Elezionidi Mario Monforte

È mancata solo la sconfitta di Sala-Pd a Milano – però Sala ce l’ha fatta con un ridotto scarto rispetto a Parisi del centrodestra -, altrimenti, con la (prevista) “botta” a Roma, dove la Raggi & 5S hanno stracciato Giachetti & Pd, e la secca e dura sconfitta (non prevista) a Torino – senza dire del pieno trionfo di De Magistris a Napoli e la sostanziale evaporazione della renziana Valente e del Pd nella città -, la débâcle di Renzi & soci & Pd renziano sarebbe stata completa. E non compensata da successi come a Bologna, dove Merola del Pd è stato riconfermato, pur con una consistente avanzata della Bergonzoni (della Lega,con il centrodestra), ma il sindaco ha criticato “a caldo” la conduzione politica di Renzi; e neanche come a Varese (benché qui la vittoria sia di qualche rilevanza: contro la Lega) e da poche altre parti: cosí a Rimini, cosí a Cagliari, ma Zedda, sindaco riconfermato, è di Sel; cosí a Salerno, ma qui si tratta di “quelli di De Luca”, anche se del Pd.

È rilevante che anche in Toscana le “cose piddine” vadano male (nell’avanzata della Lega e, pur qui in misura minore, dei 5S: vedi Grosseto, Cascina, e altrove), tanto che perfino in un centro organico alla conurbazione del tessuto urbano fiorentino, alle porte di Firenze, Sesto fiorentino, il candidato piddino-renziano ha stra-perso di fronte al candidato della coalizione fra Sinistra italiana, Pd non-renziano, sinistri vari, grazie all’appoggio dei comitati (impegnati nella lunga e sacrosanta battaglia contro l’assurdo nuovo inceneritore e l’ulteriore ampliamento del già insensato aeroporto di Peretola, a danno di abitanti e ambiente della Piana, da Firenze a Prato – che cosa poi il neosindaco farà effettivamente in proposito, resta da vedere). È da notare, inoltre, come i destri alleati ufficiali di Renzi (oltre ad Alfano e Ncd, Verdini e i suoi) abbiano raccolto percentuali del tipo della proclamata (e presunta) «crescita» in Italia …

«Le chiacchiere non fanno farina»: cosí, Renzi dopo essersi sgolato, al suo solito, a mettere insieme un’ovvietà, un proclama e la negazione dell’evidenza – “sono elezioni amministrative, non incidono sul governo, andiamo avanti”: certo, non incidono direttamente sul governo, ma politicamente sí, eccome , fa uscire il comunicato della direzione renziana: “è stata una sconfitta, non una disfatta”. Macché! Il Pd renziano esce battuto appieno, e precisamente nei candidati renziani e laddove gli esiti davvero “contano” – né il risicato esito milanese lo può risollevare. E l’elettorato piddino, svanito il quasi 41% dei voti validi delle elezioni europee, è ri-sgonfiato al di sotto del precedente livello del 25%, mentre è ormai evidente che si attesta su ceti abbienti e su quelli medi che ancora “si reggono” (quelli «politicamente corretti», nonché molto, parecchio, tanto, «interessati» …), e sempre meno, o per niente, sulle classi popolari – ma certo! Renzi e il suo Pd non sono contro il «populismo»?

A ogni modo, ora si apre un problematico percorso per il Pd, con tanto di riacceso scontro con la cosiddetta «sinistra interna» (benché sia inconcludente e priva di effettive prospettive alternative), benché, se ne può essere sicuri, non privo di ulteriori rodomontate renziane.

