John Woodcockdi Ferdinando Imposimato

Secondo un apice del Csm, i giudici non possono andare in tv. Davigo non può parlare della corruzione che costa all’Italia 70 miliardi l’anno. Altri 150 miliardi si volatilizzano per esportazione di capitali ed evasione, mentre i governi violano per inerzia la convenzione europea contro la corruzione. I soldi servirebbero a operai, docenti, forze dell’ordine, pensionati.

Il governo Renzi ha creato un’inutile autorità anticorruzione che non serve. Basterebbe attuare la Convenzione eliminando la prescrizione, l’amnistia per i corrotti e stabilendo pene adeguate. Oggi le pene sono ridicole rispetto ai furti. Qualche esempio: la corruzione in atti d’ufficio (art. 318) è punita fino a tre anni; per il furto con destrezza aggravato (art. 624 bis) la pena è da 3 a 10 anni. L’effetto: la corruzione si prescrive sempre, il furto mai. I ladri vanno in galera, i corrotti restano fuori.

Berlusconi ridusse la pena per il falso in bilancio, strumentale alla corruzione. Il Csm farebbe bene a denunziare tali storture chiedendo di attuare le riforme delle Commissioni Pagliaro e Nordio che invece giacciono al ministero della Giustizia perché non convengono né alla destra, né alla sinistra, né al centro.

La novità: il traffico di influenza, di cui è accusato Tiziano Renzi. La pena è di tre anni che però si prescrive sempre! Un giorno tenni una conferenza a Rebibbia a 200 detenuti. Chiesi quanti di loro erano condannati per corruzione: silenzio tombale. Forse non avevano capito la domanda. No. Nessuno era condannato per corruzione.

Il “governatore” Vincenzo De Luca, vorrebbe abolire, o modificare, l’abuso d’ufficio da cui è stato prosciolto. Il delitto fu già svuotato da Romano Prodi, imputato di abuso quando era premier. Il suo difensore, divenuto Guardasigilli, lo cambiò. Ma lo cambiò a favore degli imputati, e cioè di Prodi: Si stabilì che «il pubblico ufficiale che intenzionalmente procura a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale […] è punito fino a tre anni». Il furto invece (anche il furto al supermercato che spesso avviene per fame) arriva a 10 anni. Assurdo! I magistrati avvertirono: dopo la modifica, nessuno sarà più condannato.

Andreotti abrogò il delitto di interesse privato in atti di ufficio, pilastro del sistema penale degli Stati Uniti per la lotta alla corruzione e al conflitto di interessi. Abrogò il peculato per distrazione (chi impiega, per esempio, i soldi pubblici destinati a una scuola, per un albergo). Ma i colpi più devastanti alle leggi anticorruzione furono di Silvio Berlusconi. Approvò, appena insediato, un decreto (13 luglio 1994) che vietava (sic!) il carcere per corruzione e reati finanziari proprio mentre alcuni ufficiali della Guardia di Finanza confessavano di essere stati corrotti dal gruppo Fininvest ed erano pronti gli arresti per i manager che avevano pagato le tangenti. Il decreto impedì l’arresto e 2.764 detenuti per corruzione uscirono di carcere insieme a 350 colletti bianchi (compresi la Poggiolini, l’ex ministro De Lorenzo e Antonino Cinà, medico di Totò Riina). Di fronte a tutto questo il pool di Milano si autosciolse. Le proteste di piazza contro il “Salvaladri” furono numerose e costrinsero Berlusconi a far decadere il decreto, ma i corrotti erano ormai fuori e non tornarono in carcere. Di questo si dovrebbe occupare il Csm, non di fare uscire false notizie su Woodcock come falsario e complice di complotti.

