Giacomo Becattinidi Marco Dardi

Giacomo Becattini1, professore emerito di Economia Politica nell’Università di Firenze, per molti anni collaboratore e membro della direzione di questa rivista, è morto il 21 gennaio scorso nella sua casa di Scandicci. Nonostante una lunghissima malattia gravemente invalidante, tanto da costringerlo a quasi totale immobilità negli ultimi anni, Giacomo era riuscito a mantenere fin quasi alla fine un’eccezionale vitalità intellettuale, manifestata in scritti, interventi pubblici, fitta corrispondenza con collaboratori e amici, conversazioni in cui la fatica fisica non riusciva a smorzare l’incontenibile vivacità. Chi lo ha frequentato in questa difficile fase della vita non può non rivolgere un pensiero di gratitudine alla moglie Iva, ai figli Lucia e Marco, per aver saputo creare la nicchia familiare ideale che gli ha consentito di vivere una stagione così produttiva a dispetto di premesse tanto avverse.

La cerimonia commemorativa del 23 gennaio si è tenuta nella sala consiliare del palazzo comunale di Prato, sintesi simbolica perfetta del significato del lavoro di Giacomo nella sua ultima fase: Prato ha offerto il prototipo reale su cui Giacomo ha costruito il suo modello di distretto industriale, base concettuale di una visione dello sviluppo locale che oggi, e non solo in Italia, è associata al suo nome; e Giacomo a sua volta ha offerto ai pratesi un’immagine di sé, un’identità collettiva, che in qualche modo ha cambiato (sono parole del sindaco Matteo Biffoni) la storia della città. Questo è l’ultimo Becattini, l’economista dei distretti che oggi tutti conoscono, ed è certamente così che lui voleva essere ricordato. Ma ripensare la storia di Giacomo a partire da questo finale fa scivolare in una narrazione in cui il distretto sta là, oggetto ben formato in attesa di farsi scoprire, e l’itinerario intellettuale di Giacomo diventa una traiettoria il cui senso sta tutto nella più o meno travagliata convergenza all’oggetto. Chi scrive, per aver assistito da testimone, e per qualche tratto (su un arco complessivo di tempo di più di quarantacinque anni) partecipato da collaboratore alla sua avventura intellettuale, preferisce allineare i propri ricordi intorno a un altro tipo di narrazione, più storicista o, se si vuole, path-dependent. In questa, il distretto è un’ipotesi interpretativa dello sviluppo costruita pazientemente scegliendo fra i materiali disponibili nella cultura economico-politica italiana e internazionale della seconda metà dello scorso secolo e cercando di differenziare il risultato rispetto ad altre ipotesi circolanti all’epoca, nell’accademia come nei partiti politici. Il risultato finale è quello che conosciamo perché quelli erano i materiali, quello il contesto accademico e politico a cui Giacomo reagiva per istinto e ragionamento. Il distretto è un concetto prodotto da una fase storica. Prodotto di successo, perché si è dimostrato utile per capire aspetti importanti di quella stessa fase. Con quale capacità di durata oltre la propria epoca, lo dirà la storia che verrà.

