1. La vecchia critica della statualità propria di un certo pensiero marxiano e radical-libertario del Novecento non ha in gran parte più senso nell’evo della globalizzazione dei grandi oligopoli del capitale transnazionale in assetto di guerra permanente.

Nella fase di disgregazione culturale, politica, economica e sociale in cui siamo immersi lo Stato nazionale e in special modo i suoi territori, in primis le autonomie locali, sono il luogo della convivenza civile reale tra le persone e tra queste e gli enti locali di riferimento, dove la democrazia è il modo in cui si vive la vita di ogni giorno. Non appare pertanto praticabile né opportuno scindere in locali e nazionali le diverse, e talvolta eroiche, istanze aspiranti alla ripubblicizzazione di molte attività, funzioni, beni che sono germogliati in alcuni Stati e territori, tra cui il nostro paese.

La scelta di fondo comune alle diverse istanze, più o meno esplicita, è quella per il rilancio del pubblico in tutte le sue articolazioni e declinazioni (statuale, locale, non statuale-sociale) in luogo dell’onnipervasivo privato, unico totem del liberal-capitalismo che si impone dall’alto del sovrastatuale fin nei più piccoli villaggi periferici: dopodiché è giusto verificare, volta per volta, quale sia la dimensione soggettiva e territoriale ottimale al fine di tutelare e valorizzare il bene della vita in questione (per esempio acqua, beni pubblici-comuni, lavoro, ambiente, energia, infrastrutture, opere pubbliche).

Si tratta, in sostanza, di porre in essere una strategia consapevole di difesa e rilancio della sovranità popolare e delle prerogative democratico-sociali all’interno degli Stati nazionali (lo Stato sociale di diritto, o lo Stato pluriclasse con una significativa tutela del lavoro secondo Costantino Mortati).

Il concetto di sovranità in generale, e nel nostro caso quello storicamente e concettualmente determinato dalla Costituzione all’art.1 quale fondamento dello Stato democratico, è da tempo preso di mira, svilito, trasformato e delegittimato nei fatti e persino nell’uso comune dal cosmopolitismo liberal-capitalistico sovranazionale (Ue-Commissione, Bce, e altri trattati a latere), e dagli organismi atlantici e internazionali di comando, formali e non (Nato-Otan, Fondo monetario internazionale, Agenzie di rating, G-7, Wto, World Economic Forum di Davos, ecc.), arrivando a torcerlo in un neologismo privo di ogni significato filosofico e politico-giuridico come “sovranismo”[1]. Questa parola è divenuta la più grande accusa mossa contro gli avversari politici, in un duello semantico senza fine con l’altra parola sotto scacco per eccellenza, “populismo”, che senza tante sofisticate distinzioni denota l’antico e radicato disprezzo per il popolo di “aristocratici”, oligarchi vecchi e nuovi, élites.

2. Agli albori della nostra repubblica e poi negli anni settanta del secolo scorso, dinanzi all’offensiva pseudofederalistica montante di stampo liberal-capitalistico a favore delle Comunità e Unioni europee, progetti entrambi estranei alla cultura della sinistra socialista e comunista, italiana ed europea, fu Lelio Basso che si assunse più volte il compito di chiarire – lui padre costituente ed estensore della norma più impegnativa e avanzata della Costituzione, l’art.3 secondo comma – la differenza che intercorre tra la sovranità popolare e nazionale, e quell’ideologia cosmopolitica liberale che sta alla base delle suddette istituzioni “europee” e internazionali:

Ed ecco che noi assistiamo a questo punto al passaggio improvviso di quelle borghesie occidentali dal vecchio esasperato nazionalismo ad un’ondata di cosmopolitismo. Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste “unioni europee” e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale. L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera[2].

