di Giancarlo Scarpari
Robert Kagan, uno dei “falchi” della destra repubblicana, nel 2004 aveva spiegato all’Europa, poco convinta della scelta fatta dal suo paese di promuovere una nuova guerra contro l’Iraq, che l’America aveva invece tutto il diritto di farla, perché era stata minacciata dal terrorismo internazionale e perché Saddam Hussein aveva tentato di dotarsi di armi di distruzione di massa.
Sorvolando sulle premesse, Kagan aveva illustrato nel suo libro (Il diritto di fare la guerra, Milano, Mondadori, 2004) i fondamenti della dottrina Bush sulla legittimità della guerra preventiva, dottrina che lui stesso aveva elaborato nella primavera del 2000, un anno prima dell’attacco alle Torri gemelle, in un saggio scritto in collaborazione con William Kristol (Present Danger). In quel libro, l’autore aveva ricordato, a chi sosteneva che il diritto internazionale vietava questo tipo di guerra, che nel nuovo disordine mondiale il sistema vestfaliano non aveva più alcuna ragione di esistere («la proliferazione di armi di distruzione di massa ha reso troppo rischioso il temporeggiare»); e aveva, anzi, manifestato il proprio stupore per le reazioni che quella dottrina aveva suscitato nel «paradiso geopolitico europeo», visto che quell’idea non era affatto nuova: già Kennedy, al tempo della “crisi dei missili”, aveva minacciato un attacco preventivo contro lo Stato cubano e, negli anni ottanta, dopo l’attentato di Beirut nei confronti di una caserma di marines, il segretario di Stato Schultz aveva invocato, questa volta pubblicamente, la necessità di promuovere un’azione preventiva contro il terrorismo internazionale; e nessuno in Europa, in quelle occasioni, aveva avuto nulla da ridire.
Del resto gli Usa, secondo Kagan, si erano sempre riservati «il diritto di intervenire ogniqualvolta e ovunque lo avessero ritenuto necessario dall’America Latina ai Caraibi, dal Nord Africa al Medio Oriente, dal Sud del Pacifico all’estremo Oriente e da ultimo persino in Europa», in Kossovo; e quest’ultimo intervento, manifestamente contrario alle norme internazionali poiché effettuato senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, era stato attuato da un generale americano “nel cortile di casa” dell’Europa e questa aveva addirittura partecipato al conflitto.
Ma che cos’è che rendeva legittimi tutti questi interventi? La risposta di Kagan era netta e perentoria: gli americani, da sempre, si consideravano «l’avanguardia di una rivoluzione liberale mondiale» ed erano convinti che «la pace globale dipendesse, in ultima analisi, non dalla legge ma dalla diffusione del liberalismo politico e dalla libertà dei commerci»; e questa meta poteva «essere raggiunta soltanto costringendo regimi tirannici o barbari a comportarsi più democraticamente e umanamente e talvolta ciò [andava] fatto con la forza».
L’articolata dissertazione, privata degli abituali orpelli alla Benjamin Franklin («Non lottiamo solo per noi stessi, ma per l’umanità»), descriveva realisticamente le ragioni dell’ingerenza degli Usa negli altrui Stati (esportare il proprio modello liberal/liberista), salvo poi determinarne ideologicamente gli esiti (la democratizzazione degli Stati invasi). Orbene, a parte il fatto che, in concreto, si esportava più la libertà dei commerci che quella delle persone, la realtà aveva subito dimostrato che nessun automatismo vi era tra le ricette adottate e la democrazia promessa, come l’introduzione del liberismo nel Cile di Pinochet aveva subito evidenziato; successivamente, gli esiti delle guerre promosse contro l’Iraq e l’Afghanistan avrebbero chiarito definitivamente l’arbitrarietà di quelle conclusioni avventurose.
Il discorso di Kagan era però rilevante non solo per il suo inquietante approdo finale – la legittimazione della guerra preventiva, un tempo primo capo d’accusa per gli imputati di Norimberga – ma anche per il presupposto con cui veniva giustificata: era infatti la validità del sistema liberal-liberista praticato all’interno degli Usa che, secondo l’esponente conservatore, ne legittimava la proiezione all’esterno, in un continuum che stabiliva uno stretto legame tra la politica interna e quella estera del paese a stelle e strisce.