Certamente, il caso di Giacomo è uno di quelli in cui origini e primi passi nella vita sembrano già disegnare un destino. Nasce nella Firenze popolana di Santa Croce da padre artigiano, poi agente di commercio, di ferma fede comunista risalente a ben prima dell’instaurarsi del regime fascista. Nel dopoguerra la famiglia si trasferisce nella «campagna urbanizzata» (per usare una sua fortunata espressione) tra Firenze e Scandicci. Avendo là la sua base, Giacomo completa gli studi per il diploma di geometra, aiuta il padre nell’attività commerciale girando la provincia toscana con i pesanti borsoni del campionario, inizia la militanza politica nelle fila del Movimento giovanile comunista. Con diploma di istituto tecnico, la normativa di allora gli consente una sola strada per proseguire gli studi, l’iscrizione a Economia e Commercio. Qui l’incontro con l’allora professore di Economia politica Alberto Bertolino (anch’egli legato a «Il Ponte» fin dalla fondazione, con Calamandrei, nel 1945). Segue la classica routine studio-lavoro, la settimana spaccata a metà fra Villa Favard e i giri in provincia da commesso viaggiatore, l’attività politica, la laurea, i piccoli incarichi saltuari e borse di studio che gli consentono di continuare a frequentare il «Seminario di Economia Politica» di Bertolino. Fin qui un quadro visto tante volte di vita vissuta nella Toscana del dopoguerra, quasi un frammento di quello sfondo storico dei primi documenti di interpretazione dello sviluppo economico toscano che Giacomo produrrà a cavallo del 1970, alla direzione del neonato Irpet. Manifesterà sempre gratitudine per questa esperienza di vita in cui mondo popolare, politica e alta cultura si tengono insieme anche se, inevitabilmente, le strade a un certo punto si dividono e fra le varie identità professionali in gestazione quella dello studioso emerge e finisce con l’affermarsi. Nel 1957 diventa assistente di ruolo alla cattedra di Economia Politica di Bertolino. Inizia una carriera accademica che, consumati i soliti gradi intermedi distribuiti tra Firenze e Siena, lo porta nel 1968 a succedere a Bertolino in quella stessa cattedra. In tutti questi anni il giovane di formazione marxista matura una trasformazione profonda, non solo perché affronta per la prima volta il pensiero economico non marxista, ma anche per l’influenza esercitata su di lui da un maestro dalla personalità intellettuale forte e molto diversa dalla sua.

Bertolino è, anche per i suoi tempi, un economista atipico. Di formazione prevalentemente giuridica (si diploma nei primi anni venti al Cesare Alfieri, glorioso «Istituto di Scienze Sociali» fiorentino ma non ancora riconosciuto come istituto universitario), con vastissima cultura storica e conoscenza della letteratura economica antica e moderna, mai però perfettamente a suo agio con i tecnicismi del mestiere, che padroneggia per quanto necessario ma evidentemente non sente suoi. La sua visione economico-sociale è fortemente segnata dall’adesione all’idealismo italiano di inizio secolo. Sullo sfondo di una filosofia per la quale (detto molto schematicamente) «il pensiero crea il mondo», al centro del discorso economico di Bertolino sta un’idea spiritualista del lavoro come proiezione della vitalità del soggetto, della sua concezione della vita, sulla realtà sociale e naturale in cui opera. Di questo processo unitario di “personalizzazione” della società e delle cose l’economia studia solo aspetti fenomenici parziali rapportabili a quantità e calcolo; procede per astrazioni valide a fini conoscitivi limitati ma insufficienti a formare un giudizio di sintesi sui fatti sociali, perché un tale giudizio, riguardando la pienezza della vita attualizzata, non può che essere ancorato a una visione unitaria dei fini della vita, a un’interpretazione di «esigenze dello spirito» collocate nel qui e ora storico. Coerentemente, per Bertolino si può parlare di progresso riguardo ai fatti sociali ma solo nel senso di esprimere su di essi un giudizio di valore che va anch’esso storicizzato, mentre parlare di «progresso economico» come categoria assoluta è locuzione senza senso. Questo connubio di storicismo e organicismo radicali si traduce in un orientamento politico liberale ma non liberista, sociale ma non socialista – in breve, in una delle tante versioni di quel «nuovo liberalismo», o «liberalismo sociale» come lo chiamò Guido De Ruggiero, fiorito in Italia nel primo dopoguerra, represso dal fascismo, tornato alla luce del sole nel 1944-45 in varie e diverse articolazioni tenute insieme, ma faticosamente e solo per una stagione brevissima, nel programma politico del Partito d’Azione del quale, non a caso, Bertolino era stato militante.

