don Milanidi Antonio Tricomi

Suddiviso in dieci capitoli – «composti in seconda persona» e che ambiscono, ripercorrendo «i luoghi più rappresentativi» della sua esistenza, a ricostruire genesi e principi della lezione lasciataci in eredità dal sacerdote fiorentino – e in altrettante «risonanze» che l’autore recupera dai propri «diari di viaggio intorno al mondo» – così da scoprire dove e in quali forme risulti oggi lecito scovare tangenze magari indirette, o persino sorprendenti, con tale magistero –, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani (Mondadori, Milano 2016, pp. 177, € 18,00) trae anzitutto origine da una spinta etico-culturale, comune a ogni libro di Eraldo Affinati, che – per intenderci – potremmo approssimativamente ricondurre a una sorta di filosofia anti-novecentesca della vita. Agli occhi dello scrittore, il “secolo breve” conosce infatti due derive, al tempo stesso, morali e politiche – la legittimazione sociale del più gretto individualismo di matrice libertaria e la convalida di ideologizzate narrazioni identitarie a vocazione totalitaria – che egli in sostanza giudica fenomeni intimamente connessi, e anzi reversibili l’uno nell’altro, giacché facce di una sola medaglia, vale a dire forme complementari di quell’ossessione nichilistica a parer suo connaturata a chiunque sia figlio del Novecento e dovrebbe perciò assumersi la responsabilità quantomeno di provare a reprimere in sé tale pulsione. Concepire l’attività letteraria come una prosecuzione del proprio lavoro di insegnante – e quindi scorgere l’unica possibile incarnazione odierna del vecchio intellettuale civile nella figura del pedagogo sempre preoccupato di rivolgersi a precisi interlocutori con i quali condividere e rielaborare specifiche forme di sapere per dar vita, tutti assieme, a un’operosa comunità di individui realmente liberi e dunque solidali tra loro – è la maniera appunto scelta da Affinati per vincere qualsiasi tentazione nichilistica. Una maniera che non stupisce abbia sentito addirittura l’obbligo di misurarsi con il modello educativo sperimentato da don Milani.

Alla «poetica del Novecento», in larga parte fondata sull’«idea che niente possa avere senso o che tutto possa averlo, indifferentemente», e allora disposta, da un lato, a «propugnare la libertà assoluta» di ciascuno e però incline, dall’altro, a rendere «sentimenti, passioni, vocazioni» nulla più che «aree semantiche in disuso», il priore ha infatti opposto – a giudizio di Affinati, anche realizzandolo – «il sogno di una vita compiuta, in cui l’azione non sia un arto spezzato, la scheggia di un colpo tirato a caso, ma scaturisca dal pensiero che l’ha voluta». Ai tanti autori del ventesimo secolo che hanno celebrato «chi resta fuori dal consorzio sociale» e si sono spinti a mitizzare «l’artista che vive da solo contro tutti allo scopo di comunicare chissà quale rivelazione», don Milani – che L’uomo del futuro non esita a definire «uno straordinario scrittore di lettere, nella più pura tradizione letteraria italiana», e un grande prosatore celatosi «dietro il proprio talento per cause di forza maggiore», giungendo a negare «se stesso con pervicacia degna dell’ultimo Tolstoj» – sembra quasi voler rispondere piccato con quelle sue frequenti missive mai ricopiate in bella appunto per «tracciare un segno rosso sull’opera quale oggetto intoccabile di valore acquisito», sì da mutarla nella «rappresentazione plastica di una potenza in atto, a perdere, concentrata sull’azione», e per consentirle di rimanere «sempre a mezzo metro rispetto agli eventi, senza filosofie, né troppe mediazioni». Ai cattivi maestri che, ligi al cinismo novecentesco, hanno educato gli allievi a «pensare se stessi in uno schema linguistico, cioè convenzionale, facendo saltare in aria l’unicità dei fondamenti, quali essi siano», il religioso toscano è stato capace di ricordare la vera «matrice dell’insegnamento, il suo senso più compiuto e profondo: consegnare il testimone», ovverosia «rinnovare la tradizione», sforzarsi di «accendere il fuoco» del sapere e dell’autocoscienza nei discepoli, «baciare il futuro» guidando la crescita degli alunni, riconoscere i propri limiti e spronare i giovani a non rinnegare i loro per avvertire non alla stregua di una tortura, ma come un segno di maturità, il comune imperativo di «accettare la morte». E a un’era, la nostra, nella quale le distinzioni di censo sono tornate ad essere tanto pronunciate da apparire invalicabili, intimando a ciascuno di concepire il proprio destino individuale inderogabilmente fissato dalla nascita e dalla sottomissione alla cieca legge della giungla, don Milani, con la sua scelta di ripudiare i privilegi ricevuti in dono dalla ricca famiglia borghese d’origine per compiere, dentro di sé, un’autentica «rivoluzione» antropologica, sembra altresì in grado di ribadire che non può esserci a tutti gli effetti una civiltà laddove non vi siano reale interclassismo, vere chance di mobilità sociale, la piena tutela dei diritti degli ultimi e la totale disponibilità, in quanti hanno ereditato le quote maggiori di cultura e di benessere, a redistribuirle per schivare «il peggiore dei peccati: l’egoismo».