La democrazia del “suffragio universale” e delle conquiste sociali con al centro il Parlamento, eletto con leggi elettorali proporzionali, è stato il miglior prodotto delle lotte sociali e di classe iniziate nel XIX secolo, realizzatesi con più compiutezza nell’immediato secondo dopoguerra del Novecento con la loro consacrazione, esplicita o implicita, nelle costituzioni democratico-sociali. Quel poco che rimane di pubblico è nello Stato nazionale e nelle autonomie locali, costrette, soprattutto queste ultime, a uno sforzo di resistenza senza pari per cercare di dare risposte di sopravvivenza e dignità sociale a sempre maggiori strati di cittadini e piccole soggettività collettive (gli sfrattati, i disoccupati: il caso GKN è paradigmatico). Tutto quanto viene dall’alto, in specie dalla cosiddetta Unione europea e da altri trattati internazionali a essa collegati e vicini: prevalentemente una miriade di azioni politiche economiche e finanziarie, volute dal grande capitale transnazionale degli oligopoli privati (fondi di investimento, grandi multinazionali, agenzie di rating, banche d’affari, imprese degli armamenti, grandi imprese della comunicazione e tecnologiche dell’ultimo trentennio). Questi oligopoli stanno minando ormai da molto tempo, con l’ausilio della normativa tecnocratica ordoliberale Ue (principi inderogabili di concorrenza, divieto di aiuti di Stato per via normativa) l’autonoma capacità d’azione degli Stati e del pubblico nel suo insieme, in favore dell’economia nazionale e soprattutto delle classi popolari e dei territori. Il risultato è il progressivo soffocamento di questi ultimi con il ricatto politico-finanziario dello spread messo in atto dai mercati e dalle agenzie private di rating, con un riverbero mortale sui territori attraverso le delocalizzazioni.

3. Nel 1973 Lelio Basso, nel fare un bilancio del quasi ventennio dall’istituzione delle Comunità europee, anche in relazione alla “utopia federalista” contenuta nel Manifesto di Ventotene, prese una posizione articolata fatta di una generale apertura verso il superamento della dimensione nazionale, ponendo però delle precise e indefettibili condizioni. Sostiene Basso: «Una battaglia politica per il superamento del nazionalismo, delle nazionalità degli Stati nazionali, nel tentativo di costruire un’Europa federale, mi trova totalmente consenziente. Non mi trova invece consenziente il problema della priorità di questa battaglia su tutte le altre».

Non è condivisibile per Basso che nel Manifesto si dica: «Lasciamo andare la battaglia entro i confini nazionali per la democrazia e per il socialismo e poniamo come compito prioritario quello del federalismo». Per riaffermare che «prima di procedere verso uno Stato federale di qualsiasi genere bisogna garantire che nei paesi ci sia un livello di effettiva democrazia simile». Un “tessuto omogeneo” con il suo «elemento fondamentale che consiste nel rapporto tra cittadino e stato». Per questo «la battaglia per la democrazia nei singoli paesi [deve] essere prioritaria rispetto ai fini federalisti».

Basso ripercorre il dibattito politico e parlamentare sulla Comunità europea di cui al trattato di Roma precisando la sua posizione: «Non d’accordo con il no (dei comunisti e di parte dei socialisti) perché consideravamo che nel fatto di superare gli Stati nazionali, nel creare il principio di Comunità c’era, almeno in embrione, un elemento di possibile futura sopranazionalità. Si trattava d’un aspetto positivo in se stesso, politicamente ed economicamente. Ma la strumentazione dei Trattati, il modo come veniva realizzata la Comunità, la fondamentale antidemocrazia di tutta la struttura istituzionale della Comunità ci trovava totalmente all’opposizione. Dicevamo sì al fatto che si andava al di là dei confini nazionali; dicevamo no al modo come i Trattati di Roma avevano organizzato questa nuova istituzione». E poi il padre costituente finisce con una critica molto puntuale della Comunità europea di allora (Cee) e del rapporto da subito instauratosi con il nostro Stato, che già nei suoi primi anni di vita presenta tutta la sua antidemocraticità:

