di Luca Baiada
[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 4 de Il Ponte – aprile 2014]
La casa nasconde ma non ruba, si dice. Dev’essere così anche per gli archivi. Il 24 marzo 1944, a Roma, alle Fosse Ardeatine furono massacrate almeno 335 persone[1]. Secondo una diceria, dopo l’attacco partigiano, quello del giorno precedente in via Rasella, e prima della strage, un comunicato aveva invitato i partigiani a consegnarsi ai tedeschi, per evitare il massacro. Questa leggenda è stata demistificata dai migliori studi e dichiarata falsa dalle sentenze[2].
È difficile stabilirne l’esatta origine, ma più fonti indicano una riunione dei fascisti romani, le loro iniziative e il federale Pizzirani. Vale la pena vedere il cinegiornale d’epoca che mostra questo gerarca al Teatro Adriano, insieme a un generale tedesco. Dalle carte del Partito fascista repubblicano a Roma è impossibile saperne di più: furono distrutte o perdute[3]. Però in un archivio c’è un documento, di cui era nota l’esistenza, ma per tracce confuse. Si tratta di questo:
PARTIGIANI VIGLIACCHI E ASSASSINI! ROMANI! In seguito al vile attentato costato la vita a 32 camerati germanici nel pomeriggio del 24 marzo scorso, la giusta e doverosa rappresaglia del Comando di Piazza dell’Esercito Tedesco ha visto la fucilazione di 320 comunisti badogliani detenuti nelle carceri perché condannati a morte per atti di terrorismo e sabotaggio. Ma i banditi comunisti dei gap avrebbero potuto evitare questa rappresaglia, pur prevista dalle leggi di guerra, se si fossero presentati alle autorità germaniche che avevano proclamato, via radio e con manifesti su tutti i muri di Roma, che la fucilazione degli ostaggi non sarebbe avvenuta se i colpevoli si fossero presentati per la giusta punizione. Questa è l’ennesima riprova della vigliaccheria di chi trama contro la Patria Italia al soldo dello straniero e del bolscevismo. Romani, sappiate giudicare! I FASCISTI REPUBBLICANI DELL’URBE[4].
Occupa circa metà di un foglio formato A4, quindi è verosimilmente un volantino, ma forse poteva anche essere affisso. È senza data.
Diciamo subito che il riferimento al 24 marzo è sbagliato, perché l’attacco in via Rasella è il 23. Oppure, la virgola è per errore dopo «scorso», e doveva stare dopo «germanici»; ma questo è meno probabile. Infatti, le parole «nel pomeriggio del» sono identiche a quelle («nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali…») con cui si descrive via Rasella nel comunicato dell’agenzia Stefani pubblicato dopo le Ardeatine da vari giornali. Il comunicato Stefani inizia proprio con le parole «nel pomeriggio del», su cui ribatte la notizia del massacro, per chiudere con «quest’ordine è già stato eseguito», e stringere via Rasella e le Fosse Ardeatine in un’unica narrazione. Sempre nel comunicato Stefani, si legge «vile imboscata» (un’espressione ripetuta nel comunicato del comando tedesco Per la città di Roma, sul «Messaggero» del 26 marzo), cui corrisponde nel volantino il «vile attentato». Tutto questo fa pensare che la virgola stia proprio dove si voleva metterla.
Ora, certamente il 23 marzo, anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento nel 1919, è per i fascisti particolarmente duro da ammettere come data di una clamorosa azione partigiana. Lo conferma il direttore del «Messaggero», il 26 marzo, che mente così: «Il consenso popolare dimostrato alle nuove istituzioni il 23 marzo, per la celebrazione diciannovista, ha superato le attese più ottimistiche». Eppure, i fascisti non ricevono vantaggi da una data falsa su via Rasella, dopo che i giornali hanno scritto quella giusta. Del resto, gli ordini alla stampa impartiti dalle autorità, che il 24 marzo dispongono «per quanto riguarda l’incidente di ieri in via Quattro Fontane [l’attacco in via Rasella] attendere un comunicato Stefani», invece il 25 marzo fissano minuziosamente l’evidenza della notizia, con i dettagli grafici. Perciò, probabilmente la data di via Rasella è semplicemente sbagliata. Un’incuria che va segnalata, potrebbe avere importanza.
Nel titolo c’è la parola «partigiani», ingombrante nel linguaggio dei fascisti, e assente nel comunicato Stefani. In quel contesto sprezzante, si vuole che gli aggettivi «vigliacchi e assassini» si riversino sul sostantivo. C’è una somiglianza con un articolo sul «Messaggero» del 28 marzo, in cui le parole sono stravolte: «Questi valorosi comunisti, o questi prodi badogliani […] hanno fino a ieri riscosso l’incauto consenso di certi “benpensanti”»[5]. Questo permette alcune ipotesi, non per una datazione esatta, ma almeno per un contesto temporale: già segnato, il solco della denigrazione dei partigiani si approfondisce nella settimana che comincia con lunedì 27 marzo 1944, quando la notizia del massacro si diffonde anche all’estero.