La qualità del modello di Stato da esportare era data per scontata; ma in realtà rimaneva assai vaga, visto che Kagan non spiegava se i principi liberali, nei singoli Stati americani, riguardassero la generalità dei cittadini o solo una parte di essi, né si soffermava ad analizzare con che cosa fosse impastato il liberalismo repubblicano di chi allora era al potere.
Quanto, invece, fossero gracili le strutture di quel modello, l’autore se ne sarebbe accorto anni dopo, quando, sull’onda prodotta dalla crisi finanziaria del 2007-08,una parte della società civile americana si sarebbe messa in movimento, dapprima con l’occupazione di Zuccotti Park, nel 2011, per protestare contro le crescenti disuguaglianze e il salvataggio delle banche, quindi con le altre manifestazioni, presto dilagate in varie città, promosse da Occupy Wall Street, «contro la tirannia del capitale finanziario»; e, successivamente, nel 2012, sarebbero scesi in campo gli afro-americani del Blak Lives Matter per protestare contro il razzismo della polizia, l’assassinio reiterato e impunito dei giovani neri e contro il «capitalismo bianco che li escludeva dall’economia».
Tutte queste insorgenze avevano determinato una decisa reazione del partito repubblicano, che in breve tempo era divenuto il contenitore delle paure e della rabbia di coloro, per lo più maschi “bianchi”, ma non solo, che da quei movimenti vedevano messi in pericolo reddito, status sociale, convinzioni radicate e vigenti gerarchie; e i suoi dirigenti alimentarono un crescente processo di radicalizzazione dell’elettorato, aprendo le porte alla politica aggressiva contro i democratici inaugurata dal Tea Party. Ma solo quando, nel 2015, apparve sulla scena Donald Trump, una star televisiva, proprietaria di immobili e di casinò, che in breve travolse ogni avversario alle primarie per trionfare l’anno successivo alle elezioni presidenziali, Kagan, ostile al suo dichiarato isolazionismo, si accorse del processo involutivo in corso tra i repubblicani, di cosa soprattutto stava maturando e a quel punto decise di lasciare il partito.
Certo il successo di Trump era avvenuto grazie a una campagna pubblicitaria aggressiva e in parte nuova: l’ossessiva propaganda veicolata dai 140 caratteri del tweet, la trasposizione nella realtà del suo reality show («sei licenziato», la frase rituale e attesa dai 20 milioni di ascoltatori settimanali di The Apprendice, ora era rivolta contro avversari e collaboratori non completamente fidelizzati), una narrazione politica basata sui “fatti alternativi” (cioè sulle false notizie) e l’ostentato abbandono del “politicamente corretto” erano tutte modalità di comunicazione singolarmente non ignote alla politica precedente, solo che ora venivano usate in dosi massicce ed esaustive; e la stessa ricerca di identità promessa da Trump al “suo popolo” – principalmente la classe medio-bianca, impiegati e operai colpiti dalla crisi – recuperava gran parte del “comune sentire” di quel partito, lo attualizzava, lo rinvigoriva, fornendo una serie di illusorie ricette per una nuova “età dell’oro”, quella del sogno americano del secondo dopoguerra.
Ma non era questo che aveva colpito negativamente Kagan. Determinante per lui era stata la (tardiva) presa d’atto che le articolazioni del sistema liberale stavano cedendo e che il partito della virtù repubblicana era stato scalato dall’interno da un demagogo, spinto verso l’alto da un inedito culto della personalità; l’anziano conservatore si era via via accorto che i “checks and balances” previsti dai Fondatori non ne avevano fermato la marcia; ma quando, da ultimo, aveva assistito all’assalto del Campidoglio da parte dei seguaci di Trump, allora era insorto, dichiarando pubblicamente che si era andati «molto vicino a fare un colpo di Stato», che si era in presenza della «più grande crisi politica e istituzionale apparsa negli Usa dai tempi della guerra civile» e che si era aperta la possibilità della «distruzione della democrazia in quel paese» dopo il novembre 2024, data stabilita per le nuove elezioni politiche.