Il Csm odierno somiglia sempre più a quel Csm che sconfessò Falcone e Borsellino. Nel gennaio 1988, infatti, quel Csm liquidò Falcone, candidato al posto di Antonino Caponnetto, capo dei Giudici istruttori, e scelse Antonino Meli. Poi, dando spazio ai detrattori di Falcone per presunti illeciti e omissioni nelle indagini su tre cavalieri del lavoro, creò le premesse per la distruzione morale del giudice palermitano. Dopo l’attacco a Falcone, Paolo Borsellino uscì dall’abituale riserbo e rilasciò il 20 luglio 1988 una dura intervista contro il Csm ad Attilio Bolzoni di «la Repubblica»”. Disse Borsellino: «Sono rimaste le macerie del pool. Falcone non è più titolare delle inchieste iniziate col maxiprocesso. È costretto a difendersi da accuse assurde e a lasciare Palermo».

Oggi sembrano esserci metodi più sofisticati per eliminare dal sistema magistrati scomodi e tenere in servizio quelli legati al potere. Dopo lo scoop del «Fatto» del luglio 2015 sulla telefonata tra Matteo Renzi e il generale Michele Adinolfi, e quello del 2016-2017 sul caso Consip, i giornali, «Corriere» in testa, hanno mirato prima a delegittimare Henry Woodcock e poi a creare la teoria del complotto politico contro il governo Renzi. La tesi è delineata nel libro di Renzi che ricorda in primis la telefonata tra lui e il generale Adinolfi, intercettata nel 2014 e pubblicata dal «Fatto» il 10 luglio 2015. L’intercettazione era stata disposta da Woodcock, con l’assenso del procuratore di Napoli, Colangelo. Renzi ricorda la telefonata: «È la prima volta in cui faccio la conoscenza del Noe (Nucleo ecologico carabinieri); su incarico di un pm di Napoli, il dottor Woodcock, mi intercetta. Apprenderò dell’intercettazione mentre sono presidente del Consiglio, grazie a uno scoop del Fatto Quotidiano firmato dal giornalista Marco Lillo». Woodcock godeva del pieno sostegno del procuratore capo, Giovanni Colangelo, su Cpl Concordia. Pronta la reazione: il governo Renzi, il 30 agosto 2016, anticipa l’età pensionabile dei magistrati. Giovanni Colangelo deve lasciare la direzione della procura ove Woodcock ha iniziato l’indagine Consip. Non basta: il governo proroga Giovanni Canzio presidente e Pasquale Ciccolo procuratore generale della Cassazione, i quali – attenzione – fanno parte del Csm come membri di diritto. Ciccolo – guarda caso – iniziò l’azione disciplinare contro Woodcock. Nel frattempo Colangelo, già nel mirino della camorra che vuole ucciderlo, è costretto a lasciare per legge. Ettore Ferrara, presidente del tribunale, constata: «L’obiettivo che la camorra sperava di perseguire per vie cruenti di togliere un magistrato efficiente come Colangelo dalla Procura di Napoli si realizza per una scelta del legislatore».

Un caso analogo: il governo Andreotti e Francesco Cossiga protrassero di due anni, con legge, il procuratore capo di Roma, Ugo Giudiceandrea, che indagava sui due, quali membri di Gladio. Giudiceandrea disse che non avrebbe archiviato prima della pensione. Di qui la proroga ad personam di due anni. E fu archiviazione del caso Gladio, all’origine della strategia della tensione.

Ma torniamo a Consip. Dopo una serie di articoli del «Fatto quotidiano», finalmente il «Corriere» è costretto a occuparsi di Consip, dopo che gli atti sono stai trasmessi alla Procura di Roma per competenza territoriale. Il 7 agosto 2017 Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini scrivono di «accuse di Anac ai manager di Consip, omissioni e ritardi nella maxi gara». Il reato ipotizzato dalla Procura di Roma è «turbativa d’asta». «Le imprese che sono riuscite a aggiudicarsi l’appalto Consip da 2.7 miliardi di euro avrebbero goduto di numerosi favoritismi». Il servizio del 7 agosto dice che «l’Anticorruzione contesta verifiche carenti sulla “moralità professionale” dei concorrenti, prevista dalla legge»; «ma anche numerose anomalie sulla compilazione dei fascicoli relative alle diverse aziende partecipanti, compresa Consip».

