di Gaetano Salvemini [Pubblicato su Il Ponte, n. 7, luglio 1949]
Non dispiaccia a Zuccarini e ai lettori di «Critica Politica» il mio franco parlare. Ma da quanto ho appreso studiando il pensiero di Cattaneo e di Mazzini, credo di poter con sicura coscienza affermare che Arcangelo Ghisleri commise a suo tempo un errore “storico”, quando, nell’articolo ripubblicato da «Critica Politica», gennaio 1949, cercò di conciliare il federalismo di Cattaneo col centralismo di Mazzini, e affermò che i due erano d’accordo sul problema della “regione”. E per quanto posso apprezzare le condizioni dell’Italia, non fra il 1830 e il 1870, fra il 1945 e il 1949, i repubblicani d’oggi commisero un errore “pratico”, quando si associarono ai clericali nel votare una “regione”, che non ha nulla da vedere né con la “regione” di Cattaneo né con quella di Mazzini.
Cattaneo e Mazzini
Cattaneo, ai suoi tempi, si oppose alla idea che una Costituente Nazionale potesse creare in Italia, a un tratto, con un colpo di bacchetta magica, un nuovo sistema amministrativo, dopo avere abolito tutte le istituzioni, che le singole sezioni della penisola avevano ereditato da una storia piú che due volte millenaria. Cattaneo avrebbe voluto che in ciascuna di quelle sezioni tradizionali, dopo la espulsione delle vecchie dinastie, un Parlamento locale continuasse a provvedere ai bisogni locali, modificando le istituzioni locali via via che gli interessati ne sentissero la necessità; al disopra dei Parlamenti locali doveva essere creato un Parlamento federale – organo nuovo sorto con la nuova unità politica italiana – il quale curasse i soli interessi comuni a tutta l’Italia unificata. Al di sotto dei Parlamenti locali, dovevano rimanere le municipalità, anche esse elettive e non asservite alle autorità regionali, come queste non dovevano essere asservite alla nuova autorità federale nazionale. Modello la Svizzera e gli Stati Uniti.
Le idee di Cattaneo non ebbero fortuna. Prevalse l’accentramento burocratico a tipo franco-piemontese. Inutile ricercare qui i perché (lo accennai in illo tempore nella prefazione alle Piú belle pagine di Carlo Cattaneo, pubblicate dall’editore Treves nel 1921).
Mazzini seguiva un metodo di pensiero che si può definire quello di Cattaneo rovesciato. Ammise qualche rara volta che fra il Governo centrale dell’Italia unificata e i Comuni esistessero articolazioni intermedie, a cui dava il nome di “regioni”. Ma non definí mai il contenuto di questa parola. Faceva sempre cosí: stabiliva principi astratti senza scendere alle formulazioni giuridiche, cioè alle applicazioni pratiche. Certo è, però, che le regioni – quali che fossero – dovevano essere costruite non sui luoghi dagli interessati, lentamente, secondo i loro bisogni, e le loro esperienze, magari attraverso tentativi errati. Dovevano essere costruite da una Costituente Nazionale, eletta a suffragio universale, che dopo avere fatta tabula rasa di tutte le vecchie istituzioni, doveva creare un nuovo cielo e una nuova terra. L’idea non era assurda, dato che Mazzini era sicuro che la sua rivoluzione era voluta da Dio, e fatta quella rivoluzione, il “popolo”, ispirato da Dio, avrebbe scelto a suoi delegati gli uomini migliori, e questi – infallibili perché ispirati da Dio – avrebbero decretato la migliore costituzione possibile per il nuovo cielo e la nuova terra.
Non è agevole comprendere come tanti repubblicani, storici e non storici, dopo avere messo in soffitta il Dio di Mazzini, continuino a ripetere formule che, fuori del sistema mistico mazziniano, non hanno piú senso.
Vedemmo nel 1946-47 che razza di Costituente non il Dio di Mazzini, ma quello di Pio XII, e il non-Dio di Stalin, regalarono al popolo italiano.
Il metodo federalista
Se Cattaneo riaprisse gli occhi alla luce, troverebbe che le divisioni politiche dei suoi tempi sono sparite, e che l’Italia è sgovernata da una mastodontica burocrazia accentrata, la quale provvede anche alle scuole elementari nel comunello di Scaricalasino. E in cima a questa burocrazia c’è un unico Parlamento centrale, che pretende di dettare leggi a quella burocrazia, mentre in realtà è la burocrazia che gli dice quali leggi esso deve approvare, e molte volte non glielo dice nemmeno, e in ogni caso le applica a modo proprio.
Cattaneo, secondo il suo metodo di concepire il sorgere di nuove istituzioni e l’evolversi delle antiche, prenderebbe come punto di partenza il presente accentramento burocratico col suo unico Parlamento pseudo-sovrano alla sommità; e ricercherebbe come si possa passare da questo sistema rovinoso ed assurdo ad un sistema che si avvicini piú che sia possibile al sistema federale. Comincerebbe dal prendere in esame la legge comunale e provinciale, quale esisteva alla caduta della dittatura fascista e sopravvive tuttora. Vi troverebbe il “Prefetto”.
