Franco Fortini: vent'anni dopodi Luca Lenzini

[Per il ventesimo anniversario della scomparsa di Franco Fortini (28 novembre 2014) «Il Ponte» dedica al ricordo dello scrittore l’intera sezione di «Imbarco immediato» nel numero di gennaio 2015, con contributi di Antonio Allegra (L’allegoria del comunismo. Appunti su Fortini e Lukács), Gabriele Fichera (Macerie che dovremmo riconoscere. L’ultimo Fortini e la “figura”), Alessandra Reccia (A scuola con Fortini. Educazione digitale: sistemi produttivi e modelli cognitivi) e Luca Lenzini (L’impermeabile scuro. Ricordando Fortini a vent’anni dalla scomparsa). Anticipiamo il contributo di quest’ultimo.
Luca Lenzini ha curato l’edizione di Tutte le poesie di Franco Fortini, nella collana degli «Oscar» Mondadori. Sulla presenza di Fortini nel «Ponte» si veda Tomaso Cavallo, Franco Fortini e Il Ponte, con una Postilla di Giuseppe Favati, Atti del convegno «Cinquant’anni del Ponte», Pisa, 20 gennaio 1995, «Il Ponte», nn. 11-12, novembre-dicembre 1998.]

1. Nel dicembre 1994, pochi giorni dopo la morte di Franco Fortini, il Premio Pozzale-Luigi Russo per la poesia fu assegnato a Composita solvantur, l’ultima raccolta del poeta, pubblicata quello stesso anno. In occasione della cerimonia, Cesare Garboli lesse e commentò a braccio, da par suo, alcune poesie del libro, e tra queste Quella che…, dalla sezione Elegie brevi:

Quella che.
È ritornata questa notte in sogno.

Uno dei miei compivo ultimi anni.
«Sono, – le chiesi, – vicino a morire?»
Sorrise come allora.
«Di te so, – mi rispose, – tutto. Lascia
quel brutto impermeabile scuro.

Ritornerai com’eri».

Nel commentare a braccio i versi conclusivi Garboli ebbe a osservare, en passant: «Fortini portava dei brutti impermeabili scuri. Bisogna sapere questo. Si vestiva come un uomo di oltrecortina, per una sorta di misterioso sadomasochismo». L’osservazione è nello stile di Garboli, che era solito indugiare su aspetti particolari o secondari di un autore, per poi orchestrare con sapienza e penetrazione interventi di più largo respiro, in cui singoli spunti di quest’ordine, in apparenza estemporanei e di superficie, s’intrecciavano in profondità con l’interpretazione di opere e personalità complesse, amate o disamate.

L’annotazione sugli impermeabili si lega direttamente a un passaggio della poesia, ma non è di solo “servizio”. Anche qui, infatti, il critico rinvia a un tratto psicologico dello scrittore, coerente con il suo discorso sulle linee distintive dell’opera fortiniana; ovvero, detto in estrema sintesi e senza i dovuti ragguagli, al «misterioso sadomasochismo» dell’intellettuale e poeta. Ma non è tanto su quest’ultimo punto – pure sollecitante e anzi provocatorio, e tutt’altro che marginale nell’intervento in morte – che vale la pena soffermarsi, quanto sull’attribuzione del modo di vestire a una tipologia, quella di «uomo di oltrecortina», che nel ’94 evocava un mondo già scomparso, con l’effetto di assorbire in qualche modo anche Fortini in quel plumbeo universo di rigidi (e temibili) conformismi, che in vita aveva criticato con coerenza e coraggio. Ma davvero è a quel “modello” che Fortini faceva (consciamente o meno) riferimento, nella sua maniera di vestire? Era forse un nostalgico, tetragono ammiratore (fuori tempo massimo) delle sfilate in Piazza Rossa, o un esule “bulgaro” in Occidente?