L’inchiesta per perdita di prestigio si è allargata a indagine disciplinare. Woodcock rischia il trasferimento lasciando le inchieste su Consip e sulla Cpl Concordia. Per un po’ il Csm è rimasto alla finestra. L’indagine disciplinare contro Woodcock è andata avanti. Al Csm fu comunicato, prima delle ferie, che a Woodcock e alla collega Celeste Carrano il procuratore Ciccolo aveva contestato – nientemeno! – «grave violazione di legge dovuta a ignoranza o negligenza inescusabile». Poi si seppe che Colangelo aveva condiviso. Il fatto riguardava l’interrogatorio dell’ex consigliere economico di Palazzo Chigi, Filippo Vannoni, sentito come testimone, nonostante che l’ex amministratore di Consip, Luigi Marroni, avesse indicato Vannoni come uno che l’aveva avvertito dell’indagine. Sull’accusa di non avere inquisito il faccendiere Carlo Russo, e non Tiziano Renzi, nonostante le due posizioni andassero «di pari passo», Woodcock spiegò che aveva rinviato per non condizionare le elezioni amministrative, d’accordo col procuratore Colangelo.

Sul «Fatto» del 21 settembre 2017 Antonella Mascali ci aiuta a capire l’inganno: nota che Il caso Consip coinvolge il Csm. Il verbale della procuratrice di Modena, Lucia Musti, era uscito ad arte per favorire le “balle” di Renzi sul complotto. «Strumentalizzazioni politiche» del verbale Musti e «responsabilità del Consiglio» erano ammesse dai magistrati Piergiorgio Morosini e Antonello Ardituro, ex pm di Napoli. «So per certo che non è stata la Procura di Roma a dare alla stampa il verbale», ha detto Ardituro. «La scorsa settimana è stata imbarazzante. Speravo che qualcuno sottolineasse il fatto gravissimo della pubblicazione del Verbale Musti su alcuni quotidiani». E ha aggiunto: «La pubblicazione di questo verbale ha destato perplessità e confusione, mettendo il Csm al centro dell’agone politico». Il magistrato Morosini incalzava: «Diverse testate hanno fatto credere la responsabilità del pm [Woodcock] sulla fuga di notizie dell’intercettazione Renzi-Adinolfi [contenuta nel fascicolo Cpl-Concordia, ndr]. Ma – rilevò Ardituro – abbiamo sentito dalla Prima Commissione che è radicalmente da escludere la responsabilità del pm Woodcock». Anziché essere grato ad Ardituro per il chiarimento, ha risposto risentito Luca Palamara, relatore con Aldo Morgigni della pratica.

Era anzitutto dovere di Palamara di rettificare le “balle” propalate dal «Corriere» e altri giornali, anziché tacere favorendo il linciaggio di Woodcock a mezzo stampa di fronte alle accuse di Renzi e altri politici del Pd. Ancora più sorprendente il comportamento del presidente della Prima Commissione che ha proposto la desecretazione degli atti e l’invio alla Procura di Roma. Giuseppe Fanfani, laico renziano della prima ora, nega ogni responsabilità sull’uscita del verbale Musti. Fanfani ha ammesso di aver trasmesso il verbale Musti alla Procura di Roma, pur non essendoci elementi penalmente rilevanti e andando contro la prassi secondo cui gli atti si mandano alla fine dell’istruttoria. Fanfani ammette: «l’obbligo non c’era perché non c’erano notizie di reato, ma abbiamo ritenuto utile far conoscere quelle carte ai pubblici ministeri che indagano sull’ipotesi di scorrettezze da parte degli ufficiali che si sono occupati di Consip». Una scusa banale. È venuta fuori evidente la macchinazione diretta a delegittimare Woodcock che vede di fatto coinvolti un politico legato a Renzi, Giuseppe Fanfani, e magistrati che, tacendo, hanno favorito lo scandalo. Oggi, per fortuna, grazie al «Fatto quotidiano» e a «Affari Italiani» è venuta fuori l’assurdità del complotto contro Renzi. La verità era che lo scandalo Consip era provato dalle tangenti per truccare il più grande appalto d’Europa; dalle “soffiate” istituzionali per salvare i responsabili dal carcere; dal riesame che dà ragione ai pm sul sistema di corruzione; dal patteggiamento di Marco Gasparri per mazzette che egli dice di aver avuto da Romeo nell’arco di 4 anni per un ammontare di100.000 euro e dal gip che parla di gravi indizi di corruzione.