Se Lombroso preparasse una nuova edizione dell’Uomo delinquente, dovrebbe dedicare un intero capitolo a quella forma di delinquenza politica perniciosissima, che va sotto il nome di “Prefetto” italiano. Anche prima di Mussolini costui poteva di diritto fare nelle province tutto quello che voleva, e non c’erano limiti al suo malfare. Delle sue facoltà abusava specialmente nell’Italia meridionale, mentre ne usava parcamente nell’Italia settentrionale – motivo per cui le “razze superiori” settentrionali erano indifferenti a quanto avveniva fra gli Zulú dell’Italia meridionale. Con la dittatura fascista il malfare dei Prefetti si estese di fatto anche all’habitat delle “razze superiori”. E allora anche queste cominciarono a pensare che colla prepotenza dei Prefetti bisognava farla finita.
Occorre, dunque, togliere ai prefetti il diritto di approvare o annullare le deliberazioni dei consigli comunali e provinciali ed i loro bilanci, e quella di sospenderli dalle funzioni inviando commissari prefettizi, o di scioglierli addirittura mandando commissari regi. Cioè, affermiamo la autonomia delle amministrazioni comunali e provinciali di fronte ai prefetti, agenti del governo centrale nel soffocamento dei governi locali. I Consigli comunali e provinciali diventeranno altrettante repubbliche autonome, ciascuna entro i limiti delle proprie competenze, cosí come sono i consigli comunali e cantonali in Svizzera, i consigli comunali e consigli di contea in Inghilterra, i consigli comunali e consigli statali nell’America del Nord. I consigli comunali e provinciali autonomi avranno il diritto di riorganizzare le proprie amministrazioni interne per adattarle ai bisogni locali, senza essere costretti nel letto di Procuste di una legge comunale e provinciale, che oggi è unica per Torino e Siracusa, per Frassanelle nel Veneto e Sant’Eufemia di Aspromonte in Calabria. Beninteso che i regolamenti interni comunali non potrebbero mettersi in conflitto coi regolamenti provinciali, finché questi non siano stati modificati per volontà degli interessati; e i regolamenti interni provinciali non dovrebbero entrare in conflitto con le leggi nazionali. La magistratura ordinaria, o meglio una speciale sezione del Consiglio di Stato, e in ultima istanza, la Suprema Corte Costituzionale, dovrebbero giudicare sugli eventuali conflitti di competenza.
Le “regioni”
Le amministrazioni dei singoli comuni autonomi dovrebbero avere il diritto di staccarsi da una provincia per federarsi con un’altra. Un gruppo di comuni nella stessa provincia dovrebbe avere il diritto di formare una nuova provincia. Piú province dovrebbero avere il diritto di confederarsi formando permanenti amministrazioni regionali piú vaste, oppure consorziarsi per provvedere a particolari interessi comuni. Chi vuol rimanere com’è, resti com’è. Tutto questo senza nessun bisogno di domandare nessun permesso né al Parlamento centrale né alla burocrazia romana.
C’è fra la Liguria e la Toscana una regione naturale ben definita, la Garfagnana, i cui cittadini riescirono finalmente a ottenere che la loro regione formasse una amministrazione provinciale propria. Deve la Garfagnana rimanere come regione-provincia a sé, o deve federarsi con la Liguria, o con la Toscana, o come hanno pensato certi cervelli bislacchi, col Modenese, che gli Appennini – altissimi proprio a questo punto – dividono dalla Garfagnana? Questo è problema che deve essere deciso dagli abitanti della Garfagnana per mezzo dei loro delegati nei loro consigli comunali e nel loro consiglio provinciale, e non dai burocrati romani, o dal Parlamento centrale. Che cosa ne sa un siciliano della Garfagnana? Come può un piemontese decidere se la provincia di Bari e quella di Foggia debbano o no formare una regione? E deve un veneziano mettere becco nella questione se le province della Sardegna debbano o no federarsi in una regione sarda? Se un problema di questo genere non lo risolvono i sardi da sé, chi sarà mai capace di risolverlo?
Qualche tempo fa lessi su «Critica Politica» un lavoro di geografia fisica, assai ben fatto, sulla regione emiliana. Non c’è dubbio che l’Emilia forma una regione geografica perfettamente definita, fra il Po, gli Appennini e l’Adriatico. Ma quella regione fisica non formò mai nella storia una unica amministrazione politica o amministrativa. Che i fiumi di quella regione fisica vadano tutti all’Adriatico, non c’è dubbio. Ma gli uomini non sono gocce d’acqua. Chi mi sa dire perché un cittadino di Rimini, se ha da trattare un affare con l’amministrazione provinciale di Rimini, invece di buttarsi a mare con le acque di tutti i fiumi emiliani, debba essere costretto ad andare alla nuova capitale regionale. E quale! Bologna? Ravenna? Castelbolognese? Tutto dipenderà dal capriccio dei parlamentari o burocratici romani, secondo il caso.