Quando arrivano al Parlamento i “regolamenti comunitari” e ci si dice “sono obbligatori” perché così prevede il Trattato di Roma, io reagisco. A questo proposito ho fatto una lunga battaglia, mi pare nella legislatura passata. Sono riuscito, per tre anni, a tenere in scacco il governo sulla richiesta di delega per approvare questi “regolamenti comunitari”, con provvedimento delegato. La mia battaglia non era contro il contenuto dei “regolamenti comunitari”, ma voleva sottolineare un aspetto costituzionale. Posi allora, e non solo io, ponemmo in parecchi – naturalmente fummo messi in minoranza – il problema della validità di questa norma del Trattato, perché, secondo la nostra Costituzione, le leggi vengono approvate dal Parlamento: non ci può essere una legge, senza approvazione del Parlamento. Quando si dice che un certo Trattato ha delegato a un’Autorità comunitaria la facoltà di emanare provvedimenti obbligatori, diciamo che quel Trattato doveva essere ratificato con legge costituzionale, perché era una modifica della Costituzione. Senza legge costituzionale, a nostro avviso, quei Trattati, almeno per quel che si riferisce alla legge di ratifica, almeno per quanto riguarda quella disposizione, non potevano essere validi. Il Parlamento non può essere spogliato della decisione. Naturalmente chi ha sostenuto questa tesi ha avuto torto. Dopo tre anni di battaglia sono state approvate quelle norme comunitarie che noi avevamo tenute ferme. Però io continuo a considerare che qui quello che conta non è che l’Italia viene spogliata della sovranità nazionale, ma viene spogliata della sovranità popolare, democratica, perché noi abbiamo degli organi, come la Commissione comunitaria o degli organi puramente di potere esecutivo, come il Consiglio dei ministri, che approvano le disposizioni di legge, non avendone il potere, secondo la nostra Costituzione[3].

Lelio Basso è morto nel dicembre del 1978. Non ha fatto in tempo a vedere l’evoluzione ulteriormente tecnocratica e antidemocratica degli organismi Ue, attraverso norme e fatti che si applicano direttamente all’interno dell’ordinamento costituzionale saltando a piè pari la Costituzione e le leggi che a essa dovrebbero conformarsi: un rovesciamento di sistema che ha finito per sostituire lo stesso concetto di diritto, passando dalla Costituzione democratico-sociale del 1947 alla Global economic governance ovvero il liberalismo dispiegato degli organismi internazionali (in sintesi, la costituzione materiale di Davos).

4. Luciano Canfora, in un libricino recente dal titolo eloquente La democrazia dei signori, ricorda come storicamente sia stato faticoso il percorso per arrivare al suffragio universale, anche per la persistenza di una plurisecolare avversione verso il popolo da parte di correnti di pensiero tutt’altro che trascurabili (da Platone a Tocqueville). E poi aggiunge rivolgendosi agli odierni democratici, i quali mostrano fastidio se non repugnanza verso il dettame d’avvio della nostra Costituzione «la sovranità appartiene al popolo»:

Ma una tale tradizione [quella dei Platone, Tocqueville] discutibile quanto si voglia, aveva la limpidezza di non mascherarsi, di parlar chiaro e senza funambolismi lessicali: diversamente dagli odierni democratici, fustigatori di ciò che nebulosamente bollano come “populismo” non avendo l’onestà di interrogarsi sul nesso tra le proprie scelte e il conseguente successo del torbido fenomeno, snobisticamente definito “populista” , che da anni ormai li tiene in scacco[4].

L’ideologia che è alla base della patria liberale egemone, gli Stati Uniti d’America, ha un suo mito fondativo nella religione cristiana di stampo protestante calvinista, particolarmente usato e abusato a partire dall’Amministrazione Bush, agli inizi degli anni duemila, in cui tale ideologia complessiva è stata “rinnovata” dal neo-conservatorismo Usa, a cui fece riferimento Edward W Said, poco prima di morire, al tempo della criminale invasione statunitense e occidentale dell’Iraq. Questo celato quanto odioso substrato culturale del decadente impero americano lo ritroviamo tutto quanto all’opera oggi nella guerra Usa+Ue verso la Russia in Ucraina, con grancasse mediatiche spaventose che lo sommano all’ostacolo rappresentato da Cina, Russia e Brics: un vero e proprio limite strutturale nella espansione illimitata dell’egemonia economica statunitense, che appare al momento senza via di uscita se non tramite una guerra ad ampio raggio.