E la destra, o centrodestra? Un po’ si auto-congratula – “ci siamo”, “siamo importanti”: e lo riconosce anche Renzi (attestando, senza dichiararlo, che la sua idea di “erodere a destra” non ha piú funzionato dopo le europee) – e ha pur conseguito dei successi come centrodestra, anche se a Pordenone il candidato è di FdI, a Novara c’è la Lega, a Benevento c’è Mastella e la sua capacità di “operare” in loco. Comunque, resta significativa una perdita di consensi, pesa l’insuccesso a Milano (pur con soddisfazione per i risultati conseguiti, e il 20% andato a Forza Italia), ma soprattutto resta irrisolto lo scontro interno: da una parte, Berlusconi e soci, volti al «centrodestra unito», in qualche misura piú «centrista» – come ha ri-dichiarato di recente Berlusconi, ri-prospettando addirittura un «governo di unità nazionale» in caso di caduta di Renzi & Co. -, capace di raccogliere i famigerati «moderati», pur tenendo insieme anche le componenti piú «estreme», come la Lega e FdI, e altri ancora. Dall’altra parte, c’è Salvini e la sua Lega, in tandem con la Meloni e altri & FdI, i quali tendono a spostare il centrodestra piú, per intendersi, «a destra», ossia su posizioni piú à la Le Pen-Front national, né vedono prospettive nel «para-centrismo» berlusconiano; del resto, questo è già stato messo in atto a partire dai governi Monti e Letta, e ufficializzato con il «patto del Nazareno»: i risultati per la destra sono stati negativi, mentre tale linea «centrista» è invece stata, ed è, condotta da Renzi e Pd renziano, che in questo quadro hanno anche assunto “pezzi” parlamentari del centrodestra, essenziali per la maggioranza di governo – e solo tirandosene fuori è stato impedito il completo sgretolamento di consensi alla destra stessa.

Tale scontro ha condotto alla doppia candidatura a Roma, Marchini per Berlusconi (dopo l’inconsistente “balletto” con Bertolaso) e la Meloni per/con Salvini, puntando da ambedue le parti a colpire l’altra, in base a chi fosse riuscito ad arrivare al ballottaggio con la Raggi-5S. È stato ben presto evidente che la candidatura di Marchini avrebbe solo sottratto voti alla Meloni, che altrimenti sarebbe sicuramente giunta al ballottaggio, e non Giachetti-Pd – ma proprio questo Berlusconi ha voluto evitare in tutti i modi. E lo scontro interno al centrodestra resta irrisolto, lasciando problematico il prosequio, benché, e proprio perché, le due parti ribadiscano ognuna la propria linea.

Sui “grillini” si può solo dire che il pieno successo del M5S è indiscutibile: ottimo l’esito a Roma, ottimo a Torino, laddove si è trovato al ballottaggio con il Pd l’ha battuto dovunque (o quasi: in ben 19 Comuni minori su 20), incide anche altrove (non però a Napoli, dove è stato anch’esso messo ai margini dal travolgente De Magistris con la sua coalizione). E, sebbene vada pur rilevata una contrazione del numero complessivo dei consensi, è effettivamente la forza piú votata nel paese.

Se i “grillini” si gloriano di sgretolare i partiti ufficiali, il che è comprensibile, la realtà è diversa: ne raccolgono lo sgretolamento. Infatti, il M5S si è mosso nel disastro continuativo “coltivato” dagli «anti-populisti», ha saputo «intercettare» (come adesso si usa dire) i consensi delle periferie, delle classi piú popolari, ha dato una prospettiva, o comunque una speranza, di poter cambiare la situazione, già a partire dalla gestione delle città. E di piú: ha raccolto ai ballottaggi anche i voti, o comunque parte dei voti, della destra – del resto, la Meloni e Salvini avevano dato esplicitamente questa indicazione , il che dà conto dei risultati che doppiano quelli degli avversari a Roma e Torino (senza dimenticare anche il successo a Carbonia), sebbene i 5S non abbiano restituito l’appoggio, o non diffusamente e soprattutto laddove avrebbe avuto un forte impatto, in primo luogo a Milano e a Bologna – e qui, in tal caso, gli esiti dei ballottaggi sarebbero stati diversi. Ma il M5S ha seguito la sua linea – “si va da soli e non si fanno alleanze e apparentamenti con nessuno”, perché “solo cosí si avanza nel mutamento” – ed è apprezzabile la sua coerenza, benché questo possa essere anche considerato un errore politico: aver evitato di dare un colpo ancora maggiore, che avrebbe potuto essere quasi definitivo, a Renzi & Pd renziano.

Questo, per un sintetico excursus della fenomenologia delle elezioni amministrative del 5 e 19 giugno 2016: ciò è quanto – certo per linee generali, ma cogliendone il nocciolo – appare, si mostra. Ed è sicuramente attinente alla realtà, tuttavia non l’esaurisce.