A ripensarci oggi, è impressionante constatare quanti dei materiali concettuali utilizzati da Giacomo nella sua costruzione del distretto fossero già presenti e ben articolati nell’insegnamento di Bertolino: il carattere unitario del lavoro come progetto di vita, la sua culturalità e socialità, la parzialità unilaterale delle metriche in cui l’analisi economica racchiude l’agire umano. Quanto di tutto questo Giacomo abbia consapevolmente o inconsapevolmente assorbito alla fonte, quanto abbia raccolto per strada nell’itinerario successivo, nessuno potrà mai dire. È però anche certo che Bertolino non poteva bastargli. Primo, perché un giovane deve comunque rielaborare i materiali che trova in termini propri e della cultura del proprio tempo, e poi perché Giacomo aveva un suo personale problema che l’incontro con l’idealista e azionista Bertolino non poteva che acuire: fare i conti con Marx, col marxismo e con quella versione istituzionalizzata del marxismo che era il Pci togliattiano degli anni della guerra fredda. Questa tensione originaria non si scioglierà mai nella sua mente. Da una parte il richiamo del soggettivismo idealista di Bertolino, con la sua enfasi sulla libertà spirituale della persona, sull’individuo anche se sempre assorbito in progetti essenzialmente sociali; dall’altra il bisogno sempre presente di riferirsi a una qualche struttura oggettiva condizionante, un’ombra di determinismo sociale che in forme più o meno intrusive si riaffaccia continuamente nei suoi schemi mentali. Oggi, a vicenda umana ormai conclusa, è difficile sottrarsi all’impressione di un filo ininterrotto che attraverso gli anni si sdipana dalla struttura di classe economicamente determinata del suo marxismo giovanile, a quell’entità un po’ ineffabile, la «coscienza dei luoghi», protagonista del libro scritto con l’urbanista Alberto Magnaghi, il suo ultimo testo a stampa.

La storia comincia presto ad assestare colpi alla fede comunista di Giacomo. L’ordinaria attività di sezione è sufficiente a istillargli il dubbio che militanza e libertà di pensiero non vadano molto d’accordo nel Pci di allora, tanto che quando arriva la rivolta ungherese del 1956 il vaso è già colmo. Per molti questa fu occasione di rotture traumatiche e pubbliche sconfessioni. Un esempio illustre è quello di Antonio Giolitti, che qui ricordo perché Giacomo gli è stato vicino fino alla fine in un rapporto di reciproca amicizia e grande stima intellettuale e politica. Ma nel caso di Giacomo le cose vanno diversamente; il distacco dal Pci è singolarmente morbido e si consuma al rallentatore, arrivando al non rinnovo della tessera solo nel 1959. È chiaro che non vuole danneggiare un partito in cui nonostante tutto continua a vedere un baluardo di democrazia e moralità politica, e con il quale continua a mantenere rapporti di collaborazione da esterno indipendente. Mediatore importante fra Giacomo e il partito in questa fase è Elio Gabbuggiani, altro amico personale e rispettato uomo di riferimento politico all’interno del Pci. Con la giunta fiorentina di Gabbuggiani nei primi anni ottanta Giacomo ha la sua prima (e ultima) esperienza di amministratore pubblico come consigliere comunale indipendente di sinistra nel gruppo comunista. Ma soprattutto è Gabbuggiani che nel 1968, insieme con Giuseppe Parenti, allora presidente del Comitato tecnico-scientifico per la programmazione economica, vuole Giacomo a direttore scientifico dell’appena costituito Irpet, non ancora ente regionale e organismo ancora informe che Giacomo ha la facoltà di plasmare a sua discrezione senza dover subire condizionamenti di alcun tipo.

È così che inizia il suo percorso di interprete dello sviluppo italiano a partire dal caso toscano con tutte le sue peculiarità. Nel 1973, al momento della regionalizzazione dell’istituto, darà le dimissioni dalla direzione ma nel frattempo avrà prodotto, con l’aiuto di una squadra di giovani ricercatori fortemente motivati, il primo documento importante su questo percorso, quella relazione su Lo sviluppo economico della Toscana, con particolare riguardo per l’industrializzazione leggera (1975, ma ultimata già nel 1973) che da un lato inizia la lunga serie dei suoi scritti sullo sviluppo locale, dall’altro dà la misura del raggiunto distacco dalla lettura comunista ufficiale delle caratteristiche e possibilità di sviluppo dell’economia italiana. Non c’è ancora il distretto, ma è qui che Giacomo prende definitivamente le distanze da una lettura marxista, classista, industrialista qual è quella dei comunisti toscani e non solo. E infatti con l’uscita del documento Irpet ha inizio un lungo periodo di continue punzecchiature e polemiche da sinistra. A distanza di anni Giacomo ricordava ancora distintamente l’avvertimento rivoltogli, al suo esordio in consiglio comunale, da un dirigente Pci locale: «Tu sai che noi non condividiamo…», un chiaro segnale di cosa fosse il totalitarismo intellettuale contro cui Giacomo reagiva.

