di Rino Genovese
Sono di grande interesse i Diari 1988-1994 di Bruno Trentin, a cura di Iginio Ariemma (Roma, Ediesse, 2017), sia per il periodo in cui furono scritti – quello del crollo dell’Unione Sovietica e della fine non troppo gloriosa del Pci – sia per la personalità che ne emerge: non soltanto quella di un intellettuale prestato alla politica e al lavoro sindacale (un po’ come il suo amico Vittorio Foa) ma di un appassionato di scalate e passeggiate in montagna. Trentin era un uomo fisicamente molto prestante che amava tenersi in forma e faceva dell’attività sportiva, come del giardinaggio nella sua casa di Amelia, un tonificante rimedio alle delusioni dell’impegno quotidiano che in quegli anni lo vide al vertice della Cgil.
Certo non dev’essere stato facile, per lui che da giovane aveva preso parte a un’esperienza fallimentare come quella del Partito d’azione, dover constatare che anche il Partito comunista, dopo una settantina d’anni di una vita che era parsa immortale, stava malamente evaporando. Però il suo socialismo ebbe sempre una matrice differente da quella burocratico-autoritaria, ancorché corretta dalla lezione gramsciana, tipica del Pci. Si può dire che Trentin sia stato un socialista libertario a bordo del comunismo come su una scialuppa nei marosi del Novecento. Ma, invece della riva – che, con la fine dell’illusione sovietica, sarebbe potuta essere quella di un socialismo diverso –, egli vide con qualche disperazione allontanarsi l’approdo. Sarebbe stato altra cosa il Partito democratico della sinistra nato dal Pci se, anziché chiamarsi così, avesse preso il nome di Partito del lavoro, come Trentin aveva proposto? Sarebbe potuto esserci un post-Pci non rinunciatario in materia di socialismo, capace di una sua specificità nel panorama delle ormai sfasate socialdemocrazie europee?
Probabilmente sì: è la risposta che si ricava dalla lettura di queste pagine. Il partito della sinistra non sarebbe stato quel pasticcio liberaldemocratico che fu con Occhetto e poi con D’Alema, fino alla naturale morte renziana, ma un partito laburista di tipo nuovo: legato al sindacato, senza dubbio, ma – in un mondo che non era più quello della società di massa novecentesca, con le sue collettività ben definite – a un sindacato profondamente trasformato, reso strumento organizzativo di una battaglia per i diritti basata sulla centralità dell’individuo e della sua libertà. Una prospettiva, questa, che potrebbe essere detta dell’individualismo sociale, sebbene l’espressione non ricorra mai sotto la penna di Trentin.
Il problema sarebbe stato quello della costruzione di nuove solidarietà in un conflitto non più semplicemente “di classe”, che avrebbe visto come posta in gioco sempre più la questione del “diverso”, sia nel senso dei diritti civili sia in quello, più propriamente sociale, di chi è solo rispetto a qualsiasi collettivo. Il lavoratore immigrato indifeso, più ancora del precario autoctono, è oggi la figura principale di uno sradicamento che allude, per contrasto, alle forme di un individualismo sociale tutto da costruire. Sindacato e partito socialista (se ancora se ne può immaginare uno) sono per forza di cose tendenzialmente multietnici. Ciò viene fuori in modo chiaro dalle pagine di Trentin: ed egli prevede anche che, in mancanza di una risposta politica, che al tempo stesso è una questione di educazione politica, si produrrà una reazione populistica e intollerante (si veda, in particolare, p. 248). Come poi si è puntualmente verificato.
Ma dare a tutti la stessa “ciotola”, come nella prigione del cosiddetto socialismo reale, non basta più. È una rimodulazione del tema dell’eguaglianza ciò che la crisi dei paesi dell’Est richiede. Su questo Trentin non ha dubbi: riproporre il comunismo, come fanno quelli di Rifondazione, è pura agitazione parolaia. Sua espressione nel sindacato (e successivamente nello stesso partito della Rifondazione) è Fausto Bertinotti, al quale sono indirizzati non pochi strali (si parla del suo “delirio narcisistico”), mentre, sul versante opposto, un Ottaviano Del Turco è pronto a qualsiasi giochetto pur di piacere a Craxi. Così il sindacato diventa il campo di una insensata guerra per bande. Trentin non ne sopporta il clima, ma non diserta la partita fino a bere l’amaro calice dell’accordo del luglio 1992 con il governo Amato, dentro una delle solite situazioni di allarme economico, che avrebbe abolito per sempre la scala mobile.
Non una felice conclusione, dunque, quella del socialista libertario Bruno Trentin finito, per uno scherzo del destino, a capo del maggior sindacato italiano. Di lui – dopo la caduta dalla bicicletta che gli sarà fatale, a ottant’anni, durante un’altra delle sue prove sportive – resta l’intenzione che fu già del padre Silvio, limpido combattente antifascista: liberare e federare. Che può essere reinterpretata così: liberare gli individui dalle strutture che li opprimono e federarli in un progetto di emancipazione che, per definizione, non ha fine.