Occorre andare piú in profondità, alla sostanza, per darne conto, e lo si può fare procedendo da un ulteriore dato della fenomenologia elettorale: il non-voto, quello che media e politici vari definiscono con il termine astratto e freddo di «astensione», o con il termine para/pata-psicologico di «disaffezione» al voto. Termini che smussano la realtà e servono per rilevare, sí, il non-voto stesso – discorsi correnti: “ormai è fisiologico …”, “è anche il trend europeo …”, et similia -, magari dicendosi preoccupati per il «distacco dalla politica», ma per archiviare subito la “questione” e lasciarla perdere, e passare ai risultati: alla politica concreta (o meglio, politicante). Certo, è nell’interesse di tutti i politici e forze politiche parlare un po’ del non-voto, e via via sempre piú en passant, e poi riporlo in “non cale”. Ma è questo un dato pesante e molto importante: il calo è generale, già il 5 giugno intorno al 5% rispetto alle elezioni precedenti, e senza arrivare al 60% degli «aventi diritto» nelle grandi città – esito non invertito da fenomeni detti «in controtendenza», come a Roma, dove il 5 giugno si è avuto un piccolo aumento -, seguito il 19 giugno dalla riduzione di un altro 5% rispetto al primo turno – per non dire di Napoli, dove ha votato solo il 36% degli elettori.

Ciò significa che una parte crescente della popolazione non dà piú nessun valore a chiunque si proponga di «rappresentarla»: non trova piú alcun senso nel sistema elettivo-rappresentativo, al punto di non credere nemmeno piú nel «meno peggio», che peraltro già caratterizza parte rilevante degli stessi votanti, ossia quei tanti che votano non tanto “a favore di”, quanto “contro qualcun altro”, considerato ancora «peggio», cioè per evitare un male maggiore, scegliendo un male minore.

E, da un lato, precisamente nella parte risultata persuasibile di questa ampia massa della popolazione, in massima parte costituita dalle classi popolari subalterne, ha raccolto i consensi il M5S e anche (se pur in misura minore) l’hanno raccolto la Lega e FdI, e inoltre compagini di centrodestra, nonché liste civiche (di sinistra, di destra, non ben caratterizzate, ecc.). Dall’altro lato, nessun candidato, nessuna forza politica, nessuna lista, sono riusciti a scuotere dalla sua posizione la restante componente di questa stessa popolazione, per cui permane il granitico dato di fatto, incombente su tutti i successi, compresi quelli dei 5S, che vanno tutti ridimensionati rispetto all’effettiva realtà dei consensi: esiste una massa di elettori potenziali, che, se “galvanizzati” da alcune idee-forza non solo sensate e valide, ma che risultino anche persuasive ed entusiasmanti, possono mettere in crisi e superare qualsiasi altra formazione, pur utilizzando (o strumentalizzando …) il vigente sistema elettivo, in cui adesso hanno perduto ogni effettiva fiducia.

Questo è il nodo: tutte le forze politiche attualmente in campo sono “di sistema” (virgolette alte d’obbligo: non è rigidamente chiuso e concluso, al contrario è mobile e flessibile, muta e si modifica, ma per perpetuarsi nei suoi fattori costitutivi). E tale carattere è stato (pur tardivamente) riconosciuto anche al M5S, archiviando le precedenti definizioni di forza «di sola protesta», di «anti-politica», di «anti-sistema», ecc.

La funzione oggettiva delle forze in campo (nei fatti: al di là della maggiore o minore o inesistente consapevolezza di esponenti, dirigenti, attivisti, simpatizzanti, votanti) è di contemperare – o dare a intendere di poterlo fare – imperativi ed esigenze del “sistema” stesso con le istanze dei lavoratori e classi subalterne, ossia con la grande maggioranza della popolazione, ottenendone cosí i consensi (e quindi il consenso al “sistema” nel suo complesso) – e va riconosciuto che questa era, questa è, questa rimane, la visione dominante nelle classi popolari (o, se vogliamo, la visione indotta e costruita dalla pervasiva ideologia dominante): visione non «anti-sistema», non eversiva, sovversiva, rivoluzionaria; vuol significare “fateci vivere in maniera passabilmente decente”. Del resto, i prioritari imperativi e le primarie esigenze del “sistema” sono accuratamente esclusi e occlusi da ogni propaganda e agitazione, da ogni discorso e dibattito ufficiale, e, va da sé, dai media: si parla, magari, di “problemi”, piú o meno gravi e difficili da risolvere, di troppi vantaggi ai «poteri forti», di corruzione, di disinteresse per i piú sfortunati, di leggi ingiuste e disposizioni errate, di favori eccessivi alle banche, di seguire la Costituzione e non stravolgerla, di operare con «onestà» e correttezza, nella legalità e non nella violazione delle regole, e cosí via, ma non si va oltre.