Ma il «fare i conti con Marx» di Giacomo non passa solo per la ricerca sulla Toscana: la seconda mossa di questo percorso è il rivolgersi dei suoi interessi di studio verso la figura di Alfred Marshall, uno dei tanti anti-Marx nella storia del pensiero economico. Sorge subito l’interrogativo: perché proprio Marshall fra tutti? La scelta certamente non è ispirata da Bertolino, che non aveva una particolare predilezione per Marshall anzi, fra i padri dell’economia contemporanea, teneva semmai in maggior considerazione Pareto. In un suo promemoria che ritrovo allegato a una mail del 2013, Giacomo stesso ipotizzava di essere stato influenzato da Antonio Pesenti, un altro degli intellettuali rimasti nel Pci con cui anche dopo l’uscita dal partito aveva mantenuto ottimi rapporti.

Sono entrato in contatto col pensiero marshalliano nel corso della preparazione della mia tesi di laurea sulla teoria della piena occupazione, partendo da basi marxiste. Ho poi ritrovato Marshall sulla mia strada nel corso di economia per corrispondenza dell’Istituto Antonio Gramsci (anni 1954-55) dove Antonio Pesenti e Luigi Occhionero distinguevano Marshall dalla schiera degli economisti neoclassici, gratificati del titolo di economisti volgari.

Come che sia, il suo primo importante cimento con la teoria economica, il libro del 1962 Il concetto d’industria e la teoria del valore, contiene un ampio capitolo sulla teoria del valore marshalliana, di cui dà una rilettura che fu giudicata «originale e persuasiva» niente di meno che da Piero Sraffa, come Giacomo amava ricordare. Proprio questo contatto diretto con Sraffa, e attraverso Sraffa con la Cambridge post-keynesiana e culla della critica dell’economia politica degli anni sessanta e successivi, inaugura il secondo filone principale dell’avventura intellettuale di Giacomo. La ricerca teorica di Sraffa, l’uso di Produzione di merci a mezzo di merci come binocolo rovesciato per concentrare tutto lo scontro sociale su movimenti in una frontiera salari-profitti ricavata da un’astrazione tanto tersa quanto rarefatta, non potevano essere più lontani dagli interessi di Giacomo. La sua partecipazione a quel dibattito fu in sostanza nulla. Ma quanto importante sia stato per lui Sraffa si può ricostruire da altri segnali. C’era la devozione di Sraffa a Gramsci e il suo rapporto sofferto con il Pci, in cui Giacomo poteva in qualche misura rispecchiarsi. C’era l’impegno di entrambi in una resa di conti vagamente simmetrica: Sraffa cercava in un Marx analiticamente emendato ragioni per sottrarsi allo schema domanda-offerta di Marshall, Giacomo cercava nella rilettura di Marshall qualche buona ragione per sottrarsi a Marx. E infine, c’era un aspetto puramente seduttivo, il fascino irresistibile del luogo verso cui il triangolo Sraffa-Marshall-Marx attirava Giacomo – Cambridge e la sua quasi palpabile “atmosfera” (anche qui si può leggere un disegno del destino). Era un coinvolgimento anche emotivo, che posso testimoniare per averlo toccato con mano in settimane passate insieme a rovistare negli scatoloni dei Marshall Papers in una semideserta Marshall Library estiva. Nelle sue esplorazioni sul pensiero economico vittoriano non c’era solo l’eterna tensione politica di Giacomo fra marxismo e idealismo, ma anche molto gusto per i riti della ricerca fine a se stessa. In questo filone, ecco l’incontro con Stuart Mill e i socialisti vittoriani, quanto mai naturale date le propensioni politiche di Giacomo, ma anche l’incontro con un economista minore e a prima vista poco in sintonia come Henry Fawcett, oggetto di dissertazione accademica per il convegno centenario organizzato da Trinity Hall, un altro momento di assoluta delizia estetica.