Certo non sfuggono, ad Affinati, «gli equivoci interpretativi e le strumentalizzazioni politiche che il priore di Barbiana ha subito e continua a suscitare». Si potrebbe anzi sostenere che, prima di convertirsi – anche grazie all’ultima, sconcia riforma – in ciò cui oggi troppo spesso somiglia, vale a dire non in una palestra di organica formazione individuale, ma in un magazzino nel quale si ambisce a creare, invece che cittadini compiuti e consapevoli, futuri lavoratori specializzati che nulla sapranno tuttavia essere se non potranno identificarsi con un impiego specifico, la scuola italiana, con l’intenzione di rinnovarsi, ha scimmiottato a lungo talune premesse implicite nel modello educativo elaborato da don Milani, finendo perlopiù col ridurre indegnamente quella proposta a un’incongrua convalida della presunta orizzontalità della comunicazione pedagogica. Essa ha difatti voluto rimuovere come il sacerdote fiorentino pensasse che l’istituzione scolastica sarebbe pur sempre chiamata a concepirsi non già ipocritamente «democratica», bensì trasparentemente «monarchica assolutista» e, di conseguenza, «democratica solo nel fine, cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia». In altre parole, ha preferito scordarsi che don Milani «non credeva agli spontaneismi in educazione»; non riteneva affatto «che un ragazzo potesse essere abbandonato alle sue tendenze, ai suoi impulsi naturali»; considerava ciascun allievo «una vite che va innestata e potata e curata e sostenuta perché possa dare il prodotto migliore». In pratica, ha ridotto a semplice «“finzione pedagogica”» – ossia a «docimologie, tecniche didattiche, livelli di apprendimento, obiettivi da raggiungere», e dunque al grigio «conformismo didattico che purtroppo affligge gran parte dell’istituzione pubblica», generando «quel meccanismo teatrale» che «è quasi impossibile evitare» e che, però, «difficilmente permette un autentico incontro tra professore e scolaro» – una coerente dottrina dell’insegnamento e dell’acquisizione di sapere quali vitalissime esperienze che, col loro realizzarsi qui e ora, inducano, sia nei docenti sia nei discenti, «il senso della legalità e la coscienza politica», senza mai ignorare che, se il «vecchio mito novecentesco» dell’«uguaglianza delle posizioni di partenza» è destinato a rimanere tale, può tuttavia provvedere appunto una scuola degna di questo nome a «far nascere in chi [sia] stato favorito, dalla sorte o dalla propria intraprendenza, la consapevolezza del vantaggio» di cui gode, così spingendolo a sentire un «obbligo di restituzione» nei riguardi dei meno abbienti o dei meno coraggiosi.