Ma i prioritari imperativi e le primarie esigenze del “sistema” sono sostanzialmente quelli del capitalismo (profitto e accumulazione del profitto) e del suo Stato (comando a sostegno del capitalismo e di se stesso), e della tecnologia scatenata al loro servizio (che ha sempre meno a che fare con la scienza) – o, il che è lo stesso, del liberalismo, da intendere non come insieme di discorsi astratti o idee piú o meno vacue, bensí come ideologia agente e operativa (nelle sue varianti di destra e di sinistra), e come prassi corrente e vigente, su tutti i piani. E vi sono le figure concrete in cui si questi imperativi ed esigenze si incarnano: per l’Italia, si tratta della dominante oligarchia politica, economica, sociale, culturale (o meglio, sub-dominante: comanda all’interno, ma unendo gli interessi propri con quelli esteri, delle altre oligarchie, con cui è sempre piú in fusione – il che dà conto, detto en passant, dell’indiscussa adesione agli «organismi internazionali», dell’accettata subordinazione agli Usa, della decisa collocazione nell’Unione europea e della convinta adozione dell’euro, ecc.).

E tale oligarchia, stabilita e istituita e sancita dallo/nello/con lo stesso sistema elettivo-rappresentativo e sistema istituzionale, nonché economico, può essere modificata nella sua composizione, mutata nelle sue figure specifiche e nelle sue disposizioni, ma per tendere a ricostituirsi in base alla perpetuazione del “sistema”, che pone e impone, comunque, il potere (reale) dei pochi. E i suoi interessi comunque sono contro quelli dei lavoratori e delle classi subalterne – perché ciò che conta sono, appunto, i prioritari imperativi e le primarie esigenze del “sistema, a cui tutto e tutti si devono subordinare. E tali interessi e tale “sistema” comunque vanno contro le pur modeste esigenze delle classi popolari – tipo avere un posto di lavoro abbastanza stabile e sensato, una retribuzione pressappoco decente e un’abitazione approssimativamente dignitosa, un ambiente cittadino ed extracittadino all’incirca vivibile, una pensione un po’ accettabile ma non a 97 anni, prospettive di formazione e occupazione degne per i giovani (nonché di poter avere a loro volta una futura pensione, cosa ora impossibile), costumi civili non del tutto distrutti, coesione sociale non dissolta da una progressiva sostituzione con altre genti.

Questa la fonte delle contraddizioni di fondo, costitutiva del “sistema”, com’è dimostrato da ogni analisi non distorta della realtà, ed è attestato dalla storia e dall’esperienza.

Di qui il non-voto, opposizione passiva a quanto viene posto e imposto, opposizione sconfortata ma pur sempre ostile, e di qui la raccolta di consensi di chi riesce a convincere, o almeno far sperare, che qualcuno possa migliorare le cose: cambiarle – pur in misura contenuta, certo, come si sa, non stravolgente, ma in qualche misura piú accettabile.

Ritornando al muoversi delle cose di superficie, gli esiti di queste elezioni amministrative la suonano già brutta in vista del referendum costituzionale di ottobre per Renzi e il Pd renziano. Ma Renzi dà ancora una volta il suo significato alle parole (ha imparato dall’orwelliano ministero della Verità?), e afferma che il Pd è andato male a causa del «cambiamento», perché non portato abbastanza avanti e a fondo: dando a intendere che, in realtà, è proprio lui l’uomo del cambiamento. Perciò … avanti tutta con il suo cambiamento: riforma (detta ormai dagli oppositori «de-forma» o anche «schi-forma») costituzionale e impegno a testa bassa per farla passare al referendum, sostegno senza discussioni alla legge elettorale, detta (misteriosamente) Italicum, e via con il resto dell’attività legislativa. Cosí Renzi “risolve” il problema di come proseguire: il Pd renziano continua su quanto ha fatto finora, ossia tutto pro-capitale, pro accentramento dirigistico della gestione statuale, pro Ue, pro Usa, pro «globalizzazione» e sue ricadute.