E se le amministrazioni comunali, provinciali, o regionali facessero degli spropositi? – I contribuenti li pagherebbero, e li farebbero pagare ai partiti responsabili. I prefetti non dovrebbero avere nessun diritto di intervenire per accumulare le proprie cattive azioni sugli spropositi delle amministrazioni locali.
La regione clericale
La “regione” non sarebbe stata inserita nella Costituzione – secondo il metodo di Mazzini e non quello di Cattaneo – se non l’avessero voluta i clericali. Quando i clericali erano ostili sistematicamente all’unità politica italiana – fra il 1870 e il 1904 – o erano fuori del governo pur non essendogli piú sistematicamente ostili – dal 1904 in poi – combattevano l’accentramento burocratico, e domandavano la massima possibile estensione delle autonomie locali e la creazione di amministrazioni regionali.
Con una amministrazione decentrata al massimo grado, mentre la Chiesa cattolica aveva una amministrazione accentrata al massimo grado, il clero cattolico credeva di poter conquistare gli enti locali, gradatamente, l’uno dopo l’altro, senza incontrare l’ostacolo di un’amministrazione accentrata. Era naturale perciò che i clericali, nel 1946, si ricordassero di avere voluto in Italia le “regioni” per settanta e piú anni, e le mettessero nella Costituzione. Non è facile fare piazza pulita con le sopravvivenze del passato: gli uomini sono animali di abitudine, e ripetono oggi a pappagallo formule che in altri tempi rispondevano a realtà o desideri di realtà immediate. Ma mentre ripetevano la formula imparata ai tempi di Pio IX, i clericali del 1948-49 hanno conquistato il governo. Perciò dopo aver messo la formula nella Costituzione, si sono dimenticati di svilupparla. Chi sta bene non si muove, debbono pensare Scelba e De Gasperi e Pio XII. I partiti, finché non stanno al governo, sempre criticano il prepotere della burocrazia; ma non appena arrivano al governo, diventano ammiratori della burocrazia, perché ne vedono i vantaggi per chi maneggia i manubri centrali.
I comunisti, invece, votarono contro. Credevano di conquistare la maggioranza dei mandati nella futura Camera e nel futuro Senato. Perciò l’accentramento burocratico non doveva essere rallentato. Le autonomie locali, poco importava se comunali, o provinciali, o regionali avrebbero creato ostacoli sulla via dei comunisti, mentre la burocrazia accentrata sarebbe stata un perfetto strumento di pressione. Non ci sarebbe stato neanche bisogno di epurarla. L’ideale di ogni burocrate è in fondo il comunismo al suo servizio. Pur di conquistare la maggioranza degli elettori, i comunisti fecero con la Chiesa cattolica i buoni figliuoli: votarono l’articolo 7, mandarono i loro sindaci nelle automobili dei vescovi e dietro ai Cristi morti nelle processioni della settimana santa. Passata la festa, avrebbero gabbato lo santo, cioè andati al governo, avrebbero fatto a modo loro. Il santo lo gabbarono i clericali, e i comunisti si trovano oggi cornuti, battuti e cacciati di casa. Questo succede quando si vuol essere troppo furbi. Si trova sempre qualcuno che è piú furbo ancora.
Una parola vuota
Se Carlo Cattaneo e Alberto Mario non fossero vissuti invano, cioè se il loro pensiero fosse stato piú studiato e il loro nome meno ripetuto a vuoto, i repubblicani (storici e non storici) non avrebbero votato una “regione”, della quale i piú non avevano in testa nessuna definizione chiara. Prima di comprare un vaso vuoto con sopra la targhetta “regione”, avrebbero chiesto la definizione della parola, e solo dopo essersi messi d’accordo nel definire quel che votavano, avrebbero dovuto o no approvarla. Seguirono il metodo, o meglio il non metodo opposto. Misero il carro avanti ai buoi.
L’Italia, dunque, dovrebbe avere 19 “regioni”. Ma i rapporti di queste “regioni” col governo centrale e con le istituzioni inferiori preesistenti rimasero nelle nuvole. Soprattutto non furono assegnate loro risorse finanziarie indipendenti. Diciannove figliuole senza dote. Dovranno fare le nozze coi fichi secchi.
La “regione” fu una specie di mondo ideale, nel quale ognuno trasferí tutte le meraviglie che non trovava nella provincia, senza mai né definire quelle meraviglie né dimostrare che esse delizierebbero la regione, senza poter mai deliziare la provincia.
Quel che è ancora piú buffo è che continuano ad esistere, piú vigorosi che mai, i prefetti, con tutte le funzioni ad essi attribuite dal regime prefascista e dal regime fascista, cioè con tutte le loro capacità di malfare nella vita locale italiana.