Un signore toscano di nome Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi, era già entrato più volte nell’ufficio di Alfredo Romeo per parlare degli appalti che interessavano l’imprenditore. Non solo Consip ma anche Grandi Stazioni e Inps. Stando alle informative dei carabinieri (Gianpaolo Scafarto), il 3 agosto 2016 Romeo aveva chiesto a Russo di incontrare il padre del premier di allora perché aveva problemi con il suo amico amministratore di Consip, Luigi Marroni, per appalti del valore di centinaia di milioni di euro. Russo aveva proposto di fare una “bisteccata” a casa di Tiziano Renzi con Marroni. Il 31 agosto 2016 Romeo tornò alla carica e Russo gli riferì la risposta di Tiziano in questi termini: «gli ho detto che dobbiamo fare ’sto passaggio con Marroni! M’ha detto: “Fammi finire sto casino, prossima settimana ci mettiamo”».

Romeo aveva proposto a Russo il famoso «accordo quadro» che poi sarà precisato il 14 settembre 2016 nel foglio che – secondo l’interpretazione dei carabinieri – reca l’offerta di 30.000 euro al mese per Tiziano Renzi in cambio di un incontro con Luca Lotti e con Luigi Marroni per propiziare un occhio di riguardo su Romeo da parte della Consip guidata da Marroni.

La confidenza di Scafarto («scoppierà un casino arriviamo a Renzi») non è la prova del movente delle macchinazioni contro Tiziano e Matteo, ma una previsione sulla base di indizi già raccolti.

Prima però ricordiamo come è nata la teoria che piace tanto ai grandi giornali, alla politica e ai membri del Consiglio superiore della magistratura vicini a Renzi.

Il teorema (ben descritto da Bonini su «la Repubblica») connette due fatti diversi: lo scoop del «Fatto» del luglio 2015 sulla telefonata di Matteo Renzi con il generale Michele Adinolfi e lo scoop del «Fatto» del 2016-2017 sul caso Consip. Il teorema è delineato nel libro di Renzi quando si ricorda la telefonata tra lui e il generale della GdF Adinolfi, nella quale i due sparlavano di Enrico Letta, telefonata intercettata nel 2014 e pubblicata dal «Fatto» il 10 luglio 2015. «È la prima volta – scrive Renzi – in cui faccio la conoscenza del Noe, che su incarico di un pm di Napoli, il dottor Woodcock, mi intercetta. Apprenderò dell’intercettazione mentre sono presidente del Consiglio, grazie a uno scoop del “Fatto Quotidiano” firmato dal giornalista Marco Lillo». Segnatevi mentalmente questo passaggio: Procura di Napoli, un certo procuratore Colangelo, il Noe dei carabinieri, il «Fatto Quotidiano», un certo giornalista. Siamo nel 2014, non nel 2017. Che poi i protagonisti siano gli stessi anche tre anni dopo è una coincidenza: sono cose che capitano.