Per frivolo o indegno che sia rammentarlo a tal proposito, il ricordo delle speranze suscitate dalla Rivoluzione d’Ottobre, e di quel che ne seguì, non è qualcosa che si può espungere agevolmente dall’esistenza e dalla poesia di Fortini; nondimeno Quella che…, nel suo svolgimento, sembra implicare altro genere di commenti da quelli suggeriti da una prospettiva esclusivamente ideologica o storicistica. Intanto, mi sentirei di dire che i trench blu indossati da Fortini non erano né particolarmente brutti né di provenienza sovietica, come del resto il cappotto dello stesso colore, il loden che si vede in una bella fotografia di Mario Dondero di fine anni ottanta, suo indumento elettivo d’inverno. «Un bel volto caparbio, occhi chiari e indagatori, sobrie le movenze, cappotto blu e taccuino di appunti sotto mano»: così lo rammentava Rossana Rossanda, a circa un decennio dalla morte. Quanto a Quella che…, il «brutto impermeabile scuro» appartiene al quadro onirico dei versi e in tal quadro – in cui fine prossima e inizio, gioventù e vecchiaia si tendono la mano – vi affiora come effet du réel; un elemento forse luttuoso che occulta e rimuove un passato condiviso, di tutt’altro segno; e in questo senso, lo spunto di Garboli, che si tiene al piano biografico-letterale, varrà soprattutto come traduzione di un’aura straniante, di una intenzionale alterità dell’uomo Fortini rispetto alle mode correnti a fine Novecento (sempre generalizzando e per approssimazione, “angloamericane”, quali noi, come Garboli – che era sempre, non a caso, elegante –, siamo abituati: macintosh chiari, tweed autunnali o morbidi cammelli).

Ma l’insistenza sullo “scuro” e sul monocorde, che è effettivamente un tratto tipico di Fortini, intonato con la melancholia degli intellettuali, può essere interpretata in modi diversi, non necessariamente alternativi. Per esempio come temperato elemento di anonimato urbano, o come più marcata traccia d’impronta “protestante” – «Lattes pastorizzato»: Franca Magnani nella sua autobiografia rammenta il soprannome affibbiato allo scrittore nel campo d’internamento in Svizzera, nel ’44, per via del soprabito prestatogli da un compagno (da un ambiente di pastori protestanti, a Zurigo, fu accolto in quel periodo Fortini, nato Franco Lattes, e vi conobbe Ruth Leiser, sua futura moglie). Ma anche, quell’insistenza, potrebbe celare un segnale narcisistico (allora, chissà…) come scelta di uno sfondo appropriato per far risaltare il colore degli occhi, azzurro chiaro appunto. E se Quella che… è una donna amata da Fortini in gioventù (ce n’è traccia in Foglio di via e nei Versi primi e distanti), che ritorna in sogno nei suoi «ultimi anni», la richiesta («Lascia…») fa pensare piuttosto a una “preistoria” dell’autore non inquadrabile, si direbbe, nel personaggio codificato a partire dal dopoguerra (quel personaggio tratteggiato un po’ astiosamente da Pasolini negli anni di «Ragionamenti»), quasi quest’ultimo non fosse altro che un travestimento agli occhi di chi sa tutto. In quel «ritornerai» c’è un appello, certo, che nello stacco finale suona come una promessa; ma quanto c’è poi di adesione da parte di chi ha fatto il sogno e ne trascrive, senza commentare, l’evento? Che cosa nasconde/rimuove l’impermeabile scuro, e cosa nei pressi della fine ritorna? La giovinezza soltanto, o anche altro è implicato in quel “ritorno del rimosso”? Non è banale tentare una risposta, come nulla è banale o semplice in Composita solvantur, anche quando (anzi, specialmente quando) sembra semplice la lettera dei versi.

«Era diventato un signore elegante, sempre più elegante, un gran signore dal volto aguzzo alla Casanova e con la fissazione di Leopardi». Quest’altra annotazione di Garboli si legge nel necrologio di Fortini apparso su «la Repubblica» pochi giorni prima della cerimonia del Premio Pozzale, all’indomani della morte. È singolare il contrasto tra il «gran signore» e l’«uomo di oltrecortina»: com’è che si passa dall’uno all’altro? E che c’entra, anche, Leopardi, che non era per nulla una «fissazione» dell’ultimo Fortini? Il fatto è, io credo, che nel necrologio scritto a tamburo battente il critico, sopraffatto dalla notizia della morte dell’amico (e dai dichiarati «rimorsi» nei suoi confronti), e dalla certezza della vecchiaia notificata dalla inesorabile scomparsa dei propri maestri, avversari e interlocutori, è forse di sé stesso che inconsciamente stava parlando.

