Universalismodi Rino Genovese

La caratteristica del mondo contemporaneo non sta nella sua sussunzione sotto un unico principio di dominio – che lo si chiami “forma merce”, “astrazione monetaria”, “capitale finanziario” etc. – ma nella pluralità delle forme di potere: cosicché si deve parlare di una indecidibilità dei punti d’attacco delle risposte possibili da parte degli oppressi, che fino a una trentina d’anni fa potevano ancora ritenere, dalla Cina all’Angola passando per i movimenti di opposizione nei paesi occidentali, di essere parte di un’unica lotta a molte facce contro l’imperialismo. L’emergere delle culture, il ritorno alle identità collettive inventate o reinventate, non è un effetto di trompe-l’Å“il. Al contrario, è il segno della crisi irreversibile di un modello di lettura del mondo sostanzialmente economicistico, in quanto tale subalterno, nell’uso degli strumenti analitici, a quel capitale globalizzato che vorrebbe denunciare. I massimi esaltatori del capitalismo sono oggi proprio i critici affascinati dalla sua pura potenza.

Ma il capitalismo resterebbe del tutto astratto, non potrebbe incarnarsi in alcuna situazione concreta, se le culture “altre” non lo avessero ibridato, dando vita a un impasto né moderno né occidentale, in cui si ritrovano le antiche tradizioni orientali, una dittatura veterocomunista come quella cinese, il regime nazional-populista postsovietico, le monarchie assolute del mondo arabo, una repubblica islamica come quella iraniana sciita: il che rende le democrazie occidentali tendenzialmente minoritarie (specialmente se si pensa al sorpasso, in via di realizzazione, della Cina sugli Stati Uniti). Nella generale ibridazione è avvenuto il contrario di ciò che aveva diagnosticato Polanyi: il mercato capitalistico è stato reincorporato nelle culture. Anche lo sforzo neoliberista, in questo quadro, è consistito nel far dimenticare di essere un’ideologia economica per presentarsi come la quintessenza dell’umano. È una proiezione universalistica da mettere a paragone con quella, di segno contrario, attuata dalle religioni che – soprattutto se monoteistiche – sono da sempre il mezzo più efficace per conferire respiro universale a ciò che, all’inizio, non è che cultura particolare tra altre.

Per conseguenza non si può parlare di un “cattivo universale”, o di un universalismo vero a fronte di un altro definito come falso: non c’è un universalmente umano né come totalità stregata né come rovesciamento di questa stessa totalità in termini positivi. Qualsiasi universalismo è insieme vero e falso – il che equivale a dire che non è né vero né falso –, perché reca in sé lo sforzo di una forma di vita, di una cultura, per sottrarsi al destino di particolarità che le è riservato. È in un campo frastagliato che operano quindi le attribuzioni di potere che, di volta in volta, cercano di portare alla luce questo o quel potere consolidato, per lo più nel tentativo di metterlo in questione. Il capitale non è più forte dell’antica tradizione patriarcale che, in Arabia Saudita, impedisce alle donne di condurre l’automobile. Si tratta di princìpi differenti, nessuno dei due in se stesso totalizzante, che si reggono grazie alla simbiosi che stabiliscono l’uno con l’altro. La manna petrolifera, e la sua forza produttiva industriale reificata, sono lo sfondo del potere patriarcale, e viceversa: il consenso sociale derivante da un certo benessere economico fa scivolare in secondo piano l’oppressione molto concreta delle donne.

Con chi prendersela allora? La risposta non può che essere – con entrambi i princìpi, cioè con poteri differenti che possono venire alla luce sotto il gesto che li denuncia. A seguire questo ragionamento, non stupisce che dalle banlieues francesi (definite dallo stesso primo ministro Manuel Valls un “apartheid territoriale, sociale, etnico”) possano uscire dei fanatici terroristi: è lo stesso processo di decolonizzazione andato a male, finito per alcuni nel puro e semplice idoleggiamento delle proprie radici, che produce simili “mostri” culturali (usando il termine non nel significato sensazionalistico dello “sbatti il mostro in prima pagina” ma in quello, quasi tecnico, di una mescolanza incapace di sintesi tra forme di vita contrastanti). Sono la disoccupazione o la precarizzazione del lavoro le cause economico-sociali del malessere giovanile tra i figli di immigrati ex colonizzati – ma non è privo di senso che, nella generale ibridazione, l’islam diventi il catalizzatore di un riscatto terreno, perché, in mancanza di un’utopia pragmatica capace di prendere le mosse dalle condizioni particolari di ciascuno, è la prestazione universalistica fornita dalla religione che consente di operare un’attribuzione di potere su un intero mondo vissuto come oppressivo.