L’insinuazione che «Il Fatto Quotidiano» abbia ottenuto le notizie per i due scoop nel 2015 e nel 2016-17 grazie al Noe e al pm Woodcock è falsa e diffamatoria ma trova subito una grancassa nelle istituzioni.

Il libro di Renzi esce il 12 luglio 2016 e sembra il canovaccio delle domande poste al pm Lucia Musti di Modena appena cinque giorni dopo dal presidente della prima commissione del Csm. L’avvocato Giuseppe Fanfani, ex sindaco Pd di Arezzo, amico di Maria Elena Boschi e già legale del padre, ascolta con i suoi colleghi del Csm il procuratore di Modena nell’ambito del procedimento contro Henry John Woodcock finalizzato a capire se il pm di Napoli, che ha osato intercettare il padre del leader Pd, debba essere trasferito per incompatibilità.

La pm Lucia Musti ha ricevuto per competenza nell’aprile del 2015 le carte del fascicolo Cpl Concordia, istruito da Woodcock, nel quale era l’intercettazione di Matteo Renzi con il generale Adinolfi. La telefonata divenne pubblica nel luglio 2017 perché non era più segreta e «Il Fatto Quotidiano» – come la Procura di Napoli ricostruisce nel 2016 – l’ha avuta da fonti non investigative in modo lecito. E non era più segreta per una svista non del pm Woodcock ma degli uffici dei pm dell’antimafia che l’avevano ricevuta per competenza di materia da Woodcock, proprio come la dottoressa Musti l’aveva avuta a Modena.

I pm di Napoli nel 2015-16 indagarono i carabinieri del Noe che avevano aiutato il personale di segreteria, oberato di lavoro, a effettuare la scansione delle pagine, senza avvedersi che l’informativa depositata non era quella omissata ma la versione precedente, che non conteneva gli omissis. Così quelle due pagine così delicate, con i giudizi sprezzanti di Renzi su Letta, sono finite nel computer della Procura, computer accessibile a tutti gli avvocati del procedimento. Tre avvocati (almeno) ne vennero in possesso e così «Il Fatto Quotidiano» ha potuto acquisire tutte le carte pubbliche del fascicolo, compresa quella che doveva restare segreta. Questo tragitto è stato accertato dai pm e dai loro periti informatici grazie anche alle perquisizioni ai danni dei giornalisti del «Fatto» e al sequestro e all’analisi del computer del collega Vincenzo Iurillo, che ha firmato quello scoop con chi scrive questo articolo.

I carabinieri del Noe furono indagati e interrogati, ma i pm Alfonso D’Avino e Giuseppe Borrelli ne chiesero l’archiviazione a febbraio 2016 perché: 1) «è da escludersi che la scansione integrale della informativa del 15.10.2014 sia stata intenzionalmente effettuata dai militari al fine di renderla estensibile attraverso il suo inserimento al Tiap [il sistema informatico della Procura, ndr]»; 2) «la pubblicazione degli atti era avvenuta a opera del cancelliere [incolpevole anche lui, ndr] addetto alla segreteria del pm dell’antimafia Cesare Sirignano».

L’audizione della dottoressa Musti al Csm doveva essere diretta ad appurare le responsabilità dei magistrati in quella fuga di notizie. Woodcock in questo caso non aveva alcuna responsabilità, ma il pm Musti ne approfitta per fare due dichiarazioni contro i carabinieri del Noe che sono la polizia giudiziaria preferita dal pm napoletano. La prima riguarda il fascicolo Cpl-Concordia del 2015 e l’allora vicecomandante del Noe Sergio De Caprio, alias Ultimo. Ecco la “seconda versione” del verbale pubblicata da «la Repubblica» (diversa da quella del giorno precedente) riguardo all’incontro Ultimo-Musti per le carte dell’indagine Cpl-Concordia del 2015: «Il presidente Fanfani chiede: “Chi glielo disse?”. Musti: “Il colonnello De Caprio mi disse: Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere”. Fanfani: “Ma in riferimento a cosa?”. Lei: “Ma cosa ne so? Cioè, io non lo so perché erano degli agitati. Io dovevo lavorare su Cpl-Concordia, punto, su quest’episodio di corruzione. Dissi ai miei: prima ci liberiamo di questo fascicolo meglio è”».