C’è un fatto più vasto. Pochi giorni dopo le Ardeatine, Palmiro Togliatti annuncia la svolta di Salerno con il discorso del 1° aprile alla radio, che anche fascisti e tedeschi possono ascoltare, e che è riportato su «l’Unità» clandestina del 6 aprile. Rivolgendosi agli italiani delle zone occupate, dice: «Ogni giorno, ogni ora voi vedete il suolo sacro della patria calpestato da un barbaro invasore straniero, corso da bande di predoni, di assassini, dediti al saccheggio, intriso del sangue dei patrioti e di cittadini innocenti, oppure rei soltanto di avere impugnato le armi in difesa della patria e della libertà». Le stragi in Italia sono già cominciate, e proseguiranno nei mesi successivi, da Vallucciole a Marzabotto, passando per Civitella, Sant’Anna di Stazzema e Fucecchio. Con «innocenti, oppure rei soltanto», solo una settimana dopo il primo comunicato Stefani, ma quando le Ardeatine hanno ha già notorietà, Togliatti scavalca la diatriba innocenza-colpa e considera insieme tutti gli uccisi, partigiani e no.
Rispetto al comunicato Stefani, che annuncia l’uccisione di «criminali», il volantino aggiunge, mentendo, che si trattava di condannati a morte. Si vuole sminuire l’accaduto: è il mito dei Todeswürdige, che nelle sue sfumature, tutte false (condannati a morte, o accusati di fatti per cui è prevista la pena di morte) ingombra i processi del dopoguerra. Ma in realtà la bugia sui meritevoli di morte è esposta anche dall’SS Herbert Kappler in una riunione di cui dirò fra poco, ed è arduo stabilirne l’origine.
Il volantino individua nei Gap gli autori di via Rasella, mentre i Gap non sono nominati nel comunicato Stefani. Questo permette una datazione più precisa: la rivendicazione dei Gap è su «l’Unità»del 30 marzo.
C’è anche un altro fatto. Dopo le Ardeatine il generale Kurt Mälzer, comandante militare di Roma, convoca i giornalisti, e Kappler si rivolge direttamente a loro. Esiste una traduzione inglese di un appunto di una persona presente all’incontro, che probabilmente si svolge l’8 aprile[6]. Dice che Kappler ha esposto ai presenti proprio il contenuto de «l’Unità».
Della riunione scrive anche un giornale alcune settimane dopo, quando Roma è stata liberata: Kappler ha detto che il Partito comunista dal 23 marzo diffonde articoli antitedeschi, e che si è arrivati «al punto di innalzare al rango di eroi i 320 fucilati di Roma e di paragonare a bestie feroci i tedeschi»[7]. L’SS evidentemente ha letto su «l’Unità» del 30 marzo sia la condanna dei massacri «che bollano per i secoli la belva hitleriana» e della «bestiale violenza», sia «morte alle belve tedesche!», sia ancora il riconoscimento nelle Ardeatine di un tratto «che non è meno splendente ed eroico» di quello della morte in battaglia. Forse ha letto anche «l’Unità» del 6 aprile: «Di fronte a questa bestiale ferocia, di fronte alla criminale follia di queste belve, noi uomini inorridiamo. Ma più forte dell’orrore è l’impeto della ribellione, è il bisogno di riconquistare a noi stessi il diritto di sentirci e di chiamarci uomini». Adesso Kappler vuole una campagna stampa filotedesca. E il direttore del «Messaggero», Spampanato, che è stato presente alla riunione, ubbidisce pubblicando Karakiri?, il 9 aprile: «Tutte le idee sono rispettabili […] noi ci rifiutiamo ancora di credere che idee e programmi, siano pure antifascisti, possano degenerare […] la legge stessa della guerra può rispondere con dura reazione a qualsiasi tentativo di incrinare un fronte interno […]. Bisogna differenziare categoricamente il proprio atteggiamento, qualunque esso sia, anche dalla tolleranza – che finisce per diventare complicità»[8].
La colpevolizzazione dei partigiani approfitta di un clima psicologico creato da due elementi. Uno è la strage: ha già notorietà internazionale, ma a Roma solo alcune famiglie hanno ricevuto i brevi biglietti che annunciano, in tedesco, che il loro congiunto è morto. Innumerevoli famiglie con parenti arrestati, o in clandestinità, o scomparsi, sono in angoscia. L’altro è che il 9 aprile 1944 è Pasqua, un aspetto spesso trascurato. Nel 1944 il cattolicesimo è molto più sentito che oggi. La settimana che termina con quel 9 aprile possiede per la sensibilità religiosa, acuita dalle difficoltà, un tratto di contrizione e di lutto, portato a sciogliersi nella gioia domenicale. Nella riunione convocata dai tedeschi, alle richieste di Kappler qualcuno fa presente che non è il momento di scrivere del massacro, dato il tempo pasquale. Ma prevale la manipolazione: si deve scrivere del massacro, proprio perché è il tempo pasquale.