Secondo alcuni,

la cultura elaborata negli ultimi tre secoli in Occidente è qualcosa di assai caratteristico. Si tratta di un approccio culturale universalistico, astorico, naturalistico, che – anche grazie ai successi ottenuti sul piano tecnoscientifico – ha finito per autointerpretarsi come Ultima Verità, sul piano epistemico, politico ed esistenziale. La cultura occidentale, che ha conquistato il mondo non per le capacità persuasive delle proprie virtù morali, ma per quelle dei propri obici, ha però immaginato che una cultura capace di costruire obici così efficienti non poteva che essere intrinsecamente Vera. L’universalismo naturalistico ci ha disabituato a valutare le differenze storiche e culturali, assumendone il carattere contingente, di mero pregiudizio che verrà superato. Quest’impostazione culturale ha creato un danno devastante, che ha coinciso in Europa con la galoppante americanizzazione delle proprie grandi tradizioni: l’Occidente, divenuto il sistema di vassallaggio del potere americano, appare oggi culturalmente del tutto incapace di comprendere il proprio carattere di determinazione storica, non serenamente universalizzabile. L’Occidente, pensandosi come incarnazione del Vero (la Liberaldemocrazia, i Diritti Umani, la Scienza) non ha dunque gli strumenti culturali per pensare che un altro mondo (e anzi più d’uno) sia possibile[5].

5. Ritornando allo Stato nazionale, la cornice macropolitica “poco rassicurante” tratteggiata sopra ha un diretto riverbero con ciò che avviene nei nostri territori e nelle nostre vite. Molecolarmente si fanno avanti lotte e insorgenze che in altri tempi avrebbero camminato su spalle più solide e rassicuranti, ma che oggi debbono contare sulle sole energie delle persone e dei lavoratori toccati dalle delocalizzazioni, dai licenziamenti, dai bassi salari e dal deturpamento dell’ambiente, a cui si affianca la sola solidarietà attiva e intermittente del sindacato, dell’associazionismo, dei gruppi informali. Il continuo farsi e proporsi di istanze di partecipazione che negli ultimi vent’anni hanno catturato l’interesse delle comunità locali, sia come metodo di governo dei territori, sia come valore in sé, insieme al tema dell’amministrazione condivisa e dei beni comuni, rappresenta la conseguenza degli enormi vuoti lasciati dalla miopia della politica nazionale, soprattutto sul piano della programmazione-pianificazione democratica: ciò, essenzialmente, per l’asservimento a principi e valori “altri” rispetto a quelli costituzionali (mercato, competizione) e per la crisi e trasformazione dei partiti popolari di massa.

Il venir meno della rappresentanza popolare di classe dei cittadini e dei lavoratori ha condannato questi soggetti all’isolamento, all’individualismo di tutti e di ciascuno, andando così a minare quel tanto di omogeneità sociale raggiunta con l’azione riformatrice voluta e attuata sotto la spinta dei partiti di sinistra negli anni sessanta e settanta del Novecento. Il sorgere spontaneo di nuove forme di partecipazione, avulse, e altre, da quelle tradizionali, legate ai rapporti di classe, è prima di tutto una reazione dolorosa al disagio sociale, economico e politico, fors’anche esistenziale, di larghissimi strati di cittadini-lavoratori ai quali, nel frattempo, si è taglieggiata a più riprese non soltanto la sicurezza economica e sociale, ma anche il diritto di voto: restrizione progressiva data dal combinato disposto della trasformazione dei partiti in strutture leggere e in comitati elettorali, dalle leggi elettorali maggioritarie e antidemocratiche perché contrarie all’uguaglianza del voto, e dalla trasformazione del Parlamento in organo ancillare dell’Esecutivo e dei poteri finanziari mondiali.

Nel nostro paese si è poi realizzata una particolare e sciagurata forma anomala di governo, che taluni – come Luciano Canfora – hanno giustamente definito «governo del presidente»: formula caratterizzata dall’esorbitante influenza assunta dal capo dello Stato, ben oltre quanto gli attribuisca la Costituzione sulla nascita e la morte dei vari governi e nell’individuazione delle personalità deputate ad assumere la carica di presidente del Consiglio e finanche di ministro, spesso al di fuori del circuito politico-rappresentativo e piuttosto espressione delle “istituzioni” (oligarchie?) finanziarie sovranazionali. Basti ricordare che dal 1993 a oggi si sono avuti quattro governi “tecnici” (Ciampi, Dini, Monti e Draghi) e molti altri sotto mentite spoglie, tutti caratterizzati da un rigidissimo “vincolo esterno” in politica economica ed estera (guerra).

