di Rino Genovese
Sotto certi aspetti, il Brasile odierno ricorda l’Italia dei primi anni sessanta del Novecento. È una sensazione vaga, naturalmente, che può essere compresa soltanto da chi in quei tempi lontani era un giovane o un bambino – ma la stessa marea di automobili, tra cui moltissime Fiat, che invade le strade di questa megalopoli informe che è São Paulo, può essere messa in connessione, mutatis mutandis, con quel boom economico italiano che trovò la sua battuta d’arresto nella “congiuntura”, e aveva visto, nelle nostre piccole città restie al traffico, dilagare le Seicento e le Cinquecento, nuove vetture a portata di tutti. Anche qui il trionfo della motorizzazione privata, a scapito di uno sviluppo dei trasporti pubblici, l’affermarsi protervo dei consumi privati di contro a quelli collettivi, era il segno sia di un’uscita di tanti dalla povertà, sia di una distorsione individualistico-atomistica che precludeva forme più avanzate d’individualismo sociale. Non completamente, in verità, perché vi fu anche, a cavallo tra i cinquanta e i sessanta, quello che è rimasto in fondo l’unico esperimento riformista di ampio respiro che la storia italiana abbia conosciuto: il primo centrosinistra – fatto dai Fanfani, dai Nenni e dai Lombardi – che aveva tentato, con un’alleanza di governo tra la Dc e il Psi, di razionalizzare se non altro il sistema (anche in vista di sviluppi ulteriori, nella visione che fu di Lombardi), in una maniera che però di lì a poco, nel segno della successiva stabilizzazione riassunta dall’immobilismo moroteo, sarebbe retrospettivamente apparsa nient’altro che una fugace meteora.
Ebbene, anche nel Brasile del 2015, dentro una crisi economica che potrebbe avere le caratteristiche di una “congiuntura”, l’impulso riformatore segna il passo. Marcello Tassara, un amico di origini italiane che fa il documentarista antropologo, sostiene che il cambiamento degli anni di Lula sia a questo punto irreversibile, perché c’è una coscienza dei lavoratori, una voglia di emancipazione ormai acquisita, che non potrà spegnersi. Per dirne una, nelle famiglie borghesi di São Paulo era normale che una domestica non avesse un orario di lavoro, e accadeva che lavorasse dieci o dodici ore al giorno senza straordinari di sorta; ora invece non supera le otto ore per contratto, con il sabato e la domenica liberi. Ciò significa che, a poco a poco, basandosi anche su un salario minimo stabilito per legge, quella domestica è uscita dalla dipendenza e dalla povertà. È un risultato che pare consolidato – ma se per la situazione che verrà a determinarsi nei prossimi mesi e nei prossimi anni, con un tasso di disoccupazione crescente, questa stessa domestica fosse costretta a lavorare in nero, beh, il retrocedere della sua condizione sarebbe inevitabile.
I diritti – in modo particolare i diritti sociali – non sono qualcosa che può dirsi acquisito una volta per tutte. C’è bisogno di una loro manutenzione costante (in Italia ne sappiamo qualcosa) e di una loro crescente estensione, perché quei diritti sono il portato di un conflitto sociale – magari sordo, non del tutto esplicito – che conosce avanzate e ritirate, uscita dalle casematte e ritorno nelle stesse. Il bastione dei diritti sociali, oggi in Brasile, assomiglia a una fortezza dei Tartari. Fuori si vedono muoversi le ombre, e non si sa che cosa il futuro potrà riservare: non si sa se si tratta di un’illusione ottica, che induce anche la destra a ritenere di poter tentare un colpo di mano contro Dilma, o se la fortezza non si stia consumando dall’interno (specialmente se la crisi non fosse solo congiunturale ma più di fondo), e insomma se la lunga esperienza socialdemocratica brasiliana non sia giunta al tramonto.