Quelli della mia generazione che hanno in qualsiasi modo, più o meno episodicamente, accompagnato Giacomo nel suo percorso furono arruolati negli anni a cavallo del 1970. A questo stadio l’articolazione della ricerca di Giacomo sui due binari paralleli, Toscana e Marshall, era visibile quasi fisicamente. L’Irpet aveva la sua prima sede a non più di cento metri in linea d’aria dall’Istituto di Economia Politica; i seminari su Marshall, su altri aspetti di teoria economica e sull’economia toscana si intrecciavano, i ricercatori dei due istituti correvano dall’uno all’altro incrociandosi per le scale. Io stavo dalla parte di Marshall. Cosa cercava allora specificamente Giacomo su questo autore, e in quale funzione rispetto alla parallela ricerca sulla Toscana? Un argomento che ritrovo nella memoria di quegli anni era il tema della continuità famiglia-impresa, la ricerca di schemi teorici e storici di organizzazione del lavoro che potessero servire a spiegare il lavoro a domicilio e altre riserve di energia latenti nella mezzadria toscana. Temi legati all’economia rurale, che fra l’altro contribuirono ad avvicinare Giacomo a compagni di strada improbabili date le loro origini politiche. Fu il caso di Nicholas Georgescu Roegen, diventato grande amico nonostante l’esperienza vissuta della sovietizzazione postbellica in Romania ne avesse fatto un incontenibile anticomunista viscerale; e quello dell’arcimoderato pluri-ministro democristiano Giuseppe Medici, profondo conoscitore di economia agraria che Giacomo apprezzava. Una seconda motivazione che emerge dai miei ricordi è questa. Dal 1970 Giacomo faceva parte del gruppo di economisti che si riunivano periodicamente nei seminari romani del mitico «Gruppo Cnr per lo studio dei problemi della distribuzione, progresso tecnico e sviluppo», un ambiente in cui si confrontava ai livelli più avanzati allora possibili in Italia con le teste di punta della sua e di più giovani generazioni. Vi circolavano personaggi con cui sentiva istintiva affinità, come Giorgio Fuà; e altri che, pur ammirandoli, suscitavano in lui (certamente non un timido!) un certo timore reverenziale: ricordo fra questi Spaventa, Sylos Labini, e soprattutto il già allora riconosciuto purista dello sraffismo italiano, Pierangelo Garegnani, per qualche anno anche collega di Giacomo nella facoltà fiorentina. La competitività di questo ambiente (nei seminari del gruppo la critica non conosceva riguardi); l’esempio di Garegnani, e in altro modo anche di Pasinetti, di cercare nella galleria degli antenati un padre nobile come David Ricardo a cui collegarsi; l’ascendente culturale del neo-ricardismo sulla sinistra italiana di allora; tutto questo convinse Giacomo che per non soccombere, per acquistare visibilità e rispetto sulla nuova frontiera degli studi economici italiani,occorresse collegare il proprio discorso a una figura altrettanto forte di economista del passato. E non poteva essere Marshall a svolgere tale ruolo? Già Giacomo aveva preso nota del riferimento marshalliano agli «industrial districts», niente più che una categoria descrittiva ma accompagnata dalla suggestiva immagine della “atmosfera industriale”, qualcosa che anche Giacomo ricordava di aver respirato in certi luoghi. L’autore era promettente, ma per farne il perno di un’operazione culturale quale Giacomo aveva in mente c’era una difficoltà: bisognava riscattarlo dal discredito analitico in cui lo aveva gettato Sraffa con la sua critica del 1925 dei rendimenti variabili nella teoria del valore. Per quel che posso ricordare, questo restauro d’immagine era la consegna affidata a noi giovani reclute appena arruolate all’impresa.

