di Giancarlo Scarpari
È dunque finito il partito padronale? Ancora no, per il momento; e tuttavia il Pdl è stato messo seriamente in crisi, non perché battuto politicamente dalle forze di opposizione, ma perché una sentenza emessa dalla magistratura ha superato gli ostacoli seminati negli anni dai parlamenti dei nominati, ha interrotto con la condanna definitiva di Berlusconi la lunga serie delle precedenti prescrizioni e innestato cosí un processo a catena, questo sí tutto politico, ancora in corso e dagli esiti ancora incerti.
In estate aveva preso forza il progetto della “nuova” Forza Italia, che, con il suo estremismo non piú simulato, aveva visto protagonisti i vari Verdini, Brunetta, Santanchè, decisi a spostare gli equilibri interni del Popolo della libertà e a ricattare ogni giorno il governo pur di ottenere, con l’avvallo o la comprensione di molti, una copertura immunitaria per il loro leader condannato; ma questa volta la minaccia di far cadere l’esecutivo, pur ottenendo immediati e visibili vantaggi – il cedimento del Pd sull’Imu ne è stato il segnale piú evidente – stentava a raggiungere l’effetto sperato; e allora, da vero avventuriero della politica, Berlusconi portava il ricatto alle sue estreme conseguenze: cosí, evocando il colpo di Stato realizzato, a suo dire, dalla sentenza della Cassazione, ordinava ai suoi nominati in Parlamento di presentare dimissioni di massa, per protestare contro la congiura che voleva eliminarlo (“Ho contro tutti: la Consulta, il Csm, Magistratura democratica, i magistrati soggetti a Magistratura democratica”, ecc.): e quelli, come sempre, avevano prontamente eseguito.
Un fatto inquietante, si era limitato a commentare un contrariato capo dello Stato; ma a quella reazione altre erano seguite e Berlusconi, di fronte al calo nei sondaggi, alla flessione di Mediaset in borsa, alle proteste di industriali e commercianti, dopo soli tre giorni aveva cambiato di spalla al suo fucile e, per invertire la rotta, aveva giocato la solita carta delle tasse, prendendo questa volta a pretesto l’inerzia dell’esecutivo e il conseguente mancato blocco dell’aumento dell’Iva; denunciava cosí la presunta violazione dei «patti di governo», ordinava questa volta la dimissione dei ministri, invocando a gran voce le elezioni immediate; ma la manovra era maldestra, frutto della disperazione di un condannato che, con un atto eversivo e senza precedenti, intendeva ricattare l’intera Giunta del Senato chiamata a decidere sulla sua decadenza: i ministri dipendenti tuttavia obbedivano, la crisi veniva aperta e rivendicata, ma questa volta persino il «Corriere» perdeva la pazienza (Uno sparo nel buio affermava Ainis il 28 settembre e Moderati dove siete? si chiedeva affranto P. G. Battista il giorno successivo).
Il 29 settembre Letta, dopo un colloquio con Napolitano, definiva la decisione di Berlusconi «un gesto folle dovuto a motivi personali» e, forte anche della cauta presa di distanze di Cicchitto, chiedeva la verifica in Parlamento, sottoponendo l’attività del governo al voto di fiducia; lo stesso giorno il presidente della Repubblica, parlando ai detenuti di Poggioreale, anticipava i contenuti del suo imminente messaggio alle Camere, nel quale invitava il Parlamento a «prendere in considerazione la necessità di un provvedimento di clemenza, un provvedimento di indulto e di amnistia»; seguivano due giornate convulse e, il 2 ottobre, Berlusconi prima ordinava di licenziare il governo, poi senza neppure avvisare i suoi, si rimangiava proclami, ultimatum e ricatti e, votava improvvisamente, per conto del Pdl, la fiducia all’esecutivo.
La piroetta, dai soliti opinionisti scambiata per un abile mossa del Grande Comunicatore, rivelava invece le dimensioni del bluff costruito con grande clamore in estate dal condannato e dalla sua troupe, ma evidenziava anche l’incapacità dei suoi nominati di fronteggiare questa nuova e, per molti di essi, imprevista situazione: abituati a obbedire senza fiatare agli ordini del Capo, i parlamentari del Pdl accettavano prontamente anche questo improvviso voltafaccia, ma, visibilmente spiazzati dal contrordine, si trovavano nell’incomoda situazione di non sapere piú a quale Berlusconi fare riferimento, se a quello che alle ore 16 del 2 ottobre aveva ordinato di negare la fiducia al governo o a quello che alle 18 dello stesso giorno gliela aveva personalmente accordata. Finivano cosí per subire anche loro l’intreccio voluto dal leader tra affari personali e affari di Stato e, nell’immediato, scontavano il passaggio annunciato, ma continuamente ritardato, tra il “vecchio” Pdl e la “nuova” Forza Italia; in tal modo, le incertezze e le retromarce del leader, padrone del partito e perciò in grado di modificarlo, trasformarlo o dividerlo a piacimento, determinavano il panico nei nominati, incerti sul loro futuro e costretti a scrutare ogni giorno le intenzioni del Capo per riposizionarsi nel modo per loro piú conveniente.
