di Rino Genovese
In un commento posto in appendice al vecchio libro di Norberto Bobbio su destra e sinistra, riedito in questi giorni da Donzelli, Matteo Renzi suppone (sempre che sia proprio lui a scrivere e non un “negro” trovato alla Leopolda, magari di nome Baracco, Barocco o qualcosa di simile) che la distinzione eguaglianza/diseguaglianza, posta dal filosofo torinese a fondamento della dicotomia tra progresso e conservazione, non abbia più molto senso. Così un’intera storia, che dalla Rivoluzione francese arriva fino a tutto il Novecento, risulta archiviata. Alla base c’è l’idea – di per sé non falsa – che non si diano più i nitidi blocchi sociali che hanno caratterizzato la storia europea novecentesca: questi si sarebbero dissolti per la (solita) globalizzazione economica e anche per l’azione del welfare e delle socialdemocrazie, che avrebbero contribuito in maniera determinante a sgretolarli nella direzione di un diffuso individualismo. La conseguenza è che, a sinistra, ci si può congedare dal vecchio valore dell’eguaglianza (non parliamo dell’egalitarismo) per affidarsi semplicemente a quello dell’innovazione… Già , ma dell’innovazione in che senso?
Come ha notato di recente anche Jürgen Habermas, la semantica del termine “riforma” negli ultimi decenni è mutata. Il suo significato si riferisce per lo più a delle vere e proprie controriforme – in genere nel mercato del lavoro – che aprono a più flessibilità , più precarietà (anche se questo aspetto è spesso sottaciuto) e più liberismo. Renzi ha pronta la parola: meritocrazia. In effetti può esserci la più grande innovazione che lasci i figli di papà più meritocraticamente predisposti a un destino che disegualitariamente li distacchi dai figli, poniamo, degli immigrati o da quelli rimasti orfani e privi di mezzi. Lo slogan della “meritocrazia”, che comunque reca in sé un implicito contenuto carrieristico e tecnoburocratico, se coniugato soltanto con una presunta “innovazione”, sganciata dal valore dell’eguaglianza storicamente rivendicato da qualsiasi sinistra (non credo sia il caso di sottolineare come la differenza tra la posizione democratica e quella socialista non nasca tanto intorno al concetto di eguaglianza, centrale per entrambe, quanto sul modo in cui intenderlo e realizzarlo), finisce con il riprodurre i privilegi del non-merito. Per esempio la Confindustria insiste, e non da oggi, sull’abolizione del valore legale della laurea. Anche da un punto di vista ristrettamente meritocratico, ciò significherebbe privare del loro “merito” i figli di operai o di artigiani che, sfidando il destino, si sono dedicati a lunghi anni di studi per ottenere una promozione sociale, nel mondo attuale peraltro sempre più difficile. Ecco il caso di una “innovazione” che – perfino nel senso meritocratico – non raggiungerebbe l’obiettivo e aumenterebbe le diseguaglianze. In una società in cui queste restano ancora largamente “di nascita”, solo un riequilibratore egalitario (ma va! usiamo la parola…), come le borse di studio distribuite in funzione del reddito della famiglia di provenienza, sarebbe (anche) uno strumento meritocratico.
E tuttavia il punto non è qui. Presentandosi come un “innovatore” (cosa che in concreto ha poi dimostrato di non essere…), Renzi ha in mente una cosa molto precisa, diciamo quel liberalismo dal volto umano (con l’eccezione della guerra in Iraq, naturalmente) interpretato alcuni anni fa da Tony Blair. Il suo programma, che pure aveva un riferimento nel vecchio Labour (e cioè in una tradizione riformatrice che Renzi si sogna), oggi mostrerebbe la corda. Diciamo la cosa semplicemente: nella crisi europea attuale non c’è trippa per gatti. Altro che nuovo individualismo! Non soltanto i blocchi sociali si sono sgretolati, grazie al welfare, stanno per sgretolarsi anche gli individui sotto le ristrettezze imposte dalle politiche di austerità . Per cercare di modificare questo dato, non serve buttare via la categoria dell’eguaglianza considerandola superata. Al contrario, la si dovrebbe piuttosto rilanciare su nuove basi – connettendola magari con il valore delle differenze anche in senso culturale, un aspetto con cui il vecchio socialismo, spesso perversamente intrecciato con il colonialismo europeo, non seppe misurarsi –, aprendo non certo la corsa alla competizione (intorno a quale osso spolpato?) ma alla prospettiva di un individualismo sociale.