Come (e, dunque, per responsabilità di chi) siamo arrivati a questo punto? E cosa succederà ora? Sono queste le due domande più ricorrenti all’indomani della caduta del governo di Mario Draghi.

La risposta alla prima domanda dipende da quanto è lunga la sequenza che vogliamo considerare. La stampa mainstream italiana, con la solita servile miopia, guarda solo agli ultimi giorni: e dunque la spiegazione della fine del governo del Banchiere viene addebitata al “tradimento” della Destra di Berlusconi e Salvini, cui l’“ingenuità di Conte” avrebbe fornito un’occasione. Se la focale si allarga appena un poco, appare evidente che la scissione di Di Maio (ovviamente benedetta, se non ordita, assai più in alto) è la vera causa scatenante dell’epilogo. Ma se la domanda è davvero “come siamo arrivati a questo punto”, non si può non includere nel ragionamento la nascita del governo dei Migliori, e subito prima la congiura saudita che eliminò il Conte 2, un governo che – se non fosse stato atterrato in modi che rasentano i limiti dell’ordinamento costituzionale – sarebbe probabilmente ancora in carica.

Ma siamo comunque ancora alla politica spiegata con ciò che succede sul pelo dell’acqua: ponendo, invece, il discorso a un livello più profondo – con l’ambizione di avvicinarsi almeno un poco allo sguardo che avranno gli storici di questo nostro periodo – bisogna partire dal dato più apparentemente sorprendente, e cioè dall’evidente “fuga” dello stesso Draghi, che nelle ultime ore della crisi ha fatto e detto tutto ciò che poteva determinare e accelerare la sua stessa caduta (per esempio intestardendosi a porre la questione di fiducia sull’inceneritore di Roma…). Anche qua, alcune spiegazioni possono essere sostanzialmente giuste, ma superficiali (è, per esempio, evidente che dopo la mancata elezione al Quirinale, Draghi cercava l’occasione per sfilarsi), ma ve ne sono altre strutturali e sostanziali. E qua si arriva al punto: i recentissimi rapporti Istat e Inps consegnano un’immagine del Paese drammatica – radicalmente inconciliabile con la retorica del Draghi messia taumaturgo grottescamente invocato nell’imminenza della caduta. Un paese povero e ingiusto, precario e senza diritto allo studio: prossimo ad una inevitabile tempesta sociale. Se allarghiamo lo sguardo, la Nato prepara una lunga stagione di guerra – fredda o calda lo vedremo – tra l’Occidente e il resto del mondo, Cina in testa. E, guardando all’intero pianeta anche solo dai marciapiedi roventi delle nostre città, appare chiaro che la crisi ambientale (che diventa subito crisi migratoria) è al punto di non ritorno. E allora la domanda è: davvero un Draghi (ma questo vale per la grandissima parte di coloro che hanno circa la sua età, e che hanno avuto responsabilità importanti come le sue) ha gli strumenti cognitivi e culturali, prima ancora che politici, per governare questa fase drammatica? In altre, più crude, parole, pensiamo seriamente che chi ha determinato il problema – chi ancora parla, come Draghi, di «imperativo assoluto della crescita» – possa anche costruire le soluzioni? Il pensiero di Draghi, per formazione ed età, è tutto dentro il paradigma dell’ordine presente: anzi, egli ha costruito la sua intera carriera, fino alla presidenza del Consiglio e (nei suoi piani) a quella della Repubblica, come autorevole garante dello stato attuale delle cose. È questa la ragione per cui, questa volta, non riesco francamente a comprendere le posizioni di Maurizio Landini e Matteo Zuppi, con i quali assai spesso, invece, mi sono sentito in sintonia. Non credo affatto che i sindacati fossero sul punto di avere in Draghi un interlocutore disposto a compiere inediti passi decisivi in direzione di un minimo di giustizia sociale: come si è visto in mille occasioni, la sua linea era l’opposta – dallo smontaggio del decreto dignità alla limitazione del reddito di cittadinanza, e soprattutto alla pessima e strutturale riforma fiscale, tutta concepita dalla parte dei ricchi e contro ogni idea di redistribuzione della ricchezza. Né penso che i poveri, i sommersi, gli ultimi avrebbero avuto alcun vantaggio dalla durata di questo governo dell’oligarchia: che ha visto aumentare, durante la sua durata, povertà, diseguaglianza, esclusione sociale, politica securitaria contro i migranti (i più poveri tra i poveri, torturati a nostre spese nelle carceri libiche celebrate da Draghi).

Ma, ora, cosa succederà, ci si chiede. Vincerà l’estrema destra, avremo un governo Meloni, e cioè un governo di matrice fascista? È ben possibile che questo avvenga. Tuttavia, è profondamente disonesto non dire che sarebbe stato altrettanto possibile (forse anche di più) se si fosse votato a fine legislatura, in primavera. Non sarebbero certo stati pochi mesi in più, con Fratelli d’Italia come unica opposizione, a escludere questa possibilità. Anzi.