Il voto del 2 ottobre aveva comunque spinto coloro che rivendicavano una presunta autonomia ad annunciare la formazione di gruppi separati in Parlamento; ma presto l’iniziativa si arenava, poiché i “dissidenti” si accorgevano di non poter recidere, di loro iniziativa, il cordone ombelicale che li univa al dominus cui tutto dovevano, mentre la perdurante sottomissione era già evidenziata dalla veste – quella dei diversamente berlusconiani – con cui alcuni di loro avevano creduto di presentarsi all’elettorato di sempre.
Gli accadimenti dei giorni successivi – la richiesta da parte del condannato di essere affidato ai servizi sociali per non finire arrestato, la successiva decisione della Corte d’Appello di Milano di rideterminare in 2 anni il periodo della interdizione dai pubblici uffici e quella della Giunta del Senato che, a voto palese, si pronunciava per la sua decadenza da parlamentare – decretavano, sí, la fine provvisoria della vicenda di Berlusconi statista (provvisoria, perché il provvedimento della Corte veniva impugnato in Cassazione, al voto della Giunta doveva seguire poi quello dell’Assemblea e, quanto all’affidamento ai servizi sociali, se ne sarebbe riparlato in primavera), ma determinavano al contempo la rabbiosa reazione del Berlusconi padrone, che, per continuare a ricattare il governo, iniziava innanzitutto a ricattare i suoi dissidenti, ricordando loro che in caso di elezioni le nomine dipendevano dalla fedeltà dimostrata, i rimborsi elettorali spettavano al Pdl e che Forza Italia poteva esistere solo con le fideiussioni da lui sottoscritte; e, per sottolineare che il suo partito, comunque denominato, era e sarebbe restato alle sue dipendenze, a giorni alterni suggeriva ai media compiacenti la possibile discesa in campo della erede, la figlia Marina, che molti subito dichiaravano di apprezzare, malgrado sul piano politico fosse inesistente, potendo vantare a tale proposito soltanto il cognome del padre.
La decisione di accelerare il passaggio a Forza Italia, prendersi la rivincita sul voto “obbligato” del 2 ottobre, puntare alla caduta del governo Letta e invocare prossime elezioni (per vincerle e varare subito un provvedimento di amnistia, l’unico in grado di azzerare definitivamente la condanna e le numerose pendenze) favoriva poi la componente estremista del partito, da sempre del resto maggioritaria, ora strettasi attorno al Capo e da lui già proiettata verso l’opposizione. Questa politica avventurosa accentuava le divisioni interne, determinava inizialmente repentini passaggi da un fronte all’altro e poneva la componente filogovernativa in grave difficoltà, pur senza determinare nell’immediato la scissione auspicata da Letta e dal «Corriere».
L’iniziativa di Berlusconi, invece, determinava effetti collaterali nelle componenti centriste, ove Monti da un lato e Casini dall’altro, scioglievano la ditta varata in vista delle elezioni, si separavano con recriminazioni reciproche e il secondo riportava le proprie residue truppe nell’alveo della destra, in attesa degli sviluppi futuri; e aveva ripercussioni pure sugli ex fascisti, da sempre ruota di scorta del cavaliere, che con Storace, Menia e Romagnoli, riuniti attorno a Donna Assunta, tentavano di dar vita a una nuova edizione di Alleanza Nazionale.
Il Pd, dopo aver perso le elezioni e successivamente, con la vicenda dei 101, anche la faccia, rimaneva invece inerte, sempre incerto sul da farsi. L’episodio dei franchi tiratori aveva evidenziato impietosamente che il partito non aveva alcuna identità da difendere o da rivendicare, che la sua storia andava semplicemente rimossa e che gli autori di una simile rottamazione – ecco il punto di non ritorno – potevano rimanere anonimi e voltare pagina alla svelta; il Pd si presentava quindi all’appuntamento di governo in abiti dimessi, si mostrava subito remissivo nei confronti dell’inedito alleato, a ogni scadenza dubitava della sua stessa tenuta e, soprattutto, rispetto agli avvenimenti in corso, si rivelava spettatore muto, se non, ancor prima, distratto.
