di Rino Genovese
Singolare avventura quella di Matteo Renzi. Assurto in poco tempo al governo del paese grazie al meccanismo sostanzialmente plebiscitario delle “primarie”, è al momento così a corto di legittimazione da dover far ricorso, a breve, ancora allo stesso meccanismo per potere ripresentare la sua candidatura alla presidenza del Consiglio. Convocare un congresso anticipato del partito? Non sia mai; il gioco ha da essere quello delle “primarie” eternamente ripetute, cioè del trampolino che gli ha permesso di saltare prima sulla poltrona di sindaco di Firenze, poi su quella della segreteria del Pd e da qui, con piccola manovra di palazzo, di stabilirsi per quasi tre anni a palazzo Chigi. Chi pensava che, con l’elaborazione di una semplice legge elettorale (magari con il ritorno a quel mattarellum di cui oggi si riparla), il rottamatore già nel 2014 avrebbe cercato la legittimazione mediante le urne s’illudeva. Troppo facile! Bisognava mettere mano a un cervellotico tentativo di riforma costituzionale, passare nel 2016 attraverso un referendum trasformato in un plebiscito (cioè, più in grande, secondo lo spirito delle “primarie”), perderlo di brutto, ritirarsi appena un poco per salvare la faccia – e poi ancora, forsennatamente, cercare di ritornare vincitore… Nel frattempo la poltrona di sindaco è andata a una controfigura, quella di presidente del Consiglio a uno stretto (ma quanto stretto?) alleato, tenuto sotto controllo da un uomo di fiducia e da una, stando alla vox populi, presunta amante. È la strategia dei “compagnucci della parrocchietta”, come con opportuna citazione da Alberto Sordi li chiama Pierfranco Pellizzetti in Fenomenologia di Matteo Renzi (Manifestolibri 2016).
L’autore, nel suo libro, insiste sul carattere di piccola consorteria locale del fenomeno renziano. Non c’è dubbio che quest’aspetto vi sia. Ma se, con uno sguardo all’indietro, vogliamo cogliere tutto il senso della non ancora conclusa parabola del rottamatore fiorentino, dobbiamo rifarci alla nascita stessa del Partito democratico, un ircocervo senza spina dorsale, un composto di laboratorio alla Frankenstein, fatto con pezzi mal montati insieme di ex Dc ed ex Pci, e perciò in fin dei conti del tutto scalabile (come si è visto) in virtù del mito fondatore delle “primarie”. Il tipo del cacciaballe berlusconizzato, dotato di parlantina televisiva e pochi scrupoli, doveva per forza di cose, secondo logica, impadronirsi di questo partito.
Il problema ora è come liberarsene e in quante mosse. La vittoria del “no” al referendum è stata una tappa importante, ma resta il fatto che Renzi è ancora sospinto da una doppia debolezza: interna, se si pensa alla scarsa consistenza della minoranza Pd, ed esterna, se si pensa alla improponibilità di un’alternativa di governo grillina. Per questo è bene che, contrariamente ai suoi desiderata, le elezioni si celebrino il più tardi possibile. L’attuale governo – tra una cosa e l’altra, come i referendum sul lavoro da tenere nella prossima primavera – potrebbe andare avanti fino alla scadenza naturale della legislatura nel 2018. Nel frattempo, quale legge elettorale? Una di tipo proporzionale (tra parentesi la più vicina allo spirito di una repubblica come quella disegnata dalla Costituzione), anche con uno sbarramento alla tedesca, sarebbe una soluzione che imbriglierebbe Renzi, costringendolo a un’intesa con altre forze politiche in parlamento (e sarebbe inoltre un modo per congelare i voti grillini). Il mattarellum di cui oggi si riparla – di per sé non un cattivo sistema elettorale, che mescola i collegi uninominali maggioritari con una quota proporzionale – ha il difetto di spingere i “piccoli” alle alleanze con i “grandi”. In questo caso il Pd renziano si presenterebbe con i suoi sodali centristi (gli Alfano se non anche i Verdini), mentre un partito di sinistra del tre o quattro per cento potrebbe o scegliere di correre da solo nella quota proporzionale, con il rischio di non farcela, o proporre a Renzi un “patto di desistenza” per i collegi uninominali, tentando così di averlo in pugno in parlamento se il suo voto o la sua astensione diventassero determinanti ai fini di una maggioranza di governo. In ogni caso, bisogna mettere nel conto che una completa scomparsa dell’astro renziano dalla politica italiana non è vicina.