L’intervento di Kagan, un lungo articolo pubblicato in Italia sulle quattro pagine di «Il Foglio», l’11.10.2021, con un titolo a effetto (Fascismo in America), questa volta non è stato accompagnato nel nostro paese dal clamore e dalle discussioni che avevano animato il suo libro sulla legittimità della guerra preventiva; il saggio è stato invece accolto nel più assoluto silenzio e non ha richiamato l’attenzione neppure dei media amici dell’alleato americano, evidentemente convinti che, scampato il pericolo del 6 gennaio, con l’avvento di Biden e dei democratici, si sia voltata definitivamente pagina e che delle vicende di quel paese non sia più il caso di occuparsi, almeno sino alla scadenza delle elezioni di novembre.
Ebbene, chi ha voluto girare la testa dall’altra parte ha avuto torto perché, anche questa volta, Kagan ha espresso il suo punto di vista con l’abituale schiettezza, toccando questioni istituzionali di estrema rilevanza (e non solo per i cittadini del suo paese).
Leggendolo, apprendiamo che la convinzione di vivere in uno Stato liberal-liberista, modello da esportare anche con la forza, molla propulsiva della legittimità della guerra preventiva, è stata da lui per il momento accantonata; ora il maturo conservatore sostituisce alla baldanza di un tempo la presa d’atto della crisi che ha travagliato quel modello di Stato e accompagna questa sua riflessione con l’inquietante previsione del possibile «crollo dell’autorità federale» e della «divisione del paese in enclave rosse e blu in guerra».
Come sia potuto avvenire un simile rovesciamento di prospettiva, come lo Stato liberale celebrato in passato appaia ora all’autore sul punto di implodere sotto la spinta di un’eversione interna, Kagan non lo spiega adeguatamente. Descrive, è vero, alcune tappe di questo processo (l’apparizione del demagogo, lo spaesamento e la rabbia di tanti elettori, il culto della personalità che ha accompagnato l’ascesa di chi prometteva la rinascita dell’America, ecc.), ma, a parte l’uso di categorie interpretative datate, non si sofferma sulle cause profonde di questa involuzione, rifiutandosi di stabilire una qualche continuità tra il vecchio e il nuovo partito repubblicano.
Eppure la sostanza, se non la forma, del messaggio di Trump non doveva essergli sconosciuta.
«Dio, Patria e Famiglia», evocati di continuo dal candidato durante la campagna elettorale costituivano, in fondo, il credo tradizionale dei conservatori americani (anche se ora veniva portato all’estremo per l’incalzare del millenarismo reazionario della Christian Right e per la crescente visibilità delle organizzazioni antiaborto e antigender che spalleggiavano Trump nei suoi comizi). Né la promessa di una politica basata sul taglio delle tasse ai possidenti e sulla riduzione dei vincoli alle imprese, poi attuata dal neopresidente, poteva dirsi estranea al dna del partito repubblicano (e la nomina di Steven Mnuchin di Goldman Sachs a segretario del Tesoro aveva subito smentito tante declamazioni di Trump contro la globalizzazione).
Orbene, la resistibile ascesa dell’outsider nelle primarie è stata resa possibile, innanzitutto, proprio da questo humus culturale e ideologico, un comune sentire che non è venuto dall’esterno (non vi è stata l’ennesima invasione degli Hiksos), ma che già era presente nel credo del vecchio partito conservatore; e lo slittamento semantico rilevato nelle orazioni pubbliche di Trump, che ha indirizzato i suoi proclami non ai cittadini degli Usa, ma solamente all’America, cioè ai nativi bianchi (con una serie di corollari che solo in seguito sarebbero stati evidenti), neppure questo è parso estraneo a quella cultura, anche se per molti repubblicani quel riferimento rimaneva sottaciuto o era semplicemente implicito.
