di Luca Baiada

Non varrebbe la pena, commentare l’intervista di Giuseppe De Rita del 23 aprile su una testata locale, se non fosse stata ripresa da vari organi d’informazione, rimbalzando in rete: una di quelle ghiottonerie che si offrono al pubblico perché vengono dal personaggio, dal nome. Ma i tempi costringono a inseguire queste cose.

I toni sono quelli di chi svela verità attese e imbarazzanti. E questo sì, che è tipico del linguaggio populista. Ma contrariamente a quel che affabula De Rita, fra il sicuro e il postprandiale, l’Italia ha bisogno eccome, di ricordare l’antifascismo per evitare il fascismo. Nel senso che ha bisogno anche di ricordare.

L’analisi dell’avvento del fascismo, nel discorso proposto, sembra un sunto da ripasso e nasconde un’insidia: spiegando la dittatura con la voglia d’ordine e quieto vivere, «al riparo dalle turbolenze del mondo», si ripete una tesi qualunquista che percorre tutto il secondo Novecento: il fascismo non sarebbe stato male, se non avesse fatto la guerra. Tesi interclassista, gregaria e accasermata, come il fascismo voleva gli italiani. Proprio il conflitto bellico, appunto, per De Rita è l’«errore fatale» di Mussolini, e anche questa s’è sentita fino alla noia. Di solito va insieme all’altro intruglio, quello che intende la persecuzione degli ebrei come un incidente, una decisione sbagliata, una cosa strutturalmente distinta dal fascismo: via, una cosa non fascista. A furia di distinguere e sminuire e sminuzzare, il fascismo diventa innocente; anzi, l’unica colpa diventa quella di aver smesso di essere com’era all’inizio, di non essere rimasto fascista.

L’idea di De Rita che i partigiani nel 1945 si siano presentati come i restauratori dell’ordine, anche grazie alla famosa fotografia con Parri, Longo e altri mentre sfilano a Milano, trascina con sé gli stessi sottintesi e, in fondo, presenta la Resistenza come postfascista più che antifascista (al fatto che nel 1945 un’immagine, di certo, non potesse raggiungere decine di milioni di persone, l’informato sociologo non pensa). L’ambizione tranquillizzante e stabilizzante, invece che in quella foto del 1945, è adesso nell’impianto di sortite come questa intervista, con la Resistenza definita «orrore» e la guerra di Liberazione «fratricida», un’espressione tipica della più bieca retorica di destra e del suo falso patriottismo. La consapevolezza che fratricide siano state la fondazione dei Fasci di combattimento e la marcia su Roma, con tutto il corredo di eccidi, incendi di case del popolo, soprusi, non sfiora il bagaglio cognitivo degli osservatori comodi che la sanno lunga.

Viene voglia di riconsiderare l’idea che tutto il periodo dal 1922 al 1945 debba aver nome dalla Resistenza, non dal fascismo, perché la Resistenza cominciò subito, all’inizio della dittatura, fra oppositori, cospiratori, persone che non si piegarono. Era questa, la proposta uscita dal congresso nazionale dei centri del libro popolare, nel 1950 a Torino, lanciando il volume Antologia della Resistenza a cura di Luisa Sturani Monti (ripubblicato nel 2012 per le Edizioni Gruppo Abele); una bella sfida, spiegata sin dalla prefazione, di Augusto Monti. Di certo, il 25 Aprile non è un fatto solo militare e la Liberazione non è una vicenda di costume spiegabile con «le cravatte dei partigiani». A perdere di vista la realtà si capitombola in molti equivoci, non è chiaro quanto involontari.

L’intervista attribuisce la sopravvivenza del fascismo, in versione Msi, a un sotterraneo patto di convivenza col fronte detto «arco costituzionale»; una convivenza che pure vi fu, ma florida nella Democrazia cristiana, e in forme gravissime – anche quelle indicibili della strategia della tensione, delle bombe, delle basi segrete, dei servizi paralleli, dell’insabbiamento dei processi sui crimini nazisti, dell’Armadio della vergogna – dirette a ostacolare la democratizzazione e la modernizzazione del paese. Cresciuto democristiano, l’ex presidente del Cnel vuole spalmare la responsabilità su tutti per assolversi. In questo il totalitarismo ministeriale della Dc non è diverso da quello dittatoriale, ed ecco che arriva la storiografia monocolore.

Impostato l’inizio così male, il resto viene da sé. Berlusconi diventa il riempitivo grigio che segue al tracollo dell’arco costituzionale (una lettura riduttiva e banalizzata), e gli irrigidimenti del potere sembrano vicende di tendenza, fatti senza cause. La loggia P2, con le sue radici repubblichine e doppiogiochiste, la mafia col suo peso sin dagli anni quaranta (Portella della Ginestra), sino alle stragi degli anni 1992 e 1993, sono cose che diventano invisibili, dando spazio a stilemi televisivi semplificati.

Ma la contraffazione politica più grave è in questo: per effetto di un quadro nuovo, segnato soprattutto dalle elezioni del 2018, Liberazione e Resistenza non desterebbero più l’interesse dei giovani.

Anzitutto, non è chiaro se De Rita voglia cambiare questo stato di cose oppure, presa in prestito la catinella da Ponzio Pilato, si limiti a registrarlo col distacco dell’uomo di scienza. Quel che più conta, è che la parte del mondo giovanile indifferente a questi temi (ce n’è un’altra ben diversa) è figlia di un bombardamento ideologico qualunquista, della società dei consumi (praticati o solo promessi dall’industria dello spettacolo e del digitale) e dei mali dell’istruzione pubblica, mali disseminati dagli stessi gruppi dirigenti che fanno cattivo uso della sociologia. Se la scuola pubblica non risentisse del sabotaggio e quella privata non fosse aiutata con mezzi pubblici, con buona pace di ciò che vuole la Costituzione, le tesi alla De Rita non potrebbero cogliere successi mettendosi il doppiopetto dell’oggettività.

Resta il dubbio, visto l’effetto della provocazione mediatica, che il nume del Censis abbia cercato il colpaccio sul 25 Aprile per mostrarsi al passo coi tempi o degno di nota. Ma in queste sortite, come in quelle di sdoganamento del fascismo sentite negli anni ottanta (televisione, Giuliano Ferrara, Renzo De Felice) non è mai chiaro se il chiasso serve a scaldare la voce del cantante o a suggerire la cabaletta per farla intonare dal loggione, e poi dai cori del dopolavoro.

Comunque, oggi più che mai, queste false novità interpretative, queste arie da baule dall’effetto sicuro, ripropongono cose vecchie facendo finta di spiegare il mondo e di togliere la polvere. I mascheramenti retorici e diversivi, in fondo, sono sempre gli stessi.

Di nuovo, invece, si affaccia un dubbio: provare a chiedersi, fermo che del 25 Aprile c’è bisogno, a cosa serva la sociologia. Sicuramente, per capire che fra Moro e Andreotti ha vinto Andreotti non occorre il Censis.

Invece di sciogliere questo rovello, meglio rivolgere un pensiero affettuoso alla magnifica Milva, che ci ha lasciato un gran bene. Anche di buoni artisti, c’è bisogno.