Abilmente sfruttata, la religione diventa appoggio prima della colpevolizzazione della resistenza, poi del falso ecumenismo suggerito da Karakiri?, che culmina nell’invito alla collaborazione. Sullo sfondo del massacro e della Pasqua si costruisce un bivio: da un lato concordia e collaborazione; dall’altro colpa, disperazione, suicidio. È lasciata una falsa libertà di scelta, che ricalca la trappola del secondo comunicato Stefani, apparso il 26 marzo, secondo cui il destino di Roma «è esclusivamente nelle mani della stessa popolazione romana». Già «l’Unità» del 30 marzo ha fiutato l’inganno: «Solo la cacciata dei tedeschi può evitare che la capitale divenga campo di battaglia degli eserciti alleati e tedesco. Il destino di Roma è davvero nelle mani della popolazione romana». Ma chi smaschera bene il trucco del nesso automatico via Rasella-Ardeatine è «L’Italia libera», organo del Partito d’azione, il 19 aprile: «I tedeschi avevano già da tempo preordinato quel massacro, con cinico freddo proposito, allo scopo di assicurarsi la tranquillità nelle retrovie». Così «L’Italia libera» sintetizza il momento: «Non c’è nulla di più inumano della debolezza». È scandaloso come tanta buona lucidità sia stata poi smarrita, per essere solo di recente faticosamente riproposta dai migliori studi. Le conquiste storiografiche e giudiziarie del XXI secolo erano già sintetizzate in un giornale clandestino del 1944, che solo ad averlo in casa si rischiava la vita.
Tornando al volantino, anche l’espressione «leggi di guerra» risponde a un orientamento che prende corpo nella settimana iniziata il 27 marzo. Il primo comunicato Stefani dice solo che c’è stato un ordine del comando tedesco. Cioè, è un caso singolo. Dopo, la stampa fascista millanta leggi e regole. E sul «Messaggero» del 18 aprile si vorrà trarre dalle Ardeatine una legittimazione del rastrellamento del Quadraro, appena avvenuto: «La cittadinanza romana, che non potrà avere dimenticata la dura risposta del comando germanico al delitto di via Rasella, comprenderà l’importanza del nuovo monito».
Al momento del volantino, allora, siamo nella fase grigia in cui la violenza comincia a creare col fatto esemplare la convinzione di una regola. In seguito, l’ombra di un’inesistente legalità peserà persino sui processi, costringendo la giurisprudenza a smentire il diritto di rappresaglia. La smentita avrebbe dovuto essere ovvia, e invece camminerà in salita. Avrà bisogno di mezzo secolo di fatica per liberarsi dal vischio dei distinguo, e conquistare la consapevolezza che la rappresaglia è un abito immaginario dell’omicidio[9]. Questa certezza arriverà solo quando gli assassini saranno morti o al sicuro, e la Germania sarà riunificata e potente.
Proprio approfittando di quella fase grigia, il volantino insiste su parole che costruiscono uno ius: la giusta rappresaglia, la condanna a morte, le leggi di guerra, i colpevoli, la giusta punizione. In chiusura, l’invito a giudicare, con cui si spingono i familiari, gli amici, i concittadini degli uccisi a elaborare dal sangue la norma.
È proprio sul doppio registro della falsa regola e del vero ricatto, che il volantino gioca la carta dell’invito a presentarsi. Questa mitologia inventa l’invito «via radio e con manifesti su tutti i muri di Roma». Le lunghe, vane ricerche dei denigratori della resistenza, che non hanno mai provato l’esistenza di quei manifesti né di quella programmazione radio, sono già un conforto. Ma in questo volantino, la stessa data sbagliata dell’attacco partigiano conferma che c’è una menzogna: chi davvero avesse letto o sentito per radio un comunicato prima delle Ardeatine, avrebbe saputo che via Rasella era il 23 marzo, e il volantino si sarebbe messo in cattiva luce. Se chi diffonde il volantino non mette ogni cura nel controllare l’esattezza della data dell’attacco, è perché quel comunicato non è mai esistito, e non c’è da preoccuparsi di un contrasto fra il suo contenuto e il volantino. Meno preoccupante per i fascisti, invece, è il contrasto di data fra il volantino e il comunicato Stefani, perché in fondo si tratta di due comunicati successivi al massacro: l’attacco partigiano e l’eccidio sono pubblicizzati insieme. Il volantino fascista ribadisce i fatti, e li chiosa. La sua novità, è appunto nella bugia dell’invito a presentarsi.