Ma il trionfo di Trump alle primarie è stato propiziato anche dalla forma-partito operante negli States, che non è l’organizzazione permanente e strutturata conosciuta nel Novecento in Europa, ma, essenzialmente, un comitato elettorale, la cui funzione è quella di conquistare il potere, assicurare lo spoil system al vincitore e, grazie a questo, ricompensare successivamente sostenitori e donatori: nel nostro caso, i primi, e con loro le folle plaudenti, avevano stabilito un rapporto sì col partito, ma soprattutto con la figura del candidato; i secondi, mano a mano che Trump sbaragliava i concorrenti interni, hanno superato le iniziali ostilità e puntato, alla fine, convinti, sul cavallo risultato vincente.
Kagan, nel riepilogare questa resistibile ascesa, si è stupito che gli elettori del partito repubblicano abbiano potuto credere «che il governo e la società degli Stati Uniti siano prigionieri dei socialisti, delle minoranze e dei pervertiti», ma non si è chiesto come mai quei votanti, che pure avrebbero dovuto essere animati dalla “virtù repubblicana”, non avessero gli anticorpi in grado di respingere una campagna di falsi di così macroscopica evidenza. Ha invece evocato, a giustificazione dell’accaduto, presunte colpe dei Fondatori «che non avevano previsto il fenomeno Trump», ritenendo che «demagoghi meschini» potevano influenzare i propri Stati, ma non l’intera nazione; ma ha così finito per ignorare, volutamente, le colpe, queste sì vere e attuali, dei dirigenti di quel partito, privi della necessaria consapevolezza e cultura in grado di erigere barriere politiche per fronteggiare, nell’età dei social, umori e spinte eversive, lasciate invece crescere, dapprima al proprio interno, e poi addirittura assecondate.
Dal partito alle istituzioni. Anche qui Kagan ha chiamato in causa la scarsa lungimiranza dei Fondatori che, stabilita la «separazione dei tre rami del potere», avevano immaginato che ciascun settore «avrebbe custodito con cura il proprio potere e le proprie prerogative»; previsione anche in questo caso smentita dalla realtà poiché gli eletti repubblicani dovendo prendere posizione sul duplice impeachment di Trump, avevano votato obbedendo al loro capo e sostituendo così «la lealtà di partito» a quella dovuta al Parlamento.
Fenomeno non nuovo questo – e Kagan lo ammette – ma che poco attiene all’adeguatezza o meno delle istituzioni, quanto piuttosto ai comportamenti devianti serbati dagli eletti chiamati a operare al loro interno. Se vogliamo individuare alcune lacune istituzionali, queste vanno cercate altrove, nelle nomine politiche di centinaia di giudici, ivi compresi quelli, spesso decisivi della Corte Suprema o nelle leggi elettorali astruse e barocche, manipolabili a livello dei singoli Stati, che sovente determinano, come nel 2016, la vittoria di chi ha preso il minor numero dei voti popolari. Ma non è certo una responsabilità dell’istituzione parlamentare in quanto tale, se i rappresentanti eletti di un partito decidono di tutelare il loro capo anche a costo di ignorare i fatti e di affermare il falso e quelli dell’altro non hanno la forza e i numeri per opporsi a questa deriva.
Molte delle argomentazioni di Kagan sono dunque opinabili; ma, al di là di questo, gli va dato atto di aver colto con lucidità e senza tanti giri di parole la gravità e l’essenza del fenomeno denunciato: l’ascesa di Trump al potere ha rivelato, infatti, la fragilità delle istituzioni della “più grande democrazia occidentale”, che ha consentito a una persona, conosciuta solo da alcune, sia pur nutrite, schiere di telespettatori, di scalare, in brevissimo tempo, uno dei due storici partiti della nazione, di farsi eleggere alla presidenza degli Stati Uniti, di farsi beffe dei principi dello Stato di diritto durante il suo mandato e di tentare poi, temendo di non essere rieletto, addirittura un colpo di Stato. Su questo punto Kagan è stato categorico: «Il movimento di Trump può non essere iniziato come insurrezione, ma lo è diventato dopo che il suo leader ha affermato di essere stato scippato della propria rielezione. Per i sostenitori di Trump, gli eventi del 6 gennaio non sono stati una débâcle imbarazzante, ma uno sforzo patriottico per salvare la nazione».
