di Rino Genovese
Se di una prospettiva socialista si tornerà a discutere, in un prossimo futuro, come di un’utopia concreta sarà all’interno di una profonda crisi del modello di vita occidentale. E non sarà – questo ormai appare assodato – né nella forma socialdemocratica e puramente statalista che abbiamo conosciuto in alcuni paesi europei nella seconda metà del Novecento, né in quella altrettanto statalista (e peggiore) del comunismo come “socialismo reale”. Sarà piuttosto dalla mescolanza delle culture antropologiche, peraltro da tempo in atto, che una soluzione socialista allo sconvolgimento delle identità tradizionali prenderà forma. Il socialismo del futuro sarà una una sorta di lingua artificiale, un esperanto.
Alla domanda sul perché in un grande paese come gli Stati Uniti un movimento operaio come quello europeo non avesse preso piede, Marx rispondeva che dalla miscela delle lingue in un paese d’immigrati era difficile far nascere l’unità di classe dei lavoratori. Oggi tutto il mondo è una Babele non solo linguistica ma di usi e costumi. Si può scegliere di chiudersi in un fortilizio identitario, sovranista, nazionalista, magari sedicente cristiano, teso alla difesa della “civiltà ” (ma sarebbe una battaglia di retroguardia e persa in partenza, perché l’eredità coloniale dei paesi europei si sta ritorcendo contro la metropoli nella forma di un’immigrazione di massa dal sud del mondo); oppure si può tentare di costruire l’esperanto del futuro, cioè un socialismo non più basato sulla oggettività di una collocazione “di classe” come ai tempi di Marx, ma sulla scelta consapevole di donne e uomini nel rinunciare alle certezze tradizionali, alle comunità di appartenenza, per aprirsi all’utopia di un individualismo sociale costruito utilizzando anche pezzi di tradizioni diverse.
Si pensi, per fare un esempio, al ritorno delle religioni su scala mondiale: ciascuna di esse può significare la più chiusa delle forme d’identità culturale o, al contrario, un’apertura all’ “altro” (visto che tutte le religioni parlano dell’alterità , intesa sia in senso proprio dal credente come alterità divina, sia come una metafora dal non credente). Per la coscienza classicamente progressista proveniente dal passato europeo ottocentesco e novecentesco, liberale o socialista, il ritorno delle religioni nello spazio pubblico è soltanto uno scandalo imprevisto. Ma ai fini di un esperanto socialista tutto da costruire si tratta di una sfida culturale da raccogliere, di una competizione da accettare e rilanciare, per inserire quel nucleo di solidarietà umana che tutte le religioni concepiscono in un discorso utopico più ampio.
Certo, in questo difficile passaggio storico ne vedremo, ne stiamo già vedendo, delle belle (per non dire delle brutte). Zeev Sternhell, storico polacco israeliano, in un libro di qualche anno fa ha mostrato in maniera documentata come nella Francia degli anni trenta fosse all’ordine del giorno la transizione da posizioni socialiste e comuniste verso quel fascismo che, sotto occupazione tedesca, sboccherà nella Repubblica di Vichy. A quel tempo, in Francia, era soprattutto l’antisemitismo in quanto “socialismo degli imbecilli” a fare da relais. Oggi può esserlo molto di più la xenofobia e il razzismo anti-immigrati. Alla base di questo atteggiamento si riscontra una sfiducia nei confronti dell’asse caratteristico di qualsiasi politica democratica, cioè della distinzione tra una destra e una sinistra. Se questa distinzione operativa cede, viene eliminata o resa confusa, ci si colloca nella terra di nessuno del “né destra né sinistra”, ovverosia nell’incunabolo di qualsiasi forma di fascismo. Vale la pena ricordare che lo stesso Mussolini, prima della netta virata a destra – quando si dichiarava ancora socialista ma aveva rotto con il partito ed era diventato interventista –, prese le mosse da uno scuotimento della distinzione destra/sinistra. Era quella forma di “socialismo nazionale” da cui poi vennero i Fasci di combattimento. Il momento iniziale di questo processo vede la rottura dell’asse destra/sinistra, quello che permette di giudicare – appunto di non fare un unico “fascio” – posizioni di destra e di estrema destra come tali, anche quando si ammantano di un frasario anticapitalistico, e – si direbbe oggi – anti-globalizzazione, mentre non sono altro che l’aspetto “sociale” di un fascismo in fieri.