare continui desideri di oggetti senza concedere, se non per fugaci momenti o simulacri, un appagamento; è il principio stesso del “legame” istituito dal capitalismo contemporaneo (non è vero, infatti, che la modernità spezzi i legami, tutt’altro: mantiene molti di quelli tradizionali, ibridandoli, talora stravolgendoli, e al tempo stesso creandone di nuovi) mediante forme di servitù volontaria alimentate dalla fascinazione esercitata dalla forma di vita occidentale; uno spazio per l’utopia si apre quindi nello scarto tra le promesse di godimento e un godimento che non può realizzarsi se non in minima parte; il sentimento della noia, soprattutto per gli strati sociali privilegiati e gli intellettuali (se ancora ve ne sono), è in negativo la spia di un’utopia che risorge dalle ceneri in cui sembrerebbe averla sepolta il rovesciamento distopico novecentesco;
3) ciò che Guido chiama l’espressivismo contemporaneo è il risultato, certamente confuso, di una trasformazione nella forma di vita occidentale (e non solo occidentale) imputabile soprattutto all’irrompere di Internet e alla mitologia dell’interattività che vi è associata: così il consumatore non è più l’oggetto semplicemente passivo di una manipolazione operata dalla pubblicità con le sue tecniche e i suoi “persuasori occulti”, è il fruitore di un’estetizzazione della vita quotidiana che lo vede, in molti casi, nel ruolo di un ricevente attivo – quello appunto esaltato dall’onnipotenza della rete; questo fruitore è il nuovo referente di qualsiasi discorso critico intorno all’esistente: disprezzarlo non serve, così come non servirebbe rimpiangere la classe operaia, a sua volta un tempo mitologizzata, come motore della storia;
4) non è vero, d’altronde, che la storia si sia bloccata (tutt’al più sono i suoi progressi che non riescono più ad apparire evidenti) soltanto perché dopo la famosa caduta del Muro non ha preso la piega che ci saremmo augurati che prendesse – quella di una riformulazione dell’utopia in senso democratico e socialista – e si è avvitata nel caos; la rappresentazione del mondo come abitato da una “piccola borghesia planetaria” – una fanfaluca di Agamben dalla chiara matrice pasoliniana che Guido riprende nel finale del libro, in modo peraltro contraddittorio rispetto all’affermazione che i rapporti di classe mondiali sono caratterizzati da un proletariato sottoposto a condizioni servili neo-ottocentesche – è una visione in se stessa affetta da quel nichilismo che vorrebbe denunciare, portato dell’incapacità di leggere il presente se non con le categorie del passato, segno di un disarmo intellettuale prima che politico.
In conclusione il libro di Guido si fa leggere per le idiosincrasie che presenta: per la nostra, la mia tendenza a identificarmi con alcune delle sue idiosincrasie. Ma il suo contributo di analisi è nullo.