Le cose poi non sono andate esattamente secondo il piano. La ricerca, una volta partita, prende la mano e trascina su strade che uno non avrebbe mai pensato di percorrere. Anni dopo, verso la fine degli anni ottanta, fu arruolato al progetto di Giacomo un filosofo, Tiziano Raffaelli, e di nuovo la ricerca prese svolte impreviste. Nel dicembre 1990 il convegno internazionale per il centenario dei Principles di Marshall organizzato da Giacomo a Firenze finì con l’inserire il gruppetto italiano in una rete internazionale, e da quel momento in poi il progetto si autonomizzò completamente dalle intenzioni iniziali. Distretti industriali da un lato, costruzione di una new view su Marshall dall’altro, procedono senza conflitti ma anche indipendentemente l’uno dall’altro. Per la parte che riguarda personalmente Giacomo, il suo Marshall contiene un po’ del Marshall di Raffaelli o per quello che vale del sottoscritto, ma è in gran parte un Marshall becattiniano. A lui piaceva chiamarlo «Marxall», una battuta che credo risalga a Mariano D’Antonio, a evocazione di una sintesi desiderata, ma in realtà mi sentirei di dire che la “x” di Marx non c’entrava molto. Giacomo valorizzava di Marshall aspetti che andavano a integrare e rafforzare le componenti bertoliniane notate sopra della sua visione. La teoria del lavoro come elemento decisivo nella formazione del “carattere”, categoria vittoriana che Giacomo rileggeva in senso estensivo; la già ricordata atmosfera industriale, specifico fattore locale di produttività; la possibilità di una popolazione di piccole imprese di replicare e superare la performance di una grande impresa sfruttando nessi culturali locali che alimentano il suo di più di capacità cooperativa; l’importanza dell’organizzazione del territorio, della configurazione e disposizione degli elementi che compongono gli insediamenti umani, nel determinare la qualità della vita e le capacità industriali delle comunità insediate. E forse non sarebbe bastato tutto questo a dar vita al concetto di distretto industriale senza un ulteriore arricchimento culturale costituito dall’incontro di Giacomo con un gruppetto di storici professionali (non storici economici) con cui si è trovato a collaborare in fasi diverse.

Tre sono i nomi rilevanti: Jonathan Steinberg, suo mentore nella fase degli studi vittoriani e dell’acclimatamento alle sofisticate atmosfere di Trinity Hall; Roger Absalom, autore fra l’altro di una minuziosa ricostruzione della resistenza nella Toscana rurale e partecipante al progetto «Storia di Prato»; infine Fernand Braudel, che nei suoi ultimissimi anni fu di quel progetto il direttore. Da Absalom Giacomo diceva di aver imparato moltissimo per il metodo della ricerca storica sul campo. A Braudel si deve attribuire il merito di aver coinvolto Giacomo nel progetto Prato, e a questo coinvolgimento si deve se il distretto – già entrato in letteratura nel 1979, ma in versione ancora abbastanza teorica – decolla come strumento interpretativo, sottoposto a un test prolungato e di massima severità su un pezzo di territorio di così forte caratterizzazione storica. Aggiungiamo che nel modello-distretto gioca un ruolo importante la “lunga durata” dei processi che ne costituiscono le strutture profonde, ed è inutile rimarcare quanto questa nozione sia inseparabile dal nome e dall’opera di Braudel. Il distretto è forse figlio dell’indagine storica su Prato più che di Marshall, nel senso che Giacomo ci ha messo dentro tutto quello che di concreto vedeva sentiva e fiutava frequentando di persona Prato e i pratesi, oltre che compulsando libri e archivi. Il testo finale della ricerca esce nel 1997, ma a questo punto molto è già filtrato in ricerche parallele e il distretto è ormai affermato strumento di lavoro per una comunità multidisciplinare internazionale di scienziati sociali.