2. Tornando al vestiario, c’è una foto di Giulio Bollati che ritrae Fortini in una riunione einaudiana a Rhêmes, nel ’78, vestito con una delle sue altrettanto tipiche casacche o meglio bluse di taglio “sahariano”, pure blu (ne aveva anche da casa, più chiare): tenuta da far raccapricciare Garboli, c’è da scommetterci, ma nemmeno in questo caso riconducibile all’«oltrecortina» o a scenari bulgari. Bluse come quelle appaiono, invece, indosso ad artisti o anche registi, non importa se francesi o russi, in non poche immagini novecentesche d’archivio; bluse che con le loro molte tasche si prestano non a occasioni mondane o di rappresentanza, bensì di lavoro. Proprio qui affiora la distanza sia dal modello casual sia da quello borghese, si direbbe: il tratto “originale” è calato in una dimensione quasi occulta, mimetizzato, eppure memore di una libertà non disgiunta dall’obbedienza quotidiana al “fare”, al lavoro (artigianale o artistico: si sa che da giovane Fortini era incerto tra pittura e letteratura).

Nel 1978 – a proposito di lavoro – Alfredo Barberis in una intervista chiese a Fortini se era un «lavoratore metodico» come Moravia, oppure «saltuario». Proprio il genere di domanda che, per quanto sottendeva, faceva infuriare Fortini, il quale così rispose, trattenendosi: «Potrei quasi arrabbiarmi perché vorrei che si rendesse conto come la figura dello scrittore alla Moravia è una figura di pochissimi esemplari, perché per sopravvivere, nel nostro paese, occorre fare due, tre, cinque mestieri, si è in uno stato di esaurimento perpetuo. Per anni e anni le ore del mio lavoro sono state strappate, letteralmente strappate, al sonno e all’esaurimento permanente. Ecco quindi uno stato di puro caos, la casualità del lavoro, l’intermittenza, lo spreco, il senso della vita che se ne è andata via senza aver fatto quel che si doveva fare, i libri non letti ma sbirciati…».

Vengono in mente certi versi di Poesia e errore:
Qui libri, scatole, lettere,
e l’apparato scherano dell’avvilita intelligenza;
qui gli angoli acuti del disordine
cartoline che scricchiolano, pastiglie, inviti ai concerti.

Torna alla memoria, anche, un bellissimo passaggio-excursus della Biblioteca immaginaria, in Dieci inverni, che comincia: «Vi sono – come sappiamo – libri importanti, capitali, inesauribili…», e termina: «Così passano gli anni. E i libri dei morti ci guarderanno sempre più irraggiungibili, con la tristezza di chi ha detto: “così, non siete capaci di vegliar meco un’ora sola?”» – ma sto divagando.

A oltre trent’anni di distanza dall’intervista citata, appare completamente mutato il quadro sociologico a cui Fortini poteva, senza troppe spiegazioni, richiamarsi. Per lo scrittore che entri nel giro dei media, i guadagni sono oggi ben superiori a quelli che poteva avere Moravia al suo tempo, e molto più numerosi, in Italia, gli autori che riescono a sopravvivere grazie al proprio mestiere (del che, non fossero per lo più scadenti, ci sarebbe soltanto da rallegrarsi). Nondimeno è altrettanto vero che per più di una generazione, svanito o reso arduo, a dir poco, il raggiungimento del “posto fisso” nella scuola, nell’università o anche nell’industria culturale, i «due, tre, cinque mestieri» sono diventati indispensabili per sopravvivere; mentre la sparizione o compressione del ceto medio, da una parte, il trionfo del consumismo e della “precarietà” dall’altra hanno finito per mettere in crisi e modificare anche le ragioni per cui si leggono i libri, concepiti e fruiti come strumenti d’intrattenimento. Di vegliare con i grandi libri, non se ne parla proprio, altro che «un’ora sola». La stessa crescente e drammatica divaricazione tra ricchi e poveri, poi, ha riservato a pochi eletti il modello del lettore-autore di tradizione umanistica, quale il Progresso sembrava confermare e promettere ad ampie fasce di popolazione: modello fondato nell’ideale dell’«otium domenicale» che tanto, a sua volta, irritava Fortini (era solito rilevare, in accezione di classe, il dominus dell’etimo).