Parole gravi, queste, non sottoscritte da un giornalista qualsiasi, ma da uno dei più ascoltati consiglieri del presidente George W. Bush. Una valutazione allarmante, fatta da chi, sulla base dei dati conosciuti nel settembre 2021, riteneva ancora che il 90% di coloro che avevano seguito le milizie private e i suprematisti bianchi nell’assalto al Campidoglio, fossero “persone normali” nella vita quotidiana – «buoni genitori, buoni vicini di casa» – solo resi fanatici nell’occasione. Un giudizio ampiamente riduttivo, questo, che contrasta con quanto già emerso dai primi dati delle indagini svolte dalla Camera americana, secondo cui l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio non è stata una manifestazione pro Trump, poi degenerata, ma il tassello finale di un più ampio piano preordinato per invalidare l’elezione di Biden, organizzato da alcuni fedelissimi di Trump, tra cui Bannon, Select Committee della Camera e Rudy Giuliani, il principale avvocato del presidente.
Ma il discorso di Kagan va oltre, perché non si limita a evidenziare la gravità di quanto successo, ma volge lo sguardo al presente e, soprattutto, al prossimo futuro; e ne trae ulteriori e ancora più gravi elementi di preoccupazione.
L’autore rileva come, a distanza di nove mesi, non solo non ci sia stata alcuna riflessione all’interno del partito repubblicano su quanto accaduto e nessuna critica al leader sconfitto, ma come si sia invece realizzato un ricompattamento generale in vista delle elezioni di mezzo termine del ’22, dato che anche i sette senatori repubblicani che avevano votato per l’impeachment sono rientrati nei ranghi, evitando di associarsi ai democratici per far passare una legge che limiti il potere dei singoli Stati di rovesciare i risultati delle elezioni future (!). E sottolinea come sia in atto nel partito la rimozione di quei funzionari che non si sono prestati a dichiarare il falso sui “brogli” o si siano rifiutati di “trovare” i voti che mancavano a Trump: in tal modo quest’ultimo, se ricandidato, verrà a trovarsi in una condizione migliore di quella avuta in precedenza, anche perché, questa volta, potrà contare, sin dall’inizio, sull’appoggio dei donatori del Gop, dei think tank e di molti giornali d’opinione.
Per conto suo l’ex presidente si sta preparando: e un deputato e finanziere brasiliano, Luiz Philippe d’Orleans- Braganza, ha già raccolto 293 milioni di dollari per finanziare la piattaforma Truth, voluta da Trump per poter diffondere via etere le proprie notizie basate sui “fatti alternativi” nella prossima campagna elettorale; questa , di fatto, è già cominciata e, nelle suppletive del 2 novembre, in Virginia, dove Biden, l’anno prima, aveva sconfitto il suo avversario con dieci punti di vantaggio, oggi il trumpiano Glenn Yougkin è stato eletto governatore, sbaragliando il candidato democratico.
Il quadro è dunque fosco. L’auspicio di Kagan che alcuni deputati e senatori di quel partito riscoprano «la virtù repubblicana» e cooperino con i democratici almeno per le «questioni relative alla Costituzione e alle elezioni […] mettendo da parte le solite battaglie per concentrarsi sulla necessità più indispensabile e immediata di preservare gli Stati Uniti», visto il contesto descritto in precedenza, appare poco realistico. E tuttavia i vari tasselli necessari per la ricandidatura di Trump non sono ancora tutti andati al loro posto; e la conclusione delle indagini della Camera sull’assalto eversivo organizzato dai suoi seguaci, ove le prime indiscrezioni fossero confermate, potrebbe effettivamente ostacolarla; sarà il comportamento che nell’occasione manterranno gli eletti al Parlamento nell’esaminare questo atto insurrezionale la vera cartina di tornasole per comprendere in quale direzione intenda marciare la politica di quel paese.