Queste plurime torsioni antidemocratiche hanno realizzato, in circa un trentennio, l’evaporazione del suffragio universale, che per il movimento dei lavoratori aveva rappresentato, nell’arco di un secolo di lotte durissime, il primo connotato sostanziale della democrazia da costruire.

La democrazia liberale, oltre ai diritti sociali ed economici, si è mangiata anche la “democrazia del suffragio”, cioè la democrazia politica. I temi della partecipazione, specie se agitati dagli organi politici di vertice, finiscono per essere retoriche demagogiche, e forse – per qualcuno – il rimorso di una distruzione senza fine.

6. Ci troviamo nuovamente in un tornante delicato della storia, a un bivio analogo a quello che sta all’origine della modernità, durante la Rivoluzione francese. Allora il liberalismo dei moderati prevalse sulla democrazia radicale dei giacobini. I fatti successivi, in cui le restaurazioni, gli arretramenti e le ingiustizie si sono costantemente affiancati agli avanzamenti e alle conquiste delle masse, continuano a dimostrarci la difficoltà enorme che presiede all’inveramento di una società di liberi e uguali. A ulteriore conferma di ciò, sta la rimozione – se non vera e propria damnatio memoriae – che il pensiero politico e giuridico dominante degli ultimi quarant’anni ha praticato nei confronti della concezione democratica giacobina di Robespierre, Saint-Just e discepoli. Quella concezione era confluita nella Costituzione francese del 1793 e poi nella Costituzione partenopea del 1799, grazie principalmente all’opera di Mario Pagano: ma questi testi non vengono mai citati nei troppi manuali ridondanti del solo pensiero liberale, salvo le poche citazioni da parte di autori più avvertiti, una sparuta minoranza.

Quelle costituzioni avevano il pregio (un gravissimo difetto agli occhi del potere liberale) di prevedere diritti sociali e di riservare l’esercizio del potere ai più anziché ai meno. Ciò fa il pari, soltanto, con il trattamento riservato dalle democrazie liberali, nello stesso quarantennio, alla critica socialista della “democrazia” liberal-capitalista.

Tuttavia, non possiamo esimerci dal proporre alcune vie d’uscita:

il rilancio del ruolo del pubblico a tutti i livelli, in particolare delle autonomie locali, più vicine alle istanze dei cittadini;

la costituzione di un partito-movimento politico che sia fondato su una larga partecipazione e che assuma le seguenti stelle polari: a) critica dell’economia politica capitalistica, all’interna della quale assumere la questione ambientale quella di genere; b) rilancio della programmazione-pianificazione economica democratica in consonanza con la Costituzione economica  e con le migliori esperienze democratiche e socialiste, e in netta opposizione con la c.d. programmazione del Pnrr, tutt’altro che democratica sin dalla sua genesi e anzi ulteriormente mortificante per le capacità e i bisogni reali degli enti locali; c) critica della ragion democratica e lotta per il ripristino dei poteri del parlamento e delle autonomie e assemblee locali, ben oltre il decentramento amministrativo; d) adozione di leggi elettorali proporzionali a tutti i livelli territoriali; e) intrapresa di percorsi politici di autonomia-uscita dai trattati internazionali che perseguono nei fatti la guerra e decrescita delle spese militari e per armamenti; f) politica di distensione che favorisca il multipolarismo.

È su questo crinale impervio e per nulla accomodante che si gioca il futuro della democrazia, dei popoli, delle persone.


[1] Si rinvia a Geminello Preterossi, «Sovranità non sovranismo», introduzione a Dieter Grimm, Sovranità. Origine e futuro di un concetto chiave, Roma-Bari, Laterza, 2023.

[2] Lelio Basso, deputato Psiup, intervento alla Camera dei deputati, 1949.

[3] Lelio Basso, Consensi e riserve sul federalismo, intervento giugno 1973, www.leliobasso.it.

[4] Luciano Canfora, La democrazia dei signori, Roma-Bari, Laterza, 2022, pp. X-XI.

[5] Andrea Zhok, 24 Maggio 2024, pagina fb.