Una volta, in pieno relax estivo, andai a trovarlo nella casa di Ameglia, provenendo dalla Versilia, e dato che non portavo in fondo un lavoro da tempo intrapreso, mi chiese d’un tratto se mi avesse mai fatto una delle sue famose “scenate”: disse proprio così e i conoscenti di Fortini sanno di cosa parlo. Cambiai velocemente discorso (per pura fortuna, non era mai successo), ma quasi sovrappensiero e come per non calcare il rimprovero, disse: «Non capisco se sei troppo indaffarato o troppo pigro». Non poteva concepire che si potesse essere insieme l’una e l’altra cosa, passando senza costrutto dall’iperattivismo all’ozio (ma sto di nuovo divagando).

L’otium: intervenendo in un convegno del 1987 su «Ermeneutica e testo letterario» e polemizzando con un collega universitario, Fortini ebbe allora a osservare: «Quest’idea dell’otium domenicale, la mancanza, cioè la caduta, di passione e quindi la ricettività nei confronti del testo è qualcosa che conosco bene, ma che non appartiene all’elemento agonistico o polemico che spesso, male o bene, mi anima di fronte ad un testo letterario. E infatti mi scattava subito nella mente [ascoltando il collega] il ricordo di Brecht quando dice: “vorrei anche essere un saggio. / Nei libri antichi è scritta la saggezza / […] Tutto questo io non posso”, oppure quando scrive “solo l’odio per l’Imbianchino (cioè per Hitler) mi spinge al tavolo di lavoro”». È un’osservazione, questa, che sembra fatta apposta per ribadire alcuni luoghi comuni di cui l’ideologia dei decenni successivi si è servita per seppellire Fortini, insieme a molti altri, nella fossa comune dell’oblio: infatti secondo la vulgata epocale l’odio come movente della scrittura appartiene al tempo nefasto del “risentimento”, all’era dei totalitarismi, del “giacobinismo” intollerante che da Robespierre ai giorni nostri ha ostacolato il pieno dispiegarsi della democrazia liberale e liberista (e si sa che la richiesta di uguaglianza, di pari passo, è stata rubricata sotto l’insegna della “invidia sociale”: quali mai “oppressori” e “oppressi”: si tratta solo di vincitori e vinti, di capaci e incapaci, meritevoli e no…).

«Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente / gli uomini e le donne che con te si accompagnano / e credono di non sapere»: così i versi famosi di Traducendo Brecht, in Una volta per sempre. Su una citazione da Brecht si chiude anche l’ampio saggio-conferenza, sempre del 1987, sulla poesia e la funzione estetica intitolato (vedi caso) Opus servile, che molto ha a che fare con il tema qui accennato. Si noti, però, che nell’intervento dell’87 l’«elemento agonistico» rivendicato come impulso alla scrittura riguarda non la poesia, bensì il momento critico-saggistico (vi si potrebbe includere il registro dell’epigramma), mentre della «ricettività nei confronti del testo», con la relativa caduta di «passione», vien detto che è «qualcosa che conosco bene» e nient’altro. Il prosieguo dell’intervento non approfondisce quel versante; e immaginare un Fortini “ozioso”, senza passione, rimane arduo o, a dirla tutta, impossibile.