Anche vicende istituzionali clamorose, come l’occupazione del ministero degli Interni da parte dei kazaki in occasione dell’“espulsione” della Shalabayeva e della figlia minore, operazione condotta a termine «all’insaputa di Alfano», una vicenda che altrove avrebbero messo in crisi qualsiasi governo, non suscitava invece reazioni adeguate, venendo minimizzate o addirittura ignorata dalle forze politiche alleate. L’unica preoccupazione dei precari dirigenti del Pd, in questi mesi, sembra sia stata quella di traghettare definitivamente il partito “collettivo” verso quello “personale”, di evitare all’interno qualsiasi confronto politico e di concentrarsi invece sulle regole necessarie per raggiungere quell’obiettivo (far votare il candidato premier anche dagli estranei), accompagnate da procedure per l’elezione del segretario, farraginose da un lato e aperte a tesseramenti improvvisati dall’altro; ma, di fronte al progressivo scollamento del Pdl, mancava qualsiasi iniziativa politica, la paralisi era completa e le uniche proposte rese pubbliche erano quelle di intercettare i voti dei “berlusconiani delusi” sbandierando qualche slogan di destra (sui pensionati arricchitisi con il retributivo, sui sindacati conservatori e troppo numerosi, sui magistrati da rendere finalmente responsabili, ecc.).
Neppure l’approssimarsi di scadenze di assoluto rilievo – il voto sulla legge di stabilità, quello definitivo sulla decadenza di Berlusconi, la decisione della Corte costituzionale sulla legge elettorale – riuscivano a distogliere il Pd dalle problematiche interne del congresso, delle regole, del tesseramento e questo proprio mentre si faceva piú aggressiva e determinata la politica ricattatoria del condannato, che ora, per ragioni di tempo, era costretto ad agire a tutto campo.
Berlusconi muoveva innanzitutto contro i dissidenti interni: dopo aver diviso il “partito dell’Amore”, scatenato una grottesca guerra per bande e, dopo aver finto un’iniziale equidistanza tra Fitto e Alfano, prendeva pubblicamente la guida della fazione estremista e maggioritaria, affidava a Dell’Utri, a Galan e alla Santanchè la selezione dei quadri della nuova Forza Italia, minacciava i nominati infedeli ricordando loro la sorte di Fini (e quelli, improvvisamente, scoprivano che il metodo Boffo esisteva davvero!) e convocava un Consiglio nazionale per estrometterli dal nuovo partito; ottenuto poi dai tremebondi “alleati di governo” l’ennesima dilazione per il voto sulla sua decadenza – una decisione che secondo la legge doveva invece essere “immediata” – anticipava al 16 novembre la data del Consiglio, in modo da poter ricattare, con un’unica mossa, il governo sulla legge di stabilità, il Senato sull’applicazione della legge Severino e il presidente della Repubblica sulla concessione della grazia, che pretendeva automatica, “essendo stato condannato da innocente”.
Si è trattato all’evidenza di una mossa disperata, ma non per questo meno pericolosa, di un ricatto esplicito rivolto a tutte le istituzioni della Repubblica, di una forma di agire politico dai caratteri manifestamente eversivi.
Una mossa disperata, poiché, come era stato chiaro sin dal 2 ottobre, Berlusconi aveva solo la volontà, ma non i numeri, per sfiduciare il governo, perché gran parte del suo elettorato era contrario e perché Napolitano, comunque, mai avrebbe sciolto le Camere senza una nuova legge elettorale. Una mossa però egualmente eversiva, poiché quel ricatto si fondava sulla pretesa di godere di una perdurante impunità, istigava platealmente a disapplicare una legge dello Stato e ciò al fine dichiarato di cancellare una sentenza irrevocabile della magistratura.
Ma tutto questo non scuoteva l’opinione pubblica, ormai abituata a considerare gli attacchi alle istituzioni e ai principi dello Stato di diritto un modo tra i tanti dell’agire politico della destra in questi ultimi anni; il regime mediatico registrava i fatti, poneva come al solito Berlusconi al centro della scena, ne pesava le frasi e le intenzioni, rilanciava le dichiarazioni di questo o di quello e frullava il tutto negli inutili e taroccati talk show televisivi; il governo non batteva ciglio, non interveniva e non commentava, essendo sorretto dalle reciproche debolezze dei partiti che lo sostenevano; il Pd, dopo aver sostituito il contenuto, la politica, con la forma, le regole, riusciva a inciampare anche su queste, con i tesseramenti gonfiati, i doppi segretari, i congressi locali annullati; rimaneva sempre in attesa che altri – la Corte costituzionale, la Cassazione, il presidente della Repubblica – risolvessero o avviassero a soluzione quei problemi che la sua impotenza politica non era in grado di affrontare.