Arriviamo così alla fine del secolo, fioccano i riconoscimenti del lungo lavoro condotto su entrambi i fronti, storia del pensiero economico e interpretazione dello sviluppo di un tipo di sistema industriale caratteristico di realtà non limitate al nostro paese. Se ne accorgono grande stampa e governi locali, se ne accorge la Swedish Foundation for Small Business Research che attribuisce a Giacomo il suo Global Award, si consolida l’esperienza del campus estivo di Artimino con gran seguito di giovani. Molte le soddisfazioni, ma purtroppo inizia anche la malattia invalidante che gli impedisce di gustare i frutti di questa stagione. Nonostante ciò Giacomo continua a raffinare la sua creatura per trarne lezioni di più largo respiro. Se il distretto è preso come unità analitica elementare di un modello di sviluppo, quest’ultimo va di conseguenza articolato per luoghi e diventa un modello di sviluppo “locale” non nel senso limitato di modello di come un luogo cresce su, e di, se stesso come nel caso di Prato, ma nel senso di modello virtualmente globale che spiega lo sviluppo attraverso tutti i livelli di interazione fra unità locali variamente configurate. Questa ambizione a architetture più complesse si riveste negli ultimi anni delle tinte apertamente utopistiche che colorano gli ultimi scritti. Si può ricordare come anche Marshall, nei suoi ultimi anni di vita, ragionasse di sistemi sociali ideali per una grande opera sul progresso economico rimasta in abbozzo fra le sue carte. Il distretto è sempre stato per Giacomo, credo anche per esperienza di vita e gusto personale, un modello di “buona vita”.

All’alba del nuovo secolo le sue preoccupazioni si concentrano sulle insidie della globalizzazione, forza incontrollata potenzialmente delocalizzante e omogeneizzante attraverso lo spianamento di tutti i tipi di frontiere, anche quelle “virtuose” perché funzionali alla protezione delle culture locali. In tanti degli ultimi scritti domina l’immagine di un capitalismo che corre pericolosamente su un crinale sospeso fra la possibilità di uno sviluppo ancora “umano” alimentato dalle diverse identità dei luoghi, e il precipizio di un capitalismo livellatore e predatorio in cui si rispecchiano le più estreme ideologie neoliberiste. Alla luce di questi scritti non si può non restare colpiti dall’accidente storico che ha collocato la scomparsa di Giacomo proprio nei giorni dell’insediamento di Trump alla presidenza Usa. Come in un brusco risveglio, ci si trova di fronte a uno scenario neo-nazionalistico che è tutto il contrario di quello neoliberista paventato da Giacomo, e però forse altrettanto o più minaccioso per il suo ideale di buona vita: chiusura delle frontiere, protezionismo, tutti a casa propria a coltivare in beato isolamento vere o presunte virtù nazionali. Gli incubi qualche volta si realizzano, ma quasi mai quelli che uno si aspetta.

Infine, qualche parola su un altro degli assilli costanti degli ultimi anni, il rapporto con la scienza economica “standard”, quella insegnata nella manualistica internazionale, che Giacomo percepiva come un altro segnale di livellamento, il prodotto di un establishment alienato e alienante. Agli inizi non era così. Quando l’ho conosciuto il suo atteggiamento riguardo alla teoria era decisamente pragmatico: il messaggio per noi studenti era: cerchiamo nella scatola degli strumenti quelli che possono esserci utili, per il resto ci si arrangia come si può. Al corso di Economia Politica insegnava la teoria della concorrenza monopolistica, a me fece studiare il modello di allocazione del tempo di Gary Becker, tutte varianti del “mainstream” teorico nel quale del resto rientrava a pieno titolo, con tutte le sue peculiarità, anche la teoria marshalliana. Cominciò a cambiare qualche anno dopo, e se ricordo bene un punto di svolta fu l’incontro con Georgescu Roegen che, già dagli anni sessanta, portava in giro per il mondo un suo lungo saggio di epistemologia economica basato sulla distinzione fra due modalità di ragionamento, la “dialettica” e la “aritmomorfica”: insufficiente la seconda a una comprensione piena dei fatti sociali, ma ahimè, argomentava Georgescu, tutta l’economia standard è racchiusa in orizzonti aritmomorfici e quindi viziata dalle fondamenta. Giacomo fu molto impressionato da quel saggio e il dualismo dialettico/aritmomorfico entrò definitivamente nel suo lessico e nel suo modo di rapportarsi alla teoria economica.