È poi particolarmente irritante vedere i grandi giornali italiani scoprire improvvisamente il pericolo nero: sono gli stessi che l’hanno in ogni modo minimizzato, che hanno sdoganato l’ex ministra di Berlusconi come “lucida leader politica”, che ne hanno pubblicato ossessivamente la pubblicità al libro-manifesto. Gli stessi giornali che hanno difeso a oltranza il revisionismo di Stato che ha devastato il calendario civile nato dalla Resistenza. Ma, soprattutto, quel che appare una inaccettabile falsificazione è che la caduta di Draghi apra la porta alla Meloni. Quella porta è stata spalancata, da anni, dall’assenza di una qualunque sinistra, dall’abbandono sistematico del progetto costituzionale. Ci è stato detto che bisognava fare politiche di destra – destra economica e destra securitaria – per fermare la destra: una dissennata omeopatia che si è risolta invece in una mitridatizzazione, cioè in un lento e costante spostamento a destra di tutto il quadro politico – e, cosa più grave ancora, del senso comune del Paese. La sintesi migliore è la battuta che il Marco Minniti impersonato da Maurizio Crozza ripeteva ossessivamente: «Non possiamo lasciare il fascismo ai fascisti!». Il governo Draghi è l’apice – provvisorio? – di quel totale asservimento delle ragioni della politica alle ragioni del sistema economico e finanziario che predica e pratica l’assenza di alternative. Nel sostenerlo, la cosiddetta “sinistra” non ha fatto che continuare la strada da tempo imboccata. Dopo trent’anni di resa, quella sinistra (“di governo”, “istituzionale”, “a vocazione maggioritaria”…) ormai non solo agisce, ma pensa come una destra: ed è proprio così che siamo arrivati all’egemonia culturale della destra estrema.

Ora, proclamare che l’agenda Draghi (cioè l’agenda del mantenimento dello stato delle cose, imperniata su un PNRR che non genera un grammo di giustizia sociale ma invece aumenta ancora precariato e diseguaglianza) sarà il programma elettorale di questa cosiddetta “sinistra” significa dire a quella metà del Paese che non vota, che può tranquillamente continuare a non votare. Ed è chiaro che se i conti si fanno nella metà attuale dei votanti, il rischio del prevalere della destra è notevole: e le conseguenze (grazie al dissennato taglio dei parlamentari e all’invarianza della pessima legge elettorale) minacciano di travolgere la stessa Costituzione del 1948. Ma la “colpa” non è di chi ha fatto cadere Draghi, la colpa è di chi non è mai stato in grado di contrastare la destra facendo la sinistra. Come non si prepara la pace preparando la guerra, così non si ferma la destra facendo la destra: se vuoi la sinistra, costruisci la sinistra. Ma in Italia non l’abbiamo fatto: anzi, l’abbiamo sistematicamente annientata da Veltroni a Letta, passando per Renzi.

Se vogliamo che la sinistra che non c’è possa esserci – se vogliamo trovare la forza per ricostruirla – è urgente dirci cosa deve essere. Cosa vogliamo, e cosa non vogliamo. Bisogna capire fino in fondo che una sinistra è tale solo se contesta alla radice – cioè appunto in modo radicale – la dittatura del mercato, l’abisso delle diseguaglianze, lo svuotamento della democrazia (ivi incluso il paternalismo dei governi calati dall’alto). Se invece continua a ripetere che a tutto questo There Is No Alternative, allora non è una sinistra. Con un socialdemocratico come Tony Judt, dobbiamo riconoscere che «c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di vivere, oggi. Per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale: anzi, ormai questo è l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane. Sappiamo quanto costano le cose, ma non quanto valgono. Non ci chiediamo più, di una sentenza di tribunale o di una legge, se sia buona, se sia equa, se sia corretta, se contribuirà a rendere migliore la società, o il mondo. Erano queste un tempo le domande politiche per eccellenza, anche se non era facile dare una risposta: dobbiamo reimparare a porci queste domande. Dobbiamo sottoporre a critica radicale l’ammirazione per mercati liberi da lacci e laccioli, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione di una crescita senza fine. Non possiamo continuare a vivere così». Ebbene, la via maestra per non continuare così, è pensare il conflitto sociale: esattamente quello che le scelte di Mattarella e la presenza di Draghi hanno scientemente congelato e rimosso.

La destra di matrice fascista che fomenta la guerra tra poveri bianchi e poveri neri si batte solo costruendo il conflitto tra poveri e ricchi. Tra sommersi e salvati. Tra schiavi e padroni. Tra oppressi e oppressori. Un conflitto incruento, quanto intenso: un conflitto locale, nazionale, europeo, globale. Ad ogni tornante di questa infinita discesa agli inferi, ci chiediamo se siamo giunti in fondo, se potremo ricominciare a risalire: se non ora, quando?

L’articolo è pubblicato anche su Volere la luna