Operettadi Rino Genovese

L’operetta fu una delle invenzioni del Secondo Impero. Alle campagne militari, al predominio della finanza, alle “grandi opere” come la costruzione delle ferrovie e la ristrutturazione urbanistica di Parigi secondo modalità atte a prevenire le insurrezioni future, faceva riscontro la frivolezza di un genere musicale e teatrale che fu uno dei momenti attraverso cui  Napoleone il piccolo celebrò i suoi fasti. La data d’inizio di una politica populistica – spettacolarizzata, carismatico-plebiscitaria – d’inclusione repressiva delle masse popolari (a quei tempi se ne poteva parlare come di un blocco sociale tutto sommato abbastanza omogeneo, comprendente i contadini e gli operai) mediante l’attivazione di un consenso verso l’imperatore e le classi dominanti che avesse il significato di una “servitù volontaria”, di un’adesione toto corde all’oppressione, può essere fatta risalire a quel periodo. Ha quindi radici ottocentesche, come molti dei fenomeni nuovi, o apparentemente tali, che ci troviamo a vivere.

A Parigi oggi si respira un’aria da operetta. Alle voci da mezzo soprano, in falsetto, che cantano il mirabile ragazzo che ha sposato la professoressa di quasi venticinque anni più anziana (dimenticando che questa donna molto tradizionale si è totalmente dedicata alla carriera del giovane marito) fa da pendant la tonalità baritonale di uno come Bayrou, il politico di provincia cattolico-centrista infine arrivato a un posto di ministro dopo svariate candidature alle presidenziali e scarsi risultati in numero di seggi.

Naturalmente ci sono delle differenze rispetto al passato, anche se – bisogna sottolinearlo – il sistema della repubblica presidenziale fondato da de Gaulle reca in sé un tasso connaturato di bonapartismo. Il fenomeno Macron è nato dal nulla, direttamente a tavolino, non da una crisi rivoluzionaria come quella del 1848, ma più semplicemente dal fallimento dell’esperienza di governo di Hollande e della destra del Partito socialista. Le élites europee (ammesso che se ne possa parlare come di un blocco unico) avrebbero volentieri scommesso su un candidato della destra tradizionale come Fillon, che non avrebbe sconvolto il panorama politico francese – si sarebbe trattato di una banale alternanza –, ma c’è stato l’inconveniente che, azzoppata questa candidatura da uno scandalo di mediocre e ordinaria corruzione, il suo essere scaturita dalle “primarie” le ha dato una parvenza di legittimità inattaccabile: sicché un suo ritiro, a favore del secondo classificato Juppé (sostanzialmente un “doppione” di Macron sotto l’aspetto del programma), non è stato possibile. Al già sperimentato ultraliberale Fillon, in passato già premier sotto la presidenza di Sarkozy, si è allora sostituito il social-liberale, sostanzialmente centrista, Macron.

La novità se si vuole anti-politica e populistica di Macron è data dal fatto di essersi costruito in poco tempo un partito “fai da te”. Ma il modo in cui la distinzione destra/sinistra è stata scombussolata – inventandosi una distinzione tra progressisti e conservatori che farebbe ridere, se non significasse terribilmente che al centro dell’agenda viene messa l’idea di una riforma “progressista” del mercato del lavoro che è un approfondimento della (contro)riforma già avviata durante la presidenza Hollande – non mira a una sua cancellazione (come avviene nel peronismo, per esempio), quanto piuttosto a una sua anestetizzazione in un governo composto da esponenti centristi, della destra socialista e della destra moderata tradizionale, oltre che dalla solita congerie di “tecnici”. Per il resto, ci si sforza di costruire mediaticamente un grand’uomo da operetta.

A questo punto sarebbe grave se l’evaporazione del Partito socialista, già a uno stadio avanzato, arrivasse alle sue estreme conseguenze. La politica populistica totalizzerebbe il campo, che sarebbe completamente occupato dalle sue differenti versioni. I gruppi subalterni risultanti dalla enorme questione post-coloniale, in Francia stridente, come pure i perdenti dei processi di deindustrializzazione e delocalizzazione, non avrebbero più altra sponda se non quella di una politica del risentimento anti-europeo e anti-élites. I più deboli, gli oppressi (evito di proposito termini come “popolo” o “masse”) non orientati a, e non orientati da, una politica socialista degna del nome diventano facilmente preda di umori che, nell’incapacità di distinguere di volta in volta tra una destra e una sinistra, finiscono con il contrapporsi a un blocco monolitico “oligarchico” che è sempre più forte di loro. È il destino di una prospettiva populistica “dal basso”, di non saper discernere e non sapersi aprire spazi di manovra.

Questo significa che l’attuale stallo europeo potrà essere superato solo attraverso una rifondazione che non comprenda solo i vecchi partiti socialisti e socialdemocratici ma anche i nuovi movimenti. Il significato di Macron, oggi in Francia, è che alla crisi della rappresentanza democratica, che ha ormai pervaso anche quel paese, non si risponde con i populismi contrapposti di maggiore o minore intensità ma con una politica socialista.