Il Ponte sta entrando in una nuova fase della sua lunga vita. Con la costituzione di una Fondazione per la critica sociale (per iniziativa del sottoscritto, in quanto direttore della collana “La critica sociale” presso l’editore Rosenberg&Sellier, e del direttore e proprietario della rivista Marcello Rossi) Il Ponte non soltanto si pone finanziariamente al riparo per i prossimi anni, ma intende sviluppare le proprie iniziative sia mediante un potenziamento del sito on line sia attraverso la pubblicazione, peraltro già in corso, di volumi che rientrino nell’ambito della sua tradizione politico-culturale. A me il compito di spiegare brevemente il senso, diciamo così, filosofico della Fondazione, che si avvale di un Consiglio di amministrazione e di un Comitato di indirizzo oggi entrambi in carica e operativi.
Perché critica sociale? Il richiamo alla storica rivista che fu di Filippo Turati è voluto. Non certo perché il padre nobile del riformismo italiano sia un punto di riferimento privilegiato nella storia del Ponte; al contrario, come i nostri lettori più anziani sanno perfettamente, l’idea socialdemocratica e statalista è stata, nella storia della rivista, più un punto di partenza da mettere in discussione nella direzione di un socialismo libertario, basato sul decentramento dei poteri, che il centro di un programma politico. Avendo tuttavia ai nostri tempi la parola “riformismo” mutato di significato nel lessico politico corrente, non è affatto scontato ricordare che appunto la critica sociale, e la prospettiva di un superamento graduale del capitalismo, erano il cuore del progetto riformista originario.
Sul piano più strettamente teorico, la critica sociale si presenta come un orizzonte mobile che include l’idea di utopia. Per utopia s’intendeva nel Novecento la pacificazione di tutti i conflitti, il salto dal “regno della necessità ” al “regno della libertà ”, che avrebbe affrancato l’umanità dal bisogno. Nel ventunesimo secolo è piuttosto la stessa esistenza di conflitti sociali dispiegati a costituire, in sé, un orizzonte utopico-pragmatico; ed è la stessa possibilità di movimenti che, all’interno della più ampia comunicazione sociale, facciano valere un’istanza critica generale dell’ordine esistente, a essere tematizzata nell’espressione “critica sociale”. Nel momento in cui non un solo partito politico presente in parlamento, in Italia, si richiama espressamente al socialismo, è bene sottolineare che la critica sociale intende tenere aperta la tensione verso una politica, interamente da ripensare e da ricostruire, di superamento del modo capitalistico di produzione e di consumo.
In quest’ottica non sono, non possono essere certo le culture, o le identità culturali in grande auge, il sale della critica. Pur riconoscendo che in taluni casi le culture particolari possano essere dei punti di resistenza all’egemonia della modernità occidentale, bisogna però sottolineare come siano proprio le differenze culturali, sorprendentemente plasmabili, a costituire modelli di simbiosi tra modernizzazione e schiavitù. Si pensi, per fare un esempio, a quanto sta accadendo adesso in Cina e a quanto è accaduto, già nel secondo dopoguerra, in Giappone. In questi paesi le tradizioni culturali hanno imboccato la strada della modernizzazione inglobando le istanze di un capitalismo che non riesce più distinguere tra se stesso e le forme solo apparentemente trascorse di oppressione. In un rovesciamento di quanto a suo tempo diagnosticato e pronosticato da Polanyi, sono proprio le culture, oggi per nulla distrutte ma ibridate, a incorporare in se stesse l’idea del mercato neoliberista, che appare così ricevere un consenso senza confini.
Tuttavia qua e là , perfino a partire dal paradosso di una opposizione politico-religiosa capace di rendere caotico l’ordine esistente, si profilano elementi di una critica – dall’Egitto del 2011 ai più recenti movimenti per la democrazia a Hong-Kong – aperta alle forme di un individualismo sociale che si distacchino sia dall’olismo culturale sia dall’atomismo liberale per lanciarsi verso un’autentica società mondiale. Sono spunti che balenano, che rovesciano la frammentazione di cui è fatta la cosiddetta globalizzazione in una prospettiva di segno differente. L’economia finanziarizzata può restare egemone come cultura neoliberista, ma intanto nelle culture si incrina la simbiosi con essa.
È su fratture di questo tipo che occorre sintonizzare le speranze di un nuovo socialismo che, rimettendo al centro il conflitto sociale, non scavi un solco tra una cultura e un’altra – o tra l’immigrato e il lavoratore occidentale precario – per ricomporre ciò che la pressione congiunta della pseudo-globalizzazione, da una parte, e dei particolarismi etnici dall’altra, ha separato. È intorno a questi nodi, teorici e politici, che la Fondazione per la critica sociale intende lavorare nel prossimo futuro.