La telenovela della scissione si trascinava cosí sino al 15 novembre, quando Berlusconi tirava le fila di tutto il lavorio precedente, sí da rendere inevitabile la fuoriuscita dei dissidenti; e Alfano, cercando di dare una qualche dignità alla vicenda, si rifaceva a don Sturzo e invocava Dio e la Provvidenza perché illuminassero la sua «scelta» e lo accompagnassero in «una marcia» che sperava «lunga e vittoriosa»; con minore enfasi, ma con notevole senso pratico, lo stesso giorno, anche i cattolici di Mauro rompevano definitivamente con Scelta civica e, sotto gli auspici di Comunione e Liberazione, si preparavano a ricongiungersi in un prossimo futuro con Casini, Formigoni e i «diversamente berlusconiani».
Il 16 novembre l’ex premier, come da copione, veniva eletto dalla fazione vincitrice, all’unanimità, capo e padrone della nuova Forza Italia; all’inizio, da politico, raccomandava ai suoi moderazione perché con i «cugini separati» presto si sarebbero ritrovati nella coalizione di centrodestra; poi il condannato prendeva il sopravvento, la moderazione spariva, il delirio cresceva (Magistratura democratica aveva preso il potere e l’aveva condannato, Epifani, scortato da due ceffi, aveva ordinato di eseguire la sentenza, ecc.), tanto che, in Tv, un imbarazzato Mentana a quel punto preferiva sfumare la diretta.
Alfano rispondeva nel pomeriggio, presentando il suo nuovo gruppo alla stampa estera, usando toni moderati e concilianti; sorvolava sulle domande relative al lodo e all’occupazione del tribunale di Milano; spiegava il rapporto personale che lo legava da vent’anni a Berlusconi («mi ha dato molto, gli ho dato tutto») e quello politico, che lo avrebbe legato a Forza Italia nella prossima coalizione di centrodestra; conveniva con il vecchio dominus che la sentenza emessa nei suoi confronti era ingiusta, e che ancora di piú lo era l’applicazione retroattiva della legge Severino-Alfano; e tuttavia, in caso di decadenza, ribadiva che avrebbe mantenuto per almeno 12 mesi il sostegno al governo, pensando al bene del paese, ecc.
Il dramma della scissione si stemperava dunque nell’elegia della separazione, accompagnata da «rimpianti, dolore e manifestazioni di affetto reciproco»; diradatasi questa atmosfera, rimaneva il fatto concreto che le due anime del Pdl, dopo aver duramente lottato per l’esclusiva, non riuscendo piú a convivere in un unico contenitore, si erano diversamente posizionate, dando vita a un partito di lotta e a uno di governo, per il momento complementari nella loro dichiarata avversione alla sinistra.
Il regime mediatico, dopo aver benevolmente censurato all’unisono gli sproloqui piú vistosi di Berlusconi, assumeva un atteggiamento cauto e guardingo; ma Letta ed Epifani hanno parlato, soddisfatti, di una nuova maggioranza e di un governo piú coeso e piú solido, malgrado i voti al Senato siano diminuiti, i ministri della destra siano sempre quelli di prima e ora anche con l’esigenza di dover allontanare da sé ogni sospetto di “tradimento” e di dovere, perciò, rispetto all’elettorato di riferimento, perseguire con particolare fermezza i punti del programma del Pdl: incalzati quotidianamente dai “cugini” di Forza Italia, rimasti con i soldi, i giornali e le televisioni, Alfano e i suoi dovranno a breve chiarire cosa voglia dire, in concreto, essere «diversamente berlusconiani».
Scomposizioni e ricomposizioni sono dunque in atto nei partiti di centro e di destra, in vista del formarsi delle nuove (o vecchie?) coalizioni. Se si tratta di trasformazioni reali o di falsi movimenti, si vedrà.
Sul versante opposto le primarie dell’8 dicembre diranno verso quali lidi stia veleggiando il Pd, ormai alleggeritosi del suo passato; e anche qui, paradossalmente, l’esito del voto finirà per chiarire se o quanto, rispetto ai precedenti, siano diversamente democratici i politici che andranno a formare l’oligarchia dirigente di quel partito.