di Alex Borghi e Massimo Jasonni
Se c’è un approccio che va evitato, avendolo chi scrive sempre considerato deprecabile specchio dell’età mussoliniana, è quello qualunquistico. Nel qualunquismo la generalizzazione prevale sull’analisi dei fatti, le responsabilità politiche e personali finiscono per confondersi e ha la meglio quel pregiudizio culturale che porta con sé l’impronta del regime totalitario.
Tuttavia, il vizio a cui ci riferiremo è ormai talmente diffuso, da consentire una critica complessiva, pur nella consapevolezza che non tutti portano colpe, nell’attuale degrado istituzionale, rispetto al fenomeno della caduta del valore del riconoscimento del merito scolastico.
Non si boccia più o, comunque, si tende a un grigio lasciapassare per cui gli studenti, in particolare universitari, sanno a priori di non doversi preoccupare delle prove che li attendono, guardando anzi a esse con spirito di sufficienza. Così è andato prendendo piede l’andazzo della elusione, da parte del docente, della verifica dello studio e dell’apprendimento del discente.
L’esito è socialmente deleterio: nel post-laurea la ricerca e l’ottenimento di un’occupazione, in assenza di differenziazione e di valorizzazione del voto conclusivo degli studi, risulteranno facilitati per i figli di famiglie possidenti, o comunque “influenti”; al contrario impervi per i figli di nessuno. Tale ingiustizia, accresciuta dalla generale crisi del lavoro, è di dominio pubblico: ormai la si dà per acquisita, la si considera come stato delle cose “naturale”. A gambe all’aria è finito il disposto degli artt. 3 e 14 della Costituzione, ovvero un’uguaglianza basata sulla rimozione degli ostacoli limitativi dell’emancipazione dei ceti economicamente meno abbienti e socialmente sofferenti.
Ne vengono e ne verranno dei giornalisti che non sanno scrivere in lingua italiana, degli avvocati tanto astuti, quanto privi di lume giuridico, degli ingegneri o dei medici che non ci rassicurano sulla costruzione delle abitazioni o sulle cure prestate alle nostre malattie.
Occorre ragionare sulle motivazioni di carattere planetario e sulle spinte etico-politiche che hanno determinato il fenomeno e che, in un breve volgere di tempo, hanno radicalmente mutato il volto delle nostre pedagogie.
Nell’età della globalizzazione il concetto stesso di scuola, e tanto più di scuola pubblica, si ammanta di una fitta nebbia. È il mercato che seleziona, è l’attitudine al guadagno che discrimina, non il grado di cultura raggiunto nel corso di apprendimento. Nientificato è ormai il sogno di Humboldt di creazione di una classe dirigente capace e moralmente degna dell’assunzione di responsabilità civili. Ora, ovvero nell’età del dominio della tecnica, la preoccupazione dei governi si incentra sul minimo di erogazione di fondi alla scuola e su una trascuratezza del pubblico che cela, quando non addirittura un’appropriazione del finanziamento dell’istruzione, quantomeno uno sviamento del denaro in direzione mercantile. Il recente aiuto offerto dal governo alle banche è, sul punto, esemplare.
Le università si sono perfettamente rese conto di quanto sopra e, salvo rare eccezioni, non hanno gridato allo scandalo, viceversa si sono indirizzate nel senso della prospettiva americanistica del finanziamento privato. In questa logica, ecco l’aumento delle tasse universitarie, la sempre maggiore difficoltà per gli iscritti non abbienti di beneficiare di esenzioni e il ricorso a contatti con un mondo industriale cui si concedono corsi di laurea o materie “professionalizzanti”. Le lezioni vengono tenute, non di rado, in un inglese che non va oltre l’uso maccheronico dell’idioma, visto il servizio commerciale che deve rendere.
Perché bocciare, perché selezionare, se questo comporta caduta delle iscrizioni per trasferimento degli studenti ad altre sedi?
Il docente rigoroso nel giudizio, che ricorre alla bocciatura in esame quando doverosa, viene chiamato a rapporto dal direttore del dipartimento, se non addirittura dal magnifico rettore. Viene contestato un “eccesso di zelo”, facendo notare all’insegnante – tanto più caldamente, quanto più è ipocrita la cortesia del tono – che questa sua scelta determina esodi preoccupanti a vantaggio di altri atenei, concorrenti nella prefigurazione dei debiti o dei crediti (guarda caso!) necessari per il conseguimento del titolo di laurea.
Ma c’è un ulteriore apporto causale a questo sfascio di scuola solo apparentemente benevola, in realtà illiberale e antidemocratica, che non può essere sottaciuto. Esso tocca, come già lucidamente denunciava sulle pagine di questa rivista Antonio La Penna nel novembre del 2012, il problema dell’inaffidabilità del sistema concorsuale: un reclutamento che è finito col trascurare «quasi completamente il valore e il lavoro dei candidati e in cui tutto è dipeso dal potere e dall’arbitrio dei giudici e dai rapporti di clientela che ciascun candidato ha con uno o più docenti o con una Facoltà»1. Le riforme da allora apportate hanno minimamente inciso e non hanno contenuto lo sfascio istituzionale.
I docenti moralmente o culturalmente non all’altezza del magistero loro affidato, immeritevoli di assumere la responsabilità della gestione di una cattedra, benedicono un sistema non selettivo. Viceversa, il docente valoroso (con ciò intendendosi la persona conscia della responsabilità che gli è stata attribuita) non solo è conoscitore profondo della materia oggetto del proprio insegnamento, ma ne è anche custode: perciò non tollera che vi sia chi, non studiando, se ne fa beffa, e non consente che vi sia chi, intelligente e diligente, ne esca umiliato da una parificazione dei giudizi.