Negli ultimi anni, sull’onda del distretto e ancora di più della crisi finanziaria del 2007, si era vieppiù convinto di un difetto costitutivo fondamentale del“mainstream” preso in blocco. Lo scenario che più aborriva, l’identificazione neoliberista della modernità con cosmopolitismo e cancellazione delle differenze culturali, era diventato per lui il risvolto ideologico inseparabile di una teoria economica fondata sull’equilibrio di un sistema di mercati popolato da individui-atomi senza radicamento sociale di alcun genere. Valorizzare lo sviluppo locale era diventato tutt’uno col combattere quel falso concetto di modernità e la falsa teoria economica che ne costituiva la pezza d’appoggio intellettuale. Una critica avvolgente a cui non si sottraeva nemmeno l’amato Marshall. Era stato Giacomo, con un’ipotesi interpretativa che ha avuto una certa fortuna, a stendere una specie di cordone sanitario, all’interno della principale opera di Marshall, fra la teoria dei prezzi e mercati sviluppata nel libro V dei Principles, e la teoria dell’organizzazione industriale sviluppata nel libro IV: ottima la seconda, ma la prima da mettere in quarantena perché sospetta e forse da rifiutare.

Accadde che le nostre opinioni su questi temi non collimassero, e da ciò una lunga disputa che ci ha tenuti occupati negli ultimi anni senza che nessuno dei due riuscisse a smuovere l’altro dalle proprie convinzioni, con un po’ di frustrazione credo da ambo le parti. Non è certo il caso di portare in pubblico i termini di quella discussione, ora che lui non può più rispondere. Vorrei solo, a conclusione di questa memoria, svolgere una breve riflessione che ha origine ancora una volta da Bertolino. Nei primi anni trenta anche Bertolino, stimolato forse dalla polemica antiliberista del corporativista Ugo Spirito, si era spinto a chiedere alla teoria economica una rifondazione radicale per adeguarsi alle esigenze nuove che si manifestavano nella ricerca di “terze vie” fra capitalismo e socialismo, sia nell’Italia fascista che fuori. All’epoca Einaudi, bersaglio diretto della critica, gli rispose urbanamente che prego, cominciasse lui a rifondare e facesse vedere come si fa. Tutto finì lì, non nel senso che Bertolino rinunciasse a criticare il liberismo di Einaudi (anzi ci tornò a più riprese), ma che continuò a farlo senza più scoprirsi tanto sul piano dei desiderata della teoria economica. Passano circa 15 anni ed ecco un più maturo e forse disincantato Bertolino che constata come persino Keynes, il grande innovatore, l’uomo capace di tradurre in economia lo spirito del tempo, nell’argomentare strettamente economico innovasse sì, ma senza mettere in questione i fondamenti della teoria, muovendosi con continuità da Malthus e da Wicksell. In tutto questo si può leggere una lezione di metodo che riassumerei così: il nocciolo della questione del metodo della scienza economica non sta tanto negli schemi teorici, più o meno ad hoc, con cui si pensa, quanto nel tenerli al posto che gli compete, e cioè nel non permettere che siano gli schemi a pensare al posto nostro. Usarli, quali che essi siano; pensare liberamente. Si può fare l’uno e l’altro. Credo che l’opera di Giacomo sia uno splendido esempio di libero pensiero strumentato su una base di cultura economica complessa e attraversata da tensioni interne forse inconciliabili. Se qui c’era un problema metodologico lo ha affrontato e risolto, in un modo tutto personale e inimitabile, semplicemente vivendolo. Non aveva nessun bisogno di spendere energie in battaglie dottrinarie che non possono risultare in altro che in frustrazione, perché su quel terreno il chiarimento risolutivo, quello che dovrebbe valere per tutti, non arriva mai.

1 Questa memoria è basata in gran parte su ricordi, ricordi di conversazioni e documenti personali. Se su qualche dettaglio la memoria mi ha tradito, me ne scuso in anticipo. Per il controllo dei dati biografici ho utilizzato vari scritti di Giacomo, in particolare due interviste: a N. Bellanca e T. Raffaelli in «Il pensiero economico italiano», 7 (1999), e a N. Bellanca, P. Meucci e T. Raffaelli in G. Becattini, Scritti sulla Toscana, vol. IV, Firenze, Le Monnier per Regione Toscana, 2007. Ringrazio la signora Iva per la disponibilità a rievocare con me episodi di vita di suo marito, e Alessandro Cavalieri per chiarimenti su vicende Irpet. Per ragioni di spazio e leggibilità ho omesso tutti i riferimenti bibliografici ma sarò lieto di fornirli a richiesta (marco.dardi@unifi.it).