E quello che è ancora piú buffo è che, mentre le regioni-castelli in aria erano costruite nel vuoto, tutte le leggi fasciste, dico tutte, erano lasciate intatte. Nessuno si curò mai di abolirne una sola – dico una sola! – meno il Gran Consiglio del Fascismo, che era stato abolito da Badoglio nel luglio 1943. Il presente regime politico italiano può essere definito come un «fascismo meno Mussolini piú la regione». Cosí, nell’anno 1949, è possibile che una rivista anarchica, «Volontà», sia processata, in base a una legge fascista, per avere pubblicato un opuscolo sul controllo delle nascite – e nessuno se ne meraviglia, forse perché il colpo è caduto su anarchici e non su comunisti, o socialisti, o liberali comme il faut.
Se la class di asen di Ferravilla avesse preso il posto della Costituente italiana nel 1946-47, non avrebbe potuto mettere insieme una piú alta piramide di asinità.
Intendiamoci: non sarebbe giusto dire che tutto sia stato fatto male. L’autonomia concessa alla Val d’Aosta (una regione bene individuata, che coincide perfettamente con una delle province tradizionali) è stata abbastanza bene ideata, per merito non dei costituenti, che non ci capirono nulla, ma degli elementi locali che sapevano quel che volevano. E se ci fosse buon senso fra i politicanti italiani, le autonomie riconosciute alla regione-provincia valdostana dovrebbero servire come modello per tutte le province d’Italia, salvo in esse – ripeto – la facoltà di federarsi in organizzazioni superiori, che nulla vieta di chiamare “regioni”.
Diverso è il caso dell’Alto Adige-Trentino. In questa “regione” sono stati messi insieme, come nel sacco del parricida, i tedeschi dell’Alto Adige, a cui sarebbe stato meglio lasciare la libertà di andarsene magari a casa del diavolo, e gli italiani del Trentino. La parte tedesca, compattamente clericale, associata alla maggioranza clericale del Trentino, soffoca nel Trentino il movimento che fu la gloria di Cesare Battisti. L’Alto Adige-Trentino è diventato una piú vasta Città del Vaticano. Quando il problema dell’Austria sarà risoluto, cioè quando americani, inglesi e francesi – ispirati dal Dio di Pio XII – avranno messo insieme un nuovo impero asburgico con Baviera, Austria, Ungheria e Croazia (già una campagna in questo senso è cominciata in America), allora l’irredentismo tedesco risorgerà indomabile, e i tedeschi dell’Alto Adige si porteranno dietro verso l’Austria i contadini (italiani ma clericali) del Trentino. Naturalmente, questo avverrà per mezzo di un plebiscito, al quale assisterà un certo numero di “esperti” americani, che non capiranno nulla di nulla, ma certificheranno la perfetta regolarità delle operazioni. Bella immortale benefica fede ai trionfi avvezza, scrivi ancor questo.
Quanto alla regione siciliana e alla regione sarda, sulla porta di quei due baracconi bisognerebbe iscrivere la formula pirandelliana «non è una cosa seria». La prendono sul serio i soli politicanti, che vanno nei due consigli regionali a fare discorsi inutili, e gli impiegati delle nuove burocrazie regionali, che si sono inseriti fra la burocrazia centrale e le amministrazioni provinciali, quasi che d’impiegati in Italia non ce ne fossero abbastanza.
Un luogo comune
Un luogo comune spesso ripetuto come verità inconcussa, è che la provincia italiana è una creazione “artificiale”.
Artificiale?
Se per artificiale s’intende qualcosa che è stato creato, a torto o a ragione, dalla volontà degli uomini svincolata da ogni tradizione, artificiali sarebbero le regioni fabbricate arbitrariamente a Roma da alcune centinaia di ignorantoni designati come deputati da poche dozzine di imbroglioni che cucinarono nelle camorre-direzioni-dei-partiti liste dei candidati da essere inghiottite in blocco dagli elettori. Artificiale fu l’unità burocratica imposta all’Italia nel 1859-60, cioè il neoplasma francosavoiardo – dato che un cancro possa essere detto artificiale, oggi, dopo quasi un secolo di vita.