Quantomeno a chi la frequenta da precario non abilitato all’insegnamento, e quindi da estemporaneo professore tappabuchi, la scuola pubblica italiana appare vessata da troppi e troppo diffusi mali perché si possa ritenere sufficiente, a guarirne le patologie, che ciascun docente sappia trarre individualmente ispirazione da questo o quel modello pedagogico in sé valido. E anzi, che essa funzioni decentemente, là dove riesce a farlo, mai per autentica forza propria o grazie alla sua intrinseca impalcatura simbolica, ma perché trova tuttora docenti che, costantemente a loro rischio e, comunque, in numero via via più esiguo, evitano di incarnare senza ambivalenza alcuna la figura dell’insegnante prevista dal ministero, è il sintomo per antonomasia della crisi che l’affligge e che ne alimenta i peggiori vizi strutturali. A volerne citare solo due: una crescente esasperazione del difetto di laicità che storicamente la contraddistingue e che, se appare una tendenza sempre censurabile, si rivela a maggior ragione inammissibile e addirittura pericolosa oggi; una propensione, in larga misura eterodiretta, a una retorica del rinnovamento inteso come semplice introiezione delle mitologie socioculturali imperanti e alla stregua di un adeguamento del tutto passivo agli assetti economici e produttivi del vigente ordine capitalistico, senza che mai vi siano riflessioni sistematiche su cosa i percorsi formativi dovrebbero essere e implicare di per sé, sulle offerte didattiche che andrebbero di riflesso elaborate per rendere plausibili quei cammini, su quali previsioni di futuro – magari a gioco lungo errate e però, al momento, criticamente verosimili – occorra di volta in volta orientare l’organizzazione dei piani di studio.

Affinati insegna materie letterarie in un istituto professionale. In attesa di quanto forse mai verrà – un serio ripensamento dell’intera filiera educativa, dalle materne sino all’università –, è fuor di dubbio che, per un docente, guardare – a patto tuttavia di non tradurla in esercizio indebito di catechismo – alla lezione di don Milani, o a modelli pedagogici ad essa parzialmente accostabili, risulta, proprio in scuole di quel tipo, comunque utile, specie qualora si tratti di un professore di Lettere. Il quale, in un Ipsia o in una scuola alberghiera, ha in genere davanti i figli di quegli esclusi – poveri, disoccupati, immigrati – che spesso hanno fisiologicamente introiettato, e assai di rado sanno perciò esimersi dall’infondere nella prole, la logica classista che di fatto governa le società capitalistiche occidentali e che li spinge a sentirsi, da un lato, uomini e donne senza speranza ma, dall’altro, appunto in quanto vittime designate, individui legittimati o addirittura costretti, per sbarcare il lunario o quantomeno per conservare l’illusione di poter difendere la propria dignità, a rispondere con il teppismo o con il luddismo ai loro peculiari carnefici e a un’intera struttura civile inflessibilmente percepita come persecutoria. Per ragazzi in vari casi ingestibili anzitutto perché cresciuti in un simile contesto, va da sé che l’insegnante di Lettere, forse più di ogni altro docente, debba incarnare, prima ancora che la figura di un credibile depositario di saperi specifici ai loro occhi sovente astrusi, un esempio di cittadino reso decente, padrone di sé, aperto al confronto, serenamente laico, in grado di decifrare e di vivere il proprio tempo, ligio ai valori della nostra carta costituzionale, fedele a principi egalitari e a logiche solidaristiche dalla costante interrogazione delle sue conoscenze e dal tentativo di impiegarle criticamente, così da indicare agli allievi una strada attraverso la quale poter scoprire, rivendicare, ottenere i loro diritti senza cedere a qualsivoglia tentazione distruttiva, autodistruttiva. Una strada, in altri termini, percorrendo la quale essi apprendano e imparino a scegliere, contro la barbarie che rischia di inghiottirli, le forme – anche quelle più irriducibilmente utopistiche – della partecipazione democratica.

Insegnare, d’altro canto, non è che questo: guadagnarsi, innanzi alla classe, l’autorevolezza necessaria non già ad esercitare un proprio comando autoritario, fondato sull’imposizione altrettanto vessatoria di conoscenze supposte immutabili, sulle intelligenze degli scolari, ma a suscitare o rinvigorire, in costoro, un rispetto dell’autorità del sapere inteso come consapevolezza, mai dogmatica o meramente astratta, di doversi costruire su base razionale una propria sempre modificabile, giacché strutturalmente autocritica, identità culturale per affidarle la loro possibilità di vita e d’azione in seno al consorzio civile. E dunque, insegnare è anche ambire a raggiungere quel particolare piacere prodotto, nell’educatore, dal rifiuto che al suo magistero oppone non l’alunno restio ad accettare il confronto pedagogico in sé, ma quell’allievo che, dopo aver assimilato e reso proficue le logiche intrinseche a tale dialogo, sia giunto a ritagliarsi una propria fisionomia intellettuale. Per dirla con don Milani: «È meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già un uomo e non ha più bisogno di balia, e qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso».