di Rino Genovese
Il nodo è inestricabile. Islamofobia e giudeofobia si tengono a vicenda. Quelli che a Parigi chiamano a manifestare a favore dei palestinesi di Gaza (tra cui il vecchio raggruppamento trotzkista Ligue communiste divenuta oggi il Nouveau parti anticapitaliste) fanno fatica a non essere travolti dall’ondata giovanile “algerina”, che viene dalle banlieues e ce l’ha con gli israeliani non in quanto tali ma in quanto ebrei. È vero, sull’ambiguità di uno Stato come terra promessa, nato dalla risposta alla catastrofe europea novecentesca, Israele ha costruito gran parte delle sue fortune: e tuttavia la distinzione andrebbe sempre tenuta presente a ricordo dei sommersi e dei salvati, come li chiamava Primo Levi, e per non strappare quella pur imperfetta democrazia che l’Europa ha conquistato faticosamente al prezzo di tanto sangue.
Tutto è cominciato, peraltro, non con la protervia di Israele (questa c’era fin dalle sue origini) ma con il dislocarsi della stella palestinese e araba da una politica laica, anticolonialista e nazional-patriottica con venature socialiste, verso un integralismo religioso su basi nazionalistiche, che a Gaza Hamas esprime in modo compiuto. Così nella metropoli postcoloniale, particolarmente in Francia, una gioventù nata dall’immigrazione si è andata sempre più collocando su posizioni islamiste quando non jihadiste in senso stretto. Ne sono venuti gli attacchi alle sinagoghe, una giudeofobia diffusa nelle banlieues che è il corrispettivo della islamofobia che serpeggia nei quartieri bene. Lo si deve affermare con forza: questa situazione è il risultato di un mondo – di un’Europa in primo luogo – che non ha mai veramente risolto la questione coloniale, cioè le sue conseguenze storiche nella cosiddetta madrepatria, e nemmeno – bisogna dirlo – nei paesi terzi il problema di un’autentica indipendenza, in primis economica, che riuscisse a far crescere una democrazia autoctona. Il fallimento pressoché completo delle recenti rivolte nel mondo arabo, con la lunga serie di sanguinose repressioni (si pensi in particolare all’Egitto), sta lì a dimostrarlo: si tratta di realtà sociali e politiche in cui la religione è diventata la maggiore forza di opposizione a regimi militari e dittatoriali per lo più corrotti.
In mancanza di un’iniziativa in grado di spezzare la spirale di islamofobia e giudeofobia, con i militanti filopalestinesi che a Parigi e altrove si scontrano con i militanti ebrei, il presidente Hollande e il suo primo ministro Manuel Valls hanno pensato bene di vietare le manifestazioni. Questa non è soltanto una discutibilissima decisione illiberale (nella incapacità di garantire il carattere pacifico delle manifestazioni, si tenta semplicemente di impedirle), è il sintomo, ormai da tempo conclamato, del fatto che i socialisti europei, dediti unicamente alla gestione, hanno rinunciato alla politica, alla possibilità di dare risposte e di fare proposte che si sforzino di districare l’inestricabile. La qual cosa, oggi come ieri, potrebbe essere detta politica socialista come capacità , o perfino soltanto speranza, di mutare la natura dei conflitti a sfondo nazionalista, etnico, religioso o comunitario, in conflitti sociali in cui a collocarsi nella contesa non sia il partecipante a questa o quella forma di vita (ebraica o musulmana o cristiana) ma l’oppresso contro l’oppressore.