Musti, quindi, sta dicendo al Csm che Ultimo, quando consegnò il fascicolo Cpl-Concordia a Modena, disse che era una bomba. Il fascicolo non era centrato su Renzi, ma sulla coop emiliana e conteneva intercettazioni del 2014 riguardanti: a) i rapporti tra Massimo D’Alema e la Cpl-Concordia; b) la Fondazione Icsa, fondata da Marco Minniti ma lasciata dall’ex sottosegretario nel 2013; c) intercettazioni su altri personaggi del Pd tra cui anche Matteo Renzi, ma non solo lui.

Dal testo del secondo (e probabilmente vero) verbale pubblicato da «la Repubblica» si evince chiaramente che il pm Lucia Musti non dice, e nemmeno insinua mai, che “la bomba” a cui faceva riferimento Ultimo fosse l’intercettazione di Renzi con Adinolfi.

La seconda cosa che dice il pm Lucia Musti al Csm riguarda il fascicolo che nel 2016 vedeva il solito Noe, sempre sotto la direzione del pm Woodcock, impegnato sul versante Consip. Così sempre «la Repubblica» riferisce la versione del pm Lucia Musti su un suo incontro con il capitano Scafarto ai primi di settembre del 2016: «Lui mi ha parlato del caso Consip, un modo di fare secondo me poco serio, perché un capitano, un maresciallo, un generale sono vincolati al segreto col loro pm. Non devi dire a me che cosa stai facendo con un altro. Quindi, quando lui faceva lo sbruffone dicendo che sarebbe “scoppiato un casino”, io dentro di me ho detto “per l’amor di Dio”. Una persona seria non viene a dire certe cose, quell’ufficiale non è una persona seria». Fanfani vuole dettagli: «De Caprio ha detto: “Ha una bomba in mano”, mentre Scafarto: “succederà un casino”?». Musti risponde: «Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi».

È evidente dalla lettura di questa versione del verbale l’inesattezza di quanto pubblicato nella prima versione. Lucia Musti non ha mai dichiarato che Ultimo e Scafarto le dissero: «Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi». Una cosa è la bomba Cpl-Concordia, di cui parla Ultimo senza alcun riferimento a Renzi e alla sua conversazione con Adinolfi, poi pubblicata da «Il Fatto Quotidiano», altra cosa è quel generico «scoppierà un casino, arriviamo a Renzi» che sarebbe stato detto nel settembre 2016 dal capitano Scafarto, quando aveva già in mano indizi pesanti su Tiziano Renzi.

La scorretta rappresentazione della realtà fatta dai grandi quotidiani insinua che la bomba di cui parlava Ultimo a Lucia Musti nel 2015 fosse l’intercettazione Adinolfi-Renzi. Non basta. La grande stampa e il Pd al seguito forzano anche il senso della frase di Scafarto per insinuare un intento complottistico del Noe contro Renzi nel 2016.

La rappresentazione di un colloquio in cui Scafarto parla con Musti prima di avere nelle mani gli indizi e le registrazioni che inguaieranno Tiziano Renzi ha permesso al Pd Michele Anzaldi di presentare un’interrogazione al governo e ha fatto parlare l’ex segretario Pd Dario Franceschini di «fatti di gravità inaudita» e il capogruppo Pd Luigi Zanda di «complotto». Grazie a questo modo di fare informazione non è apparsa ridicola la visita di Matteo Renzi a Rignano così raccontata sul «Corriere» in un articolo intitolato Consip, Renzi subito a Rignano dal padre. Con lui il faccia a faccia della pace. Il pezzo è uscito il 14 settembre, proprio nel primo anniversario del giorno del famoso pizzino. Infatti il 14 settembre 2016 Alfredo Romeo scrisse su un foglietto ritrovato nella spazzatura dal Noe e interpretato come un’offerta, nero su bianco, al “compare” di Tiziano Renzi, Carlo Russo, di 30.000 euro al mese, destinati a “T.” che, secondo la tesi accusatoria, sarebbe Tiziano Renzi.