È indubbio che la sua “ermeneutica”, come il suo modo di leggere, furono inquieti e contrastivi, agonistici e polemici; né concilianti né pacifici, come fu lui stesso nella vita di ogni giorno. Nella Premessa a un’altra e ampia intervista dedicata a Leggere e scrivere, un anno prima di morire, annotava: «Ho sempre letto senza porgere l’orecchio alla pagina, come voleva Contini; o, per meglio dire e per manco di saggezza e di agio, ho sempre letto come Baudelaire, in una sua giovanile poesia a Sainte-Beuve, diceva di aver fatto nei pomeriggi di scuola. Ossia spiando “l’écho lointain d’un livre, ou le cri d’une émeute”. Di un libro o di una sommossa». Mancanza di agio e di saggezza («Avessi studiato da giovane / quand’ero pazzo di me. / Non avessi sciupato il tempo / e non so nemmeno perché», inizia così Et à bonnes moeurs dédié, 1957): l’accenno è in chiave con le affermazioni già viste, e “spiare” è un verbo che dice molto, come il sostantivo “sommossa” lì affiancato al “libro”. Eppure in quel suo tardo testo Fortini parla anche di molto altro, delle letture fatte in giovinezza e di altre, non meno significative, che ci aiutano a capir meglio, per l’accento che vi riecheggia, cosa si agiti nel ben conosciuto qualcosa, e in che sfera si collochi. Ma occorre, per questo, uno sforzo, che si preferisce tuttora non fare quando si tratta di Fortini. Non bastano, infatti, gli stereotipi, ivi compreso quello dell’odio; ma chi lo ha conosciuto, e oggi lo ricorda vivente come fosse ieri, sa che quel «qualcosa» egli sapeva trasmetterlo come nessun altro (e senza contraddizione con il suo agonismo o il suo Brecht):

Rammento certi momenti capitali di lettura. La sera d’estate turchina, con i lumi color pesca e la luce del crepuscolo, il vento discreto dal mare vicino e l’odore di sabbia e vacanza sull’asfalto della passeggiata di Viareggio. Avviato verso la cena della pensioncina familiare, aprivo col taglio della mano, ragazzo, senza curarmi di rovinare le pagine, un’edizione Larousse delle Fleurs e camminavo leggendo e qualcosa di tremendo e di esaltante mi percorreva fino alla radice dei capelli. O quando, in una stanza della Zurigo vecchia, 1944, con la coscienza continua che tutt’intorno a poche decine di chilometri erano le divisioni hitleriane, un’anziana viennese mi aiutava a leggere nel testo della edizione Krone le prime pagine della Deutsche Ideologie. O nei seminari senesi, in certe serate di gran silenzio, la campagna nera oltre le vetrate della facoltà, tra gli studenti, ragionando insieme sui nessi sottili di un’ottava o di un inno, l’improvviso luccichío di fosforo sulla pagina, che annulla secoli e fa sorridere la cerchia degli attenti.

Nota bibliografica

Opere di Franco Fortini citate: Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994; Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Dieci inverni (1947-1957). Contributo a un discorso socialista, Bari, De Donato, 19742; Poesia e errore, Milano, Mondadori, 1969; Una volta per sempre, Milano, Mondadori, 1963; Intervento alla tavola rotonda del Convegno Internazionale «Sull’interpretazione: ermeneutica e testo letterario», Siena, 22-23 maggio 1987, in «L’Ombra d’Argo», IV, 11-12, novembre-dicembre 1987; Franco Fortini-Paolo Jachia, Leggere e scrivere, Firenze, Marco Nardi, 1993; Opus servile, in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini e uno scritto di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori, 2003; L’ospite ingrato primo e secondo, in Saggi ed epigrammi cit.

Altre opere citate: Franca Magnani, Una famiglia italiana, Milano, Feltrinelli, 1990; Piergiorgio Bellocchio, «Disperatamente italiano», in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. XXXI; Cesare Garboli, Intervento al Premio Pozzale-Luigi Russo, 4 dicembre 1994 (trascrizione a cura dell’Assessorato Cultura del Comune di Empoli); Un poeta contro, «la Repubblica», 29 novembre 1994; Rossana Rossanda, «Uno sperato tutto di ragione», in F. Fortini, Saggi ed epigrammi cit.; Giulio Bollati, Intermittenze del ricordo. Immagini di cultura italiana, a cura di Rosa Tamborrino, Torino, Edizioni Fondazione Torino Musei, 2006.