Quasi tutte le province italiane esistevano prima del 1860, quando non si parlava né di unità nazionale né di accentramento burocratico. Molte province sono le civitates del mondo romano. Firenze, Lucca, Pisa, Siena, Arezzo: città romane (anzi Arezzo preromana), i cui confini provinciali sono su per giú oggi quali si trovano nei documenti sopravvissuti all’alto medioevo. Molte province non solo risalgono al mondo romano, ma corrispondono perfettamente a una regione naturale: Provincia di Foggia = Capitanata; Provincia di Bari = Terra di Bari; Provincia di Lecce = Terra d’Otranto o Salento, ecc., ecc. Guardate una carta della Calabria. La provincia di Reggio Calabria consiste di un massiccio centrale, l’Aspromonte, e di un bassopiano periferico bagnato dal mare. Questa provincia-regione naturale è divisa, mediante un profondo avvallamento, da un’altra regione naturale, che forma la provincia di Catanzaro. E questa consiste anch’essa di un massiccio centrale (culminante nel Monte Pecoraro) e di due bassipiani laterali, uno sull’Ionio e l’altro sul Tirreno. E questa è divisa anch’essa mediante un avvallamento profondo dalla provincia-regione naturale di Cosenza, che consiste anch’essa di un massiccio centrale, La Sila, e due pianure laterali. Si può sapere perché queste tre province-regioni naturali debbano essere messe insieme in una nuova creazione artificiale, la Regione Calabrese, cosí che il cittadino di Pentedattilo, che abbia un affare da sbrigare con quella che oggi è la sua amministrazione provinciale, debba andare non piú a Reggio Calabria, ma dove? a Catanzaro, o a Cosenza?
Invece di concentrare piú province in una “regione”, bisognerebbe decentrare le amministrazioni provinciali in amministrazioni circondariali, anche esse elettive. Beninteso che anche questi smembramenti dovrebbero essere decisi localmente dagli interessati, e non dai bestioni di Roma, ispirati da chi sa quale Dio.
Le province sono inefficienti (altra cosa da artificiali), perché già nei regimi dispotici preunitari le burocrazie accentrate avevano spogliato i loro amministratori di ogni funzione e autorità. La burocrazia del regime unitario non ha lasciato loro altro da fare che qualche strada, la cura dei pazzi e poche altre funzioni che la legge non vieta loro d’assumere.
Che fare?
Quel che occorre in Italia non è sovrapporre catafalchi di “regioni”, buone a niente, su gruppi di province buone a niente. Occorre invece trasferire dall’amministrazione centrale agli enti locali (comuni e province) fonti di reddito e funzioni, che appartengono malamente oggi alla burocrazia centrale, liberare quelle amministrazioni locali dal soffocamento prefettizio, e poi lasciare che i cittadini, attraverso tentativi liberamente fatti ed errori pagati da loro stessi, imparino a poco a poco ad auto-governarsi.
C’è, a quel che pare, oggi in Italia, della gente che vuole la “regione”, credendo che una “regione” italiana corrisponderebbe a un “cantone” svizzero.
La Svizzera, con 4 milioni e 300 mila abitanti su una superficie di 41 mila chilometri quadrati, è divisa in 22 cantoni autonomi. In Italia si pretende di mettere 4 milioni di piemontesi, viventi su circa 30 mila chilometri quadrati, nel sacco di una sola “regione” che pretenderebbe di essere quel che è un cantone svizzero. L’Emilia, con 3 milioni e mezzo di abitanti, su 22 mila chilometri quadrati, sarebbe un altro cantone simile a un cantone svizzero. Ma il Dio di Pio XII e il non-Dio di Stalin si divisero l’Emilia in due fette: le province sul Po a Togliatti, e quelle sull’Adriatico a De Gasperi. Come faranno ora le acque dei fiumi emiliani a scorrere tutte verso l’Adriatico invece di dividersi fra due mari diversi? Si può sapere a chi i regionalisti italiani hanno dato il cervello a pigione?
Insomma, invece di applicare quel cretino articolo della Costituzione, che ha inventato diciannove regioni artificiali, sarebbe bene prendere in esame il problema delle autonomie comunali e provinciali. Basterebbe, a questo scopo, cominciare con estendere a tutta l’Italia l’autonomia concessa alla regione-provincia di Val d’Aosta, e poi lasciare che ciascuno se la sbrighi da sé, come meglio crede, a proprio rischio e pericolo, e a proprie spese.
I deputati ed i senatori al Parlamento centrale – qualora riescissero a scendere dal cielo in terra e ad imporre la propria volontà alla burocrazia romana, che non cederà mai, se non costrettavi, nessuna delle sue attribuzioni – dovrebbero risolvere un problema essenziale per la vita degli enti locali, dopo averne riconosciuta la autonomia. Dovrebbero dotarli con redditi finanziari indipendenti da quelli del governo centrale, e larghi abbastanza per consentire un piú ampio sviluppo alle loro iniziative. A che cosa varrebbero le autonomie locali, se i comuni e le province, e le eventuali federazioni regionali fossero cosí povere da non potere consentirsi piú larghe attività di quelle, assai striminzite, che sono loro consentite oggi dalla povertà delle entrate? In Svizzera, in Inghilterra, in America, la imposta fondiaria e la imposta sui fabbricati vanno tutte agli enti locali. I governi centrali riscuotono le imposte sul reddito, i proventi doganali, i proventi delle poste, e quelli di ogni altro servizio avente carattere nazionale.
