di Michele Feo
Con Dario Fo si è spenta una delle anime più affascinanti, stracciona e sublime, della nostra Italia dalle mille e contraddittorie anime. Negli ultimi tempi faceva tenerezza e incuteva reverenza, quando appariva solo e corpulento sulla scena, grande vecchio dal cervello in piena attività, a tenere banco per un paio d’ore senza fogli in mano che aiutassero la memoria, accompagnato dai suoi dilaganti dipinti didattici sullo sfondo, diritto come un treno nel dipanare i ragionamenti e arciere sicuro nell’assestare le battute fulminanti contro preti e cardinali, politici corrotti, lenoni di ogni specie e sfruttatori del popolo. Era la prova provata che esiste un fervore e un fuoco interiore che accende la materia anche quando essa è diventata fragile e desidera la quiete finale.
Sono tredici i volumi einaudiani delle sue opere teatrali, curati, forse per affettuosa finzione, dalla compagna Franca Rame, ma dicono solo in parte la realtà viva che fu dei suoi spettacoli. Che avevano qualcosa della commedia dell’arte e presentavano a ogni rappresentazione battute, varianti e improvvisazioni di ogni genere, che si sposavano con la temperatura del pubblico presente e dialogavano con gli eventi della politica e della storia. Non di rado quelle pièces erano scespirianamente “storie italiane”. Portarono sul palcoscenico il Fanfani rubato, il Feltrinelli dilacerato e il Sofri indegnamente accusato, e li portarono davanti a platee plaudenti, che godevano che ci fosse qualcuno che desse ragione ai loro più profondi sentimenti e voleri, e che proclamasse le loro verità senza paura in teatri disseminati di poliziotti occulti. Di quegli eroici spettacoli la protesta civile era e resta il nerbo vigoroso, ma la forma teatrale, che assumeva grandezza trascinante nella performance, era, e purtroppo non è più, la indicibile, misteriosa, forza artistica. Dario giganteggiava nella solitudine: unico, era capace di dar vita a due, tre, personaggi diversi e compresenti. Nel famoso dialogo del papa Bonifacio VIII con l’angelo nel Mistero buffo, l’angelo non c’è sulla scena, ma lo spettatore lo vede grazie a piccoli gesti dell’unico attore e ai suoi cambi di voce. Dario aveva nel sangue il grottesco. Il grottesco è più del comico; è il momento in cui il comico, ma anche la banalità, l’assurdo, l’orrore raggiungono livelli parossistici e si trasformano in puro gioco di meraviglia. Il grottesco, come ha dimostrato il russo Bachtin, è anche il sogno di un’altra rivelazione del mondo, quella del carnevalesco, del basso materiale, del quid popolare irriducibile alla ragione, alta o triviale che sia, che regge il mondo delle ingiustizie e delle violenze, è la possibilità che il pazzo prenda il posto del sano sulla faccia di questa
pazza terra.
Che il teatro di Fo fosse realistico è un abbaglio comune a chi lo voleva a capeggiare le rivolte sociali e a chi lo riteneva incapace di penetrare le nascoste pieghe dell’animo umano. Quel teatro invece volle attingere i lidi della metafisica. Ricordo una scena della Signora è da buttare al Teatro Verdi di Pisa (dove la signora è l’America degli Stati Uniti), in cui mentre Dario si adopra per scendere con una scala nella pancia di qualcuno, ispirandosi al fumetto Pogo del grande Walt Kelly, una Franca Rame trasformata in angelo della perdizione, tutta vestita di un bianco abbacinante, si dondola in una gigantesca altalena che scende dal soffitto. Così le forsennate giravolte di automobili, gli incroci di strade e le perverse ricostruzioni ambientali del monologo sull’assassinio di Calabresi, sono più di un’indagine a maggior gloria della verità, sono una discesa nei gironi di un inferno dei nostri giorni.
Dario Fo trovò il suo approdo lirico. Avvenne quando allestì lo spettacolo diventato mitico Ci ragiono e canto. La poesia popolare italiana aveva riempito di sé i cuori degli uomini del Risorgimento che in essa videro una prova dell’unità del paese; l’ultimo grande progetto di raccolta sistematica, regione per regione, villaggio per villaggio, era stato coltivato da Michele Barbi e si arenò con la fine del fascismo. Si deve a Pier Paolo Pasolini il Canzoniere italiano, un libro che condensa tutto il panorama italiano in una visione d’insieme che risente dell’idea incompiuta di Barbi, e mira a dar voce allo spirito “naturalmente” poetico del popolo, ai suoi aneliti e ai suoi dolori, ai suoi sogni d’amore e alle sue passioni. Ma quando quella materia passò nelle mani di Fo diventò l’espressione dell’alterità del popolo, la voce dell’opposizione al potere. Quei canti, usciti dalle viscere dell’Italia del lavoro, dell’emigrazione, della fame, delle lotte contadine e operaie, degli amori repressi, delle aspettative di redenzione, risuonarono prima nei grandi teatri italiani e poi nelle case del popolo di provincia, sulla bocca di mondine vere, di vecchi lavoratori sardi, di analfabeti di tutta la Penisola, e anche di transfughi dalla cultura borghese; risuonarono, scanditi dal ritmo terribile e imperativo di bastoni battuti sul tavolato, come la voce dell’apocalisse vendicativa degli ultimi tempi, risuonarono dolcissimi e violenti. Fu come il canto del gallo del poeta contadino Rocco Scotellaro che chiamava alla riscossa, perché era fatto giorno. O piuttosto sembrava che fosse fatto giorno. Dario Fo fu per anni impegnato nelle fila del Partito comunista italiano, e fu costretto ad abbandonarlo quando scoprì non che era revisionista, ma che ospitava dentro di sé gente che sfruttava disumanamente il lavoro a domicilio. Il grande sogno rivoluzionario era stato imbalsamato come il cadavere di Lenin. Allora Fo peregrinò, alla deriva ostinata, per le scene delle periferie più derelitte, senza mai arrendersi alla contraddizione della realtà che gli dava torto per tutti gli angiporti. Come gli amati eretici medievali portò con sé una parola in difesa dei perdenti, dei perseguitati, degli umili, degli sconfitti, e parve talora che rimproverasse lo stesso Dio di non adempiere ai suoi doveri di Padre e di sommo Giustiziere.
Fo fu un attore comico, non tragico, anche se toccò la tragedia di questo nostro paese. Doveva esser convinto che gli italiani, geneticamente estranei alla ragione tragica del mondo, hanno fatto dello sberleffo la loro arte di sopravvivenza. Fo fu una reincarnazione dell’infernale Alichino, diavolo affamato, ma sapiente. Gli italiani non assurgeranno mai alla natura di angeli, deludendo tutte le attese escatologiche dell’umanesimo ottimistico. Forse non faranno mai la rivoluzione, perché troppo radicati in una terra dalle consuetudini millenarie e troppo alieni dai bagni di sangue rigeneratori. Li salveranno non le tecnologie, non le manipolazioni genetiche delle specie, non la crescita infinita dei beni di consumo, ma l’arte della vita e della parola. La parola orfica che crea, quella tirtaica che spinge all’azione, quella didattica che forma l’uomo, quella del giullare che getta nella polvere i prepotenti della terra, quella dello sporco Marcolfo che fronteggia il re Salomone. Dario fu ossessionato dal potere e lo combatté coerentemente e costantemente per tutta la lunga vita. Non s’accorse che egli stesso possedeva un potere assoluto e lo esercitò: quello appunto della parola.