Con questo mito, si intreccia una questione di memoria autofabbricata. Dell’invito a presentarsi dopo via Rasella, alcuni ricordano il manifesto, dicono di averne sillabato il contenuto insieme ai passanti, lo vedono come se fosse adesso. Certo, lo vedono, ma appunto adesso, perché hanno elaborato così il ricordo. Un’illusione con parvenza di solidità, anche perché porge un simulacro di ordine, di spiegazione.
Forse proprio questo volantino ha contribuito alla formazione del ricordo infedele. È reale, è un documento cartaceo. È possibile che sia stato affisso. È stato toccato, rigirato, mostrato. Forse è stato riletto più tardi, nei tempi del lutto, della trepidazione, dei dubbi. Fra le terribili privazioni di Roma nell’aprile e nel maggio 1944, quando si poteva persino sentire il rombo dei cannoni, ormai vicinissimi alla città.
Il contenuto, invece, è falso: l’invito a presentarsi per evitare il massacro non c’è stato. Ma la realtà del volantino può facilmente trasferirsi dalla sua oggettività fisica al discorso. Infatti, il documento narra a sua volta una narrazione, grafica o sonora. Quando il testo vero (il volantino) è stato palpato e intascato, è facile che trasmetta il suo ricordo – con la sua attendibilità concreta, tattile – all’immagine mentale del testo che racconta. È anche facile che il ricordo di un vero documento affisso (il volantino, se fu anche esposto come manifesto), che parla anche di un documento mai esistito (l’invito a presentarsi), agevoli il ricordo falso di quest’ultimo. E poi, un testo che rimanda a un altro testo può essere facilmente considerato una testimonianza credibile, specialmente se non si ha modo o tempo di fare un controllo, sotto le bombe, nell’angoscia, nella fame.
Ma nessun trucco farebbe effetto così bene, se non si appoggiasse a uno stato d’animo profondo. È grazie a quello, che il volantino può permettersi di dire di tutto. L’uccisione di 320 persone (questo è allora il numero ufficiale) è una «rappresaglia» prevista dalle leggi, e gli uccisi sono detenuti condannati a morte, ma allo stesso tempo ostaggi. Tante persone già condannate a morte hanno atteso da chissà quanto tempo l’esecuzione, però essendo ostaggi si sarebbe potuto liberarle. Insomma: dovevano morire comunque, però sono morte per colpa dei partigiani. È un guazzabuglio illogico, ma fa presa. Nelle sue corde, favorito dal tempo della Pasqua, c’è un oscuro senso del sacrificio, in cui echeggia qualcos’altro. Questo senso della morte sacrificale, nel linguaggio fascista avvicina i partigiani agli ebrei, perché l’accusa di essere i colpevoli delle Ardeatine somiglia all’accusa di essere gli officianti di un rito, che devono portare la colpa del sangue versato. Il Cristo deve morire, eppure occorre un colpevole della sua morte. I 335 sono «persone sacrificate», come scrive l’«Osservatore romano» dopo la strage, e i partigiani sono i «colpevoli sfuggiti all’arresto». Ecco che torna comodo, inventare che consegnandosi avrebbero evitato il massacro, e magari farlo credere anche con un volantino.
Da un vecchio documento si capiscono parecchie cose. È proprio vero, gli archivi nascondono ma non rubano.
[1] Questo articolo riprende e approfondisce il tema che ho trattato su «l’Unità» del 23 marzo 2014, p. 21.
[2] Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 1999, pp. 206-217 e 414.
[3] Amedeo Osti Guerrazzi, La repubblica necessaria, Milano, Franco Angeli, 2004.
[4] Irsifar, Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza, Archivio «Ricerche e documenti», a. XIX, «Documenti della resistenza a Roma e nel Lazio», busta 49, fascicolo 25. Si tratta di una fotocopia, senza annotazioni, di un testo a stampa.
[5] Parole chiare per i romani, non firmato, «Il Messaggero», 28 marzo 1944.
[6] Appunto del professor Consiglio, Irsifar, Archivio «Ricerche e documenti», a. XIX, «Documenti della resistenza a Roma e nel Lazio», busta 49, fascicolo 19.
[7] Il 24 marzo. Confessioni di due criminali di guerra: Kappler e Maelzer, «l’Unità», 24 giugno 1944.
[8] Karakiri?, firmato B.S., «Il Messaggero», 9 aprile 1944.
[9] Trib. mil. La Spezia, 03.11.2006, dep. 12.2.2007 n. 50, Nordhorn; la condanna di Nordhorn è confermata da Corte mil. appello Roma, 04.12.2007, dep. 10.1.2008 n. 71.