[Le nostre ragioni di un no. Altri interventi di Paolo Bagnoli, Luca Baiada, Francesco Biagi, Lanfranco Binni, Gian Paolo Calchi Novati, Rino Genovese, Ferdinando Imposimato, Massimo Jasonni, Mario Monforte, Tomaso Montanari, Mario Pezzella, Pier Paolo Poggio, Marcello Rossi, Salvatore Settis, Angelo Tonnellato, Valeria Turra]
Quando Berlusconi scese in campo nel ’94, costruì in due mesi un partito e sbaragliò gli avversari alle elezioni, un vento nuovo investì, inquietante, anche l’assetto istituzionale del paese; e l’ideologo della Lega Nord, Gianfranco Miglio, lo tradusse in linguaggio comprensibile a tutti: «è sbagliato dire che una costituzione deve essere voluta da tutto il popolo; una costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. […] Basta la metà più uno dei voti del Parlamento; poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze». L’intervista fece scalpore per la brutalità dei toni usati, ma pochi avvertirono che quelle parole innanzitutto sconfessavano i principi del moderno costituzionalismo, su cui era stata costruita la nuova Carta repubblicana.
Per i “nuovi riformatori” la Costituzione del ’48 cessava di essere un patto stilato da soggetti o partiti caratterizzati da differenti ideologie, ma decisi a scrivere insieme le regole della civile convivenza anche per le generazioni future; cessava cioè di essere la norma base dell’ordinamento, ai cui principi le altre dovevano uniformarsi, per essere invece ridotta quasi al rango di una legge ordinaria, che una qualsiasi maggioranza parlamentare poteva scardinare e usare per sconfiggere l’avversario.
Così, nel 2001, gli apprendisti stregoni del centrosinistra, nel tentativo di sottrarre voti alla Lega, votarono a maggioranza, alla fine della legislatura, la riforma del Titolo V della Costituzione: una soluzione pasticciata, che non evitò la sconfitta alle elezioni, ma che costituì un solido precedente per le ben più vaste revisioni future.
Il governo di centrodestra nel 2005, infatti, fece di più e di peggio: votò, con maggioranze blindate, una legge costituzionale, che introduceva un «bicameralismo differenziato», con un Senato federale eletto su base regionale, con un premier “assoluto”, che doveva chiedere la fiducia alla sola Camera dei deputati e con un’opposizione parlamentare chiaramente irrilevante; inoltre perfezionò il tutto con una nuova legge elettorale, che attribuiva ai leader di partito il potere di nominare i candidati per le elezioni e che assegnava alla coalizione vincente un premio di maggioranza di 340 seggi.
Dopo la sconfitta elettorale della destra nel 2006, un referendum ha poi cancellato la riforma costituzionale; parlamenti e governi successivi hanno invece gelosamente conservato la legge elettorale.
Il centrosinistra ha poi prodotto Renzi; e questi ha subito dimostrato di avere appreso la lezione del nuovo costituzionalismo.
Solo grazie ai 340 seggi ereditati alla Camera (senza quel premio, nel 2013, il Pd ne avrebbe ottenuto solo 170-180), il presidente del Consiglio ha infatti potuto intestarsi la revisione della seconda parte della Costituzione, revisione che ha cancellato o modificato 47 articoli della Carta: questa riforma non è stata perciò decisa, se non formalmente, dal Parlamento e neppure dal governo, ma da un uomo solo al comando, che ha persino sostituito in Commissione, al Senato, due componenti che non erano in linea con le sue decisioni: se una costituzione è un patto che stabilisce regole per limitare il potere, qui, al contrario, è stato il potere che ha unilateralmente modificato nel proprio interesse quelle regole e quel patto. Ma non basta.
Memore dell’insegnamento di Calderoli, Renzi ha poi coniugato la revisione costituzionale con una nuova legge elettorale, che ha riprodotto, con talune varianti, quella già censurata dalla Corte per ciò che riguarda i capilista nominati e che ha confermato, soprattutto, il premio abnorme di 340 seggi riservato alla lista vincente al ballottaggio, previsto senza l’indicazione di alcuna ragionevole soglia di accesso.
Orbene, sottolineare le forzature che si sono rese necessarie per raggiungere questi obiettivi – i “canguri”, le “tagliole”, il “supercanguro”, ecc. – è certo utile e doveroso, perché quelle torsioni bene evidenziano l’arroganza che ha accompagnato l’azione di questo “potere costituente”; così come è importante elencarne le soluzioni pasticciate (10 diverse procedure sono previste per varare le leggi!) o incongrue (un Senato di sindaci e consiglieri regionali non vota le leggi ordinarie, ma sì invece quelle costituzionali!), perché manifestano la qualità della cultura istituzionale di questi novelli riformatori.
Ma più importante ancora è leggere insieme le due normative, perché, grazie alla rappresentanza drogata prevista anche dalla nuova legge elettorale, verrà consentito al capo di un unico partito di scegliere il presidente della Repubblica dopo il settimo scrutino ( quando, nelle Camere riunite, per eleggerlo, sarà sufficiente la maggioranza dei 3/5 dei presenti, e cioè circa 400 voti), nonché 1/3 dei consiglieri del Csm (quando, al quarto scrutinio, sarà necessaria la medesima percentuale di votanti); senza dimenticare che sarà poi quel presidente a nominare un terzo dei componenti della Corte costituzionale, in aggiunta a quelli eletti dalla Camera, dal Senato e dalle supreme magistrature. Anche sugli organi di controllo perciò si estenderà, sia pure indirettamente e con incidenze diverse, il potere diffuso del capo del partito di maggioranza; il complesso equilibrio di pesi e contrappesi necessario per configurare una costituzione liberale e democratica risulterà in tal modo menomato e definitivamente compromesso.
Il precedente del 2005, con le sue evidenti assonanze (oggi, non a caso, dimenticate dai proponenti), ci dice verso quale direzione e sbocco politico marci l’articolato progetto di Renzi.
Sostenere che questa riforma non tocchi la prima parte della Costituzione, come ripetono a gran voce i suoi sostenitori, significa ignorare volutamente che tutta la “governabilità”che si invoca ha oggi la funzione di rendere più veloci e meno contrastate soprattutto le sgradevoli decisioni «richieste dall’Europa» in materia di salute (art. 32), di lavoro (artt. 35-37), di previdenza (art. 38), richieste che fungono da pietra tombale su quanto previsto dall’art. 3 capoverso; del resto l’avvenuta modifica dell’art. 81, con la sua diretta e disastrosa incidenza sull’effettività dei diritti previsti nella prima parte, sta lì a ricordarcelo.
Giustificare infine la riduzione del numero dei senatori con il risparmio di spesa è poi l’avvilente argomento di chi, ormai succube dell’ideologia anticasta oggi imperante, ritiene che sia giunta l’ora di svendere anche i principi costituzionali per l’ennesimo piatto di lenticchie.