Data la pochezza dell’interna opposizione piddina – del resto, anche costoro non sono pervasi da un’ideologia diversa dal liberalismo (si ricordano, solo per portare un paio di esempi, le «privatizzazioni» e l’anti-posto fisso di D’Alema? E «le liberalizzazioni sono di sinistra» di Bersani? Il che vale per gli stessi fuoriusciti dal Pd: Civati non è un estimatore di Prodi? E Fassina non afferma di essere keynesiano, cioè per il liberalismo a piú diretto intervento statuale?) , non è azzardato prevedere fin da adesso gli esiti per il Pd (o «la ditta», come dice Bersani): il partito viene immolato dal suo capo e dai suoi dirigenti ed esponenti sull’altare degli imperativi ed esigenze pro “sistema”. Ma precisamente questa è la sua funzione, ed è già stato cosí per Forza Italia, ed è stato, ed è, cosí per altri partiti in altri paesi europei: svolgono il loro ruolo, subiscono l’erosione dovuta alle contraddizioni con la popolazione subalterna, che è la grossa parte della popolazione stessa, né, anche se vogliono, sono in grado di risolvere queste contraddizioni, ma solo di determinarle, e si apre la via alla loro sostituzione – da altri capi, dirigenti e forze.

Da parte sua, la destra ci riprova a porsi come forza sostitutiva, ma vi grava l’indicato problema irrisolto di quale linea seguire. E il M5S afferma “siamo pronti a governare”, cioè si propone apertamente e coscientemente come forza di sostituzione: se ne vedranno in particolare le prove a Roma – che è piú di una grande città colma di un intrico di difficoltà, e ancora piú della capitale della Repubblica: per dimensioni è pari a uno Stato come, per esempio, la Danimarca , ma si può dar per certo che i 5S non continueranno nell’indecenza che c’è stata finora; tuttavia, le aspettative popolari sono pressanti e le delusioni possono essere rapide. E cosí si vedrà a Torino, dove i problemi non sono pochi, e poi c’è la questione del Tav e del movimento No Tav, che ha già espresso forti aspettative … A ogni modo, è ben determinata la preparazione per il governo nazionale che pervade il movimento, peraltro già piuttosto partitico, con il suo direttorio e parlamentari ed esponenti, chiamati in tv, ecc.

Tuttavia, su tutti rimane il peso del nodo indicato, anche su coloro che, come i 5S, sono sicuri di risolvere le cose con alcuni provvedimenti, fra cui quello per loro centrale, il «reddito di cittadinanza» – non risulta però un discorso preciso sull’indecenza del massacro delle pensioni e dilatazione assurda dell’età pensionabile , nonché il sostegno a piccole e medie imprese – non risulta però un discorso preciso e deciso sul sistema produttivo nel suo complesso, né una linea netta sui rapporti con gli Usa e con l’Ue (ma sul programma e l’azione del M5S si tornerà in altra occasione). E il “nodo” è come e quanto, e fino a quando, la contemperazione degli imperativi ed esigenze del “sistema” con i lavoratori e le classi popolari – contemperazione che, per forza di cose, li lascia subalterni – possa funzionare e procedere – e quindi qui si situa la possibile trasformazione e/o erosione anche del movimento. A ogni modo, l’ambasciatore statunitense a Roma ha già espresso il suo parere di “credibilità” al M5S, che viene tenuto d’occhio fin dal 2008 (pur rilevando che restano da sciogliere le questioni della contrarietà alla Nato, al Ttip, alle «missioni militari», ecc.: ma, certo, si vedrà meglio in proposito, con la futura nuova «amministrazione» Usa).

Comunque sia, concludendo, da adesso si prospetta la caduta di Renzi & Co. e del Pd renziano, ed è qualcosa di positivo per il nostro paese e la nostra popolazione. Quanto ne seguirà è incerto – “qual è l’alternativa?” hanno ripetuto a lungo media e babbei, con aria scioccamente pensosa: se si ha una gamba rotta l’alternativa è, intanto, di steccarla. Quanto ne seguirà è incerto, e, si voglia o no, grava il nodo di fondo che si è delineato: ma almeno le prospettive si concentrano via via sul M5S, che almeno è “altro” dal sistema partitico dato e vigente, e che almeno non è, almeno attualmente, intrecciato con l’oligarchia dominante, ma almeno si afferma di centrarsi sulle esigenze di “fare qualcosa”, in qualche misura, per le classi popolari. Ma almeno si rimettono comunque in moto i giochi – in cui c’è qualche possibilità di operare, in primo luogo cominciando dal capire e cercare di far capire qual è il nodo di fondo, che è necessario affrontare.