Opposto è il punto di vista di chi intende la cattedra come un beneficio da sfruttare e il tempo dedicato alla facoltà come tempo perso. Costui non si cura di promozioni o bocciature, di severità o di benevolenza in esame, ma sarà “molto comprensivo” delle debolezze degli studenti. E così una tesina “copia e incolla” da Wikipedia, seguita da una pirotecnica esposizione a gruppi in aula – con tanto di slides elaborate al powerpoint, affinché mai si dica che l’“accademia” non sa stare al passo coi tempi – può incarnare il format ideale. Ideale perché fa tutti contenti: gli studenti, da un lato, guadagnano una promozione “indolore”, lontana anni luce dalle sudate carte leopardiane e, per di più, accompagnata dalla presunzione di aver imparato a scrivere e a tener lezione; il professore, d’altro lato, risparmiate le energie, guarda sereno all’approssimarsi di un appello “lampo”, fatto di burocratiche, compiacenti verbalizzazioni. L’ottica è quella di una Universitas studiorum che semestralizza i suoi corsi, in spregio alla continuità didattica, garantendo ai titolari di cattedra mesi di vacanza dagli istituti. In questa logica perversa si segnala anche, e purtroppo non di rado, l’utilizzazione del tempo pieno da parte di docenti che fruiscono di rilevanti guadagni professionali. Esemplare, ancora, il quarto d’ora accademico, che ormai costituisce ricordo nostalgico del passato. L’abolizione di questa originaria prassi accademica crea una catena di montaggio di lezioni e una negazione ai discenti di quel momento di stasi che aiutava a distendere la mente, tra un corso e l’altro di lezioni. Nel quadro che ora si pone è l’Universitas studentium, privata dell’anima sua originaria e di quel momento essenziale di quiete, di socializzazione e di riflessione sui temi svolti che l’antica istituzione da sempre garantiva, a uscirne vergognosamente sfigurata, affannata e vilipesa.
La promozione indiscriminata libererà da ulteriori esami, da far sostenere in successiva sessione del corso, e, soprattutto, eviterà che il “bocciato” chieda conto, nella sede dell’esame contestato, delle ragioni della bocciatura o dia in escandescenza, come ormai ricorre nella lettura dei quotidiani. Capiamoci bene: consentire, chiudere gli occhi, rende tutto facile: un attimo di tempo per la prova, un commiato sorridente e ipocrita e … avanti il prossimo. Dire di no, ovvero stigmatizzare il difetto di studio, comporta un obbligo di motivazione. Il docente deve esporsi, chiarire le ragioni del dissenso, far capire – e far “digerire” – quanto sarebbe ingiusto promuovere.
Così è che al degrado della scuola concorrono tre abbassamenti di livelli: quello della politica, che non vi investe le dovute risorse e non promuove il pubblico; quello dell’amministrazione delle istituzioni scolastiche, che, in difetto di fondi, cedono per interessi mercantili, prevalenti su valori di crescita degli allievi; quello di una classe docente sempre più incapace (e posta in condizioni di disaffezione) di attendere degnamente agli impegni di cattedra.
A tutto ciò si aggiungono elementi di confusione, su cui soffia un vento mediatico. Ricordiamo in via esemplare la campagna pubblicitaria contro la scuola italiana, sostenendosi che essa sforna pochi “tecnici”, ovvero un numero di laureati inferiori a quello di altre nazioni europee. Quello che conta non è il numero dei pani sfornati, ma la qualità delle farine con cui si fa, e si controlla il pane.
In un articolo apparso sul «Corriere della sera» il 18 ottobre 1975, nell’imminenza del massacro al Circeo, Pasolini puntava il dito sulla causa di quel fenomeno che Marx stigmatizzava nel nome del «genocidio culturale»: il consumismo. Tema ispido e quanto mai centrale, sul quale si innestò la vivace querelle di Moravia, seguita dalla replica dell’autore, l’anno seguente, nelle Lettere luterane. Quello che Pasolini provocatoriamente proponeva, già nell’intitolazione dello scritto, era una soluzione swiftiana, tanto radicale quanto transitoria («in attesa di tempi migliori»): Aboliamo la tv e la scuola dell’obbligo.
Il principale organo di informazione e il luogo di istruzione per eccellenza sono ammorbati da un male comune, e da un comune farmaco devono essere curati. La scuola dell’obbligo ha smarrito il senso del suo etimo originario, ovverosia della forza fondativa che ha avuto per l’Occidente cristiano la scholé greca. Al contrario, essa è solcata, nell’era consumistica, dal «fallimento della tolleranza» e dalla «sopravvivenza di una retorica progressista»:
scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio)2.
In tal modo lo studente è reso «presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato) […]; angosciamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza»3.
Parimenti la televisione nel fornire non un insegnamento, bensì un “esempio”:
È stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore) […]. La scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità)4.
Sia chiaro, allora: il problema non sta nel quanti ragazzi si addottorino ogni anno, ma nell’addottorare quelli capaci e meritevoli, non i futuri aspiranti a “far soldi” o a comparire in foto sul giornale, membri di una sciagurata formazione politica emersa dal cappello del prestigiatore nel nostro sciagurato paese.
1 A. La Penna, Ammodernamento e ulteriore scadimento dell’università italiana, in «Il Ponte», n. 11, novembre 2012, p. 47. Si veda, sul punto, M. Jasonni, Cafone il censore, ora in Kéramos. Scritti per Il Ponte, Firenze, Il Ponte Editore, 2016, p. 207 ss.
2 P. Pasolini, Aboliamo la tv e la scuola dell’obbligo, in «Il Corriere della sera», 18 ottobre 1975, ora reperibile online al seguente indirizzo: http://www.corriere.it/speciali/pasolini/scuola.html.
3 Ibidem.
4 Ibidem.