Naturalmente, insieme coi proventi della imposta fondiaria e della imposta sui fabbricati, si dovrebbe esaminare quali servizi pubblici, oggi usurpati dalla burocrazia centrale, dovrebbero essere trasferiti dal governo centrale agli enti locali.
Un esempio
Un esempio. Se si restituissero alle amministrazioni comunali le scuole elementari insieme con la intera imposta fondiaria, si farebbero un viaggio e due servizi: 1) si perequerebbe la imposta fondiaria, che oggi è assai sperequata fra Nord e Sud a vantaggio del Nord, e si perequerebbe nella forma piú semplice: ognuno si tenga il suo; 2) si sottrarrebbero le scuole elementari alla mala amministrazione della burocrazia centrale.
Molti protesteranno contro questa mia seconda idea. – Quale obbrobrio non erano le scuole elementari quando erano amministrate dai Comuni? – Adagio! Quando le scuole elementari erano amministrate dai Comuni, i maestri elementari erano esposti alla prepotenza dei tirannelli locali. Ma la legge del 1901 sullo stato giuridico dei maestri elementari li mise al sicuro da quelle prepotenze. – Non c’era bisogno di affidare le scuole elementari alla burocrazia romana per sottrarli a quelle prepotenze.
Ho letto in questi giorni che l’analfabetismo in poco piú di trent’anni, grazie all’amministrazione statale, è caduto dalla media del 39% nel 1911 a quella dell’11% nel 1948. Invece dal 1871 al 1911 scese solo dall’88% al 70%. («La Sveglia repubblicana» di Carrara, 26 dicembre 1948). Ecco come si scrive la storia! Consultiamo gli Annuari Statistici Italiani. Troveremo che nel 1871 l’Italia contava il 69% di analfabeti; nel 1881, il 62%; nel 1901, il 48% nel 1911, il 39%; nel 1921, il 27%; nel 1931, il 21%. Dunque, l’analfabetismo diminuí dell’un per cento ogni anno, finché le scuole elementari furono amministrate dai Comuni, e diminuí della metà dell’un per cento dopo che le scuole elementari passarono alla burocrazia romana. Dopo il censimento del 1931 non ne è stato fatto nessun altro. Le cifre dell’analfabetismo nel 1948 sono state inventate senza nessun censimento. Che Dio ce la mandi buona quando si farà il censimento del 1951!
Prima che le scuole elementari fossero confiscate dalla burocrazia romana, l’analfabetismo era sceso del 3% nella provincia di Sondrio. C’era bisogno dunque di togliere le scuole elementari ai comuni della provincia di Sondrio?
Nell’insieme, si può dire che nell’Italia settentrionale quelle scuole funzionavano bene. Non parliamo delle scuole di Milano, Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, che erano modello del genere. Anche nelle città minori c’era poco da condannare. Le condizioni erano meno soddisfacenti nei comuni rurali, ed erano pessime nell’Italia meridionale.
Perché, allora, togliere le scuole elementari anche ai comuni, in cui funzionavano bene, per affidarle alla burocrazia centrale? Perché non prendere questa misura nei soli comuni in cui le scuole andavano male, per vedere se la burocrazia romana riesciva a far meglio? (Ci riuscí davvero? non pare).
E oggi? E oggi bisognerebbe, tanto nel Nord quanto nel Sud, restituire, insieme coll’imposta fondiaria, le scuole elementari a quei soli comuni in cui l’analfabetismo è inferiore, putacaso, al 10% della popolazione giovanile, affidandole, invece, a provveditori governativi in quei comuni in cui l’analfabetismo è piú alto. Quando l’analfabetismo fosse ridotto a non piú che il 5%, le scuole sarebbero restituite ai comuni. Frattanto in questi comuni “minorenni” le entrate provenienti dalla imposta fondiaria, abbandonata dal governo centrale e destinata alle scuole elementari, sarebbero amministrate per ciascun comune dal provveditore governativo, e sarebbero restituite al comune insieme con le scuole, quando fosse venuta la, diciam cosí, pienezza dei tempi. Di siffatte materie molti regionalisti dei giorni nostri non hanno, beati loro, il minimo sentore.
Il meno peggio
Abolire allora del tutto i prefetti, come propose Luigi Einaudi al tempo della Resistenza? – Pur essendo federalista per la pelle, non arriverei fino a questo punto nell’Italia d’oggi. Mi pare inevitabile che si lasci ai prefetti l’ufficio di comandare la polizia per la repressione dei reati, e di mantenere l’ordine, mettendo in moto in caso di bisogno le forze armate del governo centrale. A chi altri potrebbe essere affidato quest’ufficio? Alle guardie municipali? Inoltre i prefetti dovrebbero sempre conservare il compito di promuovere presso la magistratura ordinaria la repressione dei reati, – reati, badiamo bene, non iniziative discutibili, o errori – che gli amministratori degli enti locali potrebbero commettere. Di siffatto ufficio non si potrebbe fare a meno specialmente nell’Italia meridionale.
