Le ragioni di un no[Le nostre ragioni di un no. Altri interventi di Paolo Bagnoli, Luca Baiada, Francesco Biagi, Lanfranco BinniRino Genovese, Ferdinando Imposimato, Massimo Jasonni, Mario Monforte, Tomaso Montanari, Mario Pezzella, Pier Paolo Poggio, Marcello Rossi, Giancarlo Scarpari, Salvatore Settis, Angelo Tonnellato, Valeria Turra]

Piuttosto che esaltare la “bellezza” della Costituzione italiana del 1948 sarebbe ed è più pertinente – soprattutto se si argomenta sulle sue modifiche – mettere in evidenza la sua coerenza. Anche la consueta distinzione fra prima e seconda parte, dicendo o sottintendendo, non si sa con quali certezze e con quanta proprietà, che i principi fondamentali e i diritti e doveri dei cittadini compresi nella prima parte sono comunque intoccabili, non rende giustizia a un testo in cui i singoli passaggi sono intrinsecamente ed estesamente collegati fra di loro fino a formare un corpus organico e omogeneo. L’art. 138 sulle leggi di revisione è una prova della rigidità della Costituzione, mentre l’art. 139 fa della «forma repubblicana» un postulato immutabile.

Il merito principale della nostra Costituzione è proprio il collegamento molto stretto fra i valori e gli istituti della rappresentanza e del governo. Il pericolo della riforma malamente approvata dal parlamento, su cui è chiamato a pronunciarsi il popolo, è che la manomissione della seconda parte preluda a uno sconvolgimento di ciò che viene prima. E infatti i detrattori della Costituzione non dicono che è «brutta» ma che è «vecchia» o «invecchiata». Si lascia intendere che i suoi principi rispecchiano un momento della nostra storia superato, che non esiste più. È come se nei fatti non si discutesse di Senato o di Province ma di Resistenza e prima ancora di Repubblica nel significato che va oltre la forma dello Stato per intendere un modo di convivenza della collettività che rimanda alla Grecia, a Roma o, per venire a tempi più vicini, al senso che ha la repubblica in Francia o negli Stati Uniti. Il ricatto implicito è di accusare di “passatismo” ogni richiamo al clima del 1946-47, come sarebbe in fondo logico per chi colloca la Costituzione non nell’indefinito di una qualsiasi vicenda istituzionale bensì in una precisa temperie politica e morale che si dovrebbe se mai rivalutare come bussola per uscire dalla “decadenza” che ci affligge sotto molti aspetti.

Il campo del ha la presunzione di essere “moderno” e si fa forte di un preteso aggiornamento, dimenticando che la Costituzione è già stata oggetto di modifiche – adottate secondo le disposizioni legislative in materia o imposte in via di fatto – che, ben lungi dal migliorare le pratiche politiche e amministrative, sono risultate quasi sempre negative e difficili da conciliare con il contesto complessivo. È il caso del famigerato emendamento sull’obbligo di parità del bilancio dello Stato. La riforma dell’assetto regionale come disciplinato nel Titolo V si è rivelata tanto posticcia e deludente da richiedere sostanziose modifiche a breve distanza di tempo, con lo stesso progetto ora sottoposto a referendum, sollevando tuttavia altri dubbi e giustificando molte riserve. Il diritto al lavoro (art. 1) è contraddetto ampiamente nella disciplina legislativa corrente e nella stessa fisionomia della società “post-fordista”. Le alleanze che ci portiamo dietro dalla competizione bipolare e dalla guerra fredda hanno giustificato e giustificano di continuo gli sfregi all’art. 11, che con parole nitide e univoche ripudia la guerra sia «come offesa alla libertà degli altri popoli» sia «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Se non bastasse il merito delle singole (disparate e confuse) modifiche della Costituzione su cui ci si deve pronunciare, ci sono anche le ombre di questa deriva che grava sugli equilibri e la coesione della comunità dei cittadini a convincere tutti i “repubblicani” a votare no.