Nel quadro devastato dell’attuale universo politico non solo italiano, ma anche europeo, si fanno sempre più ricorrenti alcune fole che, da qualche tempo a questa parte, hanno accompagnato la formazione del governo giallo-verde e, più in generale, il rafforzamento delle destre nel Continente. Anche le primarie del Pd sono state lette e analizzate entro una logica perversa che ha privilegiato due profili: quello dei vizi insiti nel principio di rappresentanza a impronta liberaldemocratica, più volgarmente dicasi dell’inaffidabilità del consenso espresso dal «popolo bue», e quello della dimenticanza sostanziale dei programmi.
L’approccio, in un caso o nell’altro, è, se non sbagliato, certo insufficiente. Esso dimentica le ragioni profonde che possono desumersi, sul piano etico e storico ancor prima che politico, dal deliberato delle urne e rischia di cadere nella più classica trappola del qualunquismo nostrano, finendo per attribuire alla Politica il ruolo di X Factor, Beautiful o affini. Ne è che i giornali e le televisioni, nella stragrande maggioranza dei casi, vanno alla criminalizzazione o alla beatificazione, e quindi alla banalizzazione degli esiti elettorali e, per tale via, finiscono nella riproposizione di un modello politico che, nel ricordo delle correnti della Dc, fu tipico della Prima repubblica. Il problema, in effetti, non sta in che cosa “comunica” Zingaretti, o in che cosa possano ancora dire, con ipocriti appelli all’unità, i suoi sedicenti antagonisti pidiessini; né sta nel modo in cui la moribonda sinistra italiana possa riacquisire forza di governo facendo alleanze col M5S o, viceversa, con la Lega. Ma in ben altro.
Ciò che è in gioco oggi, nella crisi epocale che accompagna la voragine in cui è incorso il capitalismo multinazionale, non è un mero cambiamento di rotta quanto a scelta del partner o quanto a individuazione del nemico, ma sta in un radicale ribaltamento della logica etico-politica entro cui operare. Quel che può determinare la rinascenza di uno schieramento partitico, o determinare la tenuta o la caduta di un governo, dipende da un approccio che si ponga in termini alternativi rispetto al passato, non perdendo di vista i seguenti parametri di civiltà: la laicità e non confessionalità della scuola; la natura essenzialmente pubblica della sanità e il correlato recupero di un ambiente che non è solo bellezza dei siti, ma anche salute dell’uomo; la tutela del lavoro e la sicurezza dei cittadini; il principio dell’indipendenza della magistratura.
I dibattiti televisivi, le pagine dei quotidiani e persino una satira politica ogni giorno più evanescente, più prona e asservita, bombardano spettatori e lettori sul tema delle alleanze. L’obiettivo di una siffatta comunicazione non è la crescita democratica, ma una falsificazione che si nutre di liti spettacolari per vanificare ogni pensiero, guadagnando aumento dell’audience. Così soffia il vento dei poteri forti: il Pd appaia nuovo, ma sia in realtà quello degli ultimi tempi, facendosi consorte del M5S e oppositore sdegnoso di Salvini. O, viceversa – giacché non fa poi molta differenza – allineandosi agli istinti nazionalistici del nuovo corso leghista e facendo il volto delle armi alla «democrazia diretta» proposta via internet dalla Di Maio & Co.
Il problema non sta nel benedire, o non, la scelta del Tav, né nel plaudire acriticamente, o non, al reddito di cittadinanza; né, tanto meno, sta nell’associarsi, o nel distinguersi dal M5S con la condivisione, o non, della separazione delle carriere giudiziarie. Più semplicemente occorre ragionare, quindi proporre azioni di governo che si fondino sui valori etico-politici emergenti dalle grandi conquiste civili della storia europea, esemplarmente trascritti nella nostra Costituzione repubblicana. Per esempio: quando si parla di separazione delle carriere, ovvero quando si ritorna al sogno berlusconiano di ribaltamento dell’asse costituzionale (sogno largamente ripreso da Renzi), ciò che importa non sta nel verificare assieme a chi si vada a votare in Parlamento, ma cosa socialmente comporterebbe una distinzione fra il ruolo del Pubblico Ministero e il ruolo del Giudice. In realtà, la separazione delle carriere offende il principio di indipendenza della Giurisdizione dall’Esecutivo, ovvero provoca interferenze tra i poteri che la Rivoluzione francese e il pensiero illuministico esclusero. La separazione delle carriere avrebbe ora effetti addirittura deflagranti nella lotta contro il fenomeno, diffuso nel paese, della corruzione: perché affermerebbe la dipendenza del PM dal ministro degli Interni, ovvero subordinerebbe la stabilità o, se si preferisce, il rigore del Diritto alla “mobilità” tipica dell’azione politica. In radicale contrasto rispetto al dettato dell’art. 101 della Costituzione.
Dunque, il compito di una sinistra che, nel nome del socialismo e del solidarismo, voglia risorgere e di tutti coloro che hanno a cuore le sorti di questo disgraziato paese sta nell’applicare la Costituzione. Non nel disattenderla, non nel cercare ogni occasione propizia per eluderla. A essere in gioco è il ruolo stesso della Politica, rispetto a una «dittatura dei mercati» in cui, come si è autorevolmente scritto, «le vite, i diritti, l’eguaglianza contano meno di zero».
La consultazione referendaria del 4 dicembre 2016 resta una pietra miliare nella storia della Repubblica. Essa ripropone la lezione di Piero Calamandrei circa l’incessante fermento insito nella lettera costituzionale, la perenne opportunità di una sua riproposizione e attuazione.
È inutile che qualcuno, anzi più di uno, cerchi di fingere che non sia questo il problema. È da lì che potrà emergere una nuova classe dirigente, formatasi nella scuola pubblica e in una cultura politica finalmente rispettosa di teatri, conservatori, accademie e di università non asservite a una invadente, planetaria logica mercenaria.