Nel 1947, se la memoria non m’inganna, i comunisti e social-confusionisti di Milano promossero una specie di rivoluzione… cogli ombrelli per impedire che il prefetto di Milano fosse tolto loro dal governo centrale. A quei miei amici americani, che si scandalizzavano per siffatto “disordine”, io spiegai che il prefetto di una provincia italiana è scelto ed è revocato dal ministero degli Interni, mentre negli Stati Uniti il governatore è eletto dal suffragio universale dei cittadini. I comunisti e social-confusionisti di Milano volevano, in fondo, la scelta del loro governatore farsela da sé. È vero che facevano quella domanda perché il prefetto era un uomo loro, mentre avrebbero domandato che il governo centrale lo revocasse se fosse stato uomo dei clericali. Ma questa non era ragione per rifiutare il principio che il prefetto italiano deve essere gradito alla maggioranza dei cittadini italiani, come il governatore americano deve essere gradito alla maggioranza dei cittadini americani. Questo lo dicevo perché si trattava di Milano. E lo stesso discorso avrei fatto per Torino, Genova, Aosta e che so io. Ma se si fosse trattato di Napoli o di Bari, non avrei osato essere cosí sicuro di me stesso. E anche per Milano sarebbe stato discorso troppo lungo spiegare che mentre i milanesi avevano il diritto di esigere un prefetto che fosse di loro gradimento per tutto quanto riguardasse l’amministrazione locale della città e della provincia, non sarebbe stato prudente affidare a un prefetto gradito ai comunisti e ai social-confusionisti la facoltà in caso di disordini di comandare anche la polizia e l’esercito.
Io mi rendo conto della concessione che cosí faccio a una istituzione – il Prefetto – per la quale occorre avere il massimo sospetto. Ma la vita pratica non può fare a meno dei compromessi: compromessi non fra il bene e il male, ma fra il peggio e il meno peggio.
Non sei tu quel desso?
A questo punto, qualcuno mi dirà: «Non sei, dunque, tu quel desso, che nel 1899, nella “Critica sociale” di Filippo Turati, pubblicò una serie di articoli intitolati La questione meridionale e il federalismo, invocando “parlamenti regionali” e “federazioni regionali di comuni”?».
Sí, son io quel desso! Ma il 1899 successe mezzo secolo fa. – E in mezzo secolo un uomo deve non solo vivere ma anche imparare. Molte esperienze mi hanno costretto a mettere una certa dose d’acqua nel mio vino federalista di mezzo secolo fa.
Non ho piú nella capacità politica dei meridionali quella baldanzosa fiducia, che avevo quando i trent’anni erano ancora per me di là da venire. Per il contadiname meridionale ho lo stesso rispetto che avevo allora. Ma il contadiname, nel Mezzogiorno d’Italia, come in tutti i paesi del mondo, ha bisogno di “guide”. Queste guide non possono venirgli che dalla piccola borghesia intellettuale. Ora questa classe sociale è nell’Italia meridionale, nella sua immensa maggioranza, intellettualmente e, piú ancora moralmente, marcia.
Sulle condizioni intellettuali e morali della piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia, feci molte esperienze nel primo decennio di questo secolo, e dopo, via via che presi contatto sempre piú vasto e piú… penoso con le realtà di ogni giorno.
Quelle realtà Giustino Fortunato mi aiutò a vedere nelle sue conversazioni e nei suoi scritti. Cosí avessi conosciuto quel grande maestro non nel 1909, ma quindici anni prima! Fortunato era assai pessimista sulla capacità dei meridionali a sollevarsi, con le loro forze, dal baratro, in cui erano stati messi dalla natura nemica e dalle sventure della loro storia. Perciò era “unitario frenetico”, come soleva dire, e aspettava dal Nord la salvezza. Anch’io aspettavo dal Nord aiuto, ma credevo che il Sud si sarebbe aiutato soprattutto da sé. Fortunato sperava troppo dai nordici, e io speravo troppo dai sudici (cosí cinquant’anni fa si chiamavano nel Nord quelli che si chiamano oggi i “terroni”).
Non che mancassero mezzo secolo fa uomini eccezionali come Fortunato, De Viti de Marco, Maranelli. Ma dove la media è troppo bassa, le eccezioni riescono solo a rendere la vita infelice… a se stessi. Sono migliorate le condizioni nei venti e piú anni della dittatura fascista? Leggendo i giornali di tutti i partiti, che si pubblicano oggi nel Napoletano e nelle isole, non trovo troppe ragioni per diventare ottimista, sebbene non vi sia dubbio che piú di un seme ha germogliato sotto la neve.
Dei piccoli borghesi intellettuali meridionali si può ripetere quello che Ferdinando II di Borbone disse dei suoi soldati a quel ministro della Guerra che gli presentava il figurino di una nuova uniforme: «Vestili come vuoi, scapperanno sempre». I piccoli borghesi intellettuali meridionali, sotto qualunque bandiera politica militino – clericali, liberali di destra o di sinistra, socialisti di destra o di sinistra, comunisti, e che so io – sono dei buoni a niente. Sono buoni a niente nei consigli comunali, nei consigli provinciali, nella Camera dei deputati e nel Senato. Diventerebbero forse migliori quando potessero pavoneggiarsi sulle poltrone dei consigli regionali?
Il suffragio universale
Altri mi dirà: «Non sei, dunque, tu quel desso che, fra il 1900 e la prima guerra mondiale, fece una campagna cosí ostinata (e solitaria) per il suffragio universale? Non era quella campagna basata sull’aspettazione che le popolazioni meridionali avrebbero trovato, attraverso l’uso del suffragio universale, la via per risollevarsi dalla loro depressione? Hai messo del vino anche nel suffragio universale?».
Son io quel desso, e nel suffragio universale non ho messo nessun vino. La mia opinione allora, e anche oggi, è che il suffragio universale avrebbe messo e ha messo nelle mani del contadiname meridionale uno strumento politico formidabile per la conquista di una vita piú umana. Per confessare la intera verità, credevo allora che il contadiname avrebbe trovato da sé la sua strada. Secondo la dottrina marxista il “proletariato” era il vaso di elezione. Quella dottrina giocava allora nella mia testa come in quella di molti miei coetanei. Svanita la illusione nella capacità del “proletariato”, e quindi anche dei contadini meridionali, a fare da sé, e riconosciuto lo sfacelo intellettuale e morale della piccola borghesia, che dovrebbe dare le guide al contadiname, l’ottimismo gioioso della mia gioventú si è – ahimè – rarefatto. Ma continuo a ritenere che il suffragio universale è la sola arma politica, da cui il contadiname possa ricavare vantaggi, via via che imparerà a farne uso. Sarà un processo assai piú lento che io non immaginavo. Ma anche oggi, quella massa anonima e imponente, per il solo fatto che può votare, esercita una pressione di paura sui politicanti di tutti i partiti. Né clericali, né comunisti, né socialisti, né “liberali” di destra o di sinistra parlerebbero tanto di questione fondiaria e di questione agraria, se il contadiname meridionale non possedesse il diritto di voto. Solamente, ripeto, il processo sarà molto piú lungo che non credessi una volta. La macchina sociale, ha scritto Cattaneo, è lenta a muoversi, e non si muove senza gran rumore, e molte volte fa un gran rumore e non si muove affatto.
Passi per il contadiname. Anche le donne? – Anche le donne. Anche per esse occorre dare tempo al tempo. Testimoni degni di fede mi dicono che in certe città delle Puglie nel 1945 e 1946 le donne partecipavano a migliaia alle processioni cattoliche. Nell’estate del 1947 erano ridotte a pochissime. Naturalmente, bisogna ricordarsene anche fuori dei periodi elettorali, e non illudersi di poterle “fregare” andando dietro ai Cristi morti, e votando gli articoli 7. Certi giochetti riescono (o piuttosto non riescono) una volta sola; poi bisogna non tentarli piú.
Ma donne o non donne, senza aiuti esterni il contadiname meridionale ha poca speranza di un avvenire migliore. A differenza di quanto pensavo mezzo secolo fa, debbo riconoscere che l’Italia meridionale non può “fare da sé”. Ecco perché ritengo oggi desiderabili interventi nordici, che mi parevano meno necessari mezzo secolo fa.
Nord e Sud
Ci fu in Sicilia, negli anni recenti, chi quegli aiuti andò a cercarli in Inghilterra. A me sembra preferibile, per mille ragioni, cercarli nell’Italia settentrionale. Sulla possibilità di ottenere questo aiuto non sono oggi molto piú ottimista che fossi mezzo secolo fa. Ma via via che la mia fiducia nelle forze indigene del Mezzogiorno si è andata attenuando, ho dovuto convincermi che l’aiuto dei settentrionali è la sola via che si possa battere. E quando c’è una sola via, quella è la migliore.
Dopo tutto, economicamente l’Italia meridionale è la sola colonia redditizia, su cui le industrie settentrionali possano fare assegnamento sicuro per smaltire le loro cotonine e i loro campanelli elettrici. Se i compratori sono poveri, i venditori non possono prosperare. E politicamente, lo vogliano o non lo vogliano i settentrionali, essi sono attaccati ai “terroni” come il busto è attaccato alle gambe. Se l’Italia meridionale rimane politicamente infetta, le “razze superiori” dell’Italia settentrionale soffriranno sempre per le infezioni che si sviluppano fra le “razze inferiori”.
Bisogna, dunque, ripetere nell’Italia settentrionale – anche a chi non vuol sentire – e sono sempre molti, sebbene mi pare sieno meno di cinquant’anni fa – che i nordici debbono occuparsi non solo di se stessi, ma anche dei sudici, se non vogliono trovarsi a mali passi.