Al di là delle conseguenze politiche della strumentalizzazione delle frasi della pm Musti, c’è una conseguenza giudiziaria di non poco conto. Alla Procura di Roma sono state trasmesse dal Csm le dichiarazioni della pm di Modena perché i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi valutino se inserirle nel fascicolo contro Woodcock. Non solo. La solita prima commissione del Csm, presieduta dal solito Giuseppe Fanfani, convocherà i due pm di Napoli, Giuseppe Borrelli e Alfonso D’avino, che si sono occupati dell’indagine sulla pubblicazione da parte del «Fatto» dell’intercettazione Renzi-Adinolfi.

In pratica il presidente della commissione del Csm convoca i procuratori aggiunti di Napoli e trasmette carte alla Procura di Roma perché finalmente si indaghi a fondo nella direzione del collegamento tra i due scoop del «Fatto», proprio la direzione auspicata dal leader Matteo Renzi nel suo libro.

Al vertice della Cassazione il Csm scelse Giovanni Canzio, salernitano, classe 1945, e come Procuratore generale, nel febbraio 2015, Pasquale Ciccolo. Dal 1995 al 2009, in Cassazione, Canzio era stato relatore al processo ad Andreotti, condannato in appello per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli: condanna annullata senza rinvio. Da presidente della Corte d’appello di Milano, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, criticò la Procura di Palermo, che aveva chiesto l’audizione del presidente Giorgio Napolitano nel processo sulla trattativa Stato-mafia.

Tre mesi dopo, a marzo 2017, con Tiziano Renzi indagato a Roma per traffico di influenze, a Napoli fu intercettato nuovamente, senza che fosse inquisito, nell’ambito di un’indagine per associazione per delinquere che non lo riguardava direttamente. Da quelle registrazioni venne fuori la telefonata tra Tiziano e Matteo Renzi, pubblicata dal «Fatto». In seguito il procuratore di Modena, Lucia Musti, al Csm avrebbe riferito dei difficili rapporti con i carabinieri del Noe, ma poi avrebbe detto che le notizie partite dal Csm non erano esatte, denunziando alcune inesattezze circolate sulla sua deposizione, mentre Matteo Renzi commentava: «Il tempo gioca con la nostra maglia. Lo vedremo anche alla fine di questa torbida vicenda».

Tiziano Renzi continua a negare ogni addebito, ma, stando alle ricostruzioni giornalistiche, l’inchiesta Consip si allarga e non solo tocca sempre di più il padre dell’ex premier, ma ora arriva a coinvolgere anche Denis Verdini. A rivelare questo importante passaggio, «L’Espresso». Nell’inchiesta si parla della deposizione di Luigi Marroni, amministratore delegato di Consip: le accuse nei confronti del padre dell’ex premier sono pesantissime: «l’imprenditore Carlo Russo mi ha chiesto di intervenire su un appalto da 2,7 miliardi di euro per conto del babbo di Matteo e di Verdini». Queste le parole pronunciate davanti ai pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano. «Mi dissero che erano gli arbitri del mio destino professionale». La cosa curiosa, peraltro, è che nell’intervista pubblicata da «la Repubblica», lo stesso Marroni si è limitato ad ammettere che «la gente pensa di potermi chiedere favori. Il segreto è uno solo: non fare questi favori, anche se dire no magari comporta un prezzo». Ma, nella deposizione davanti ai pm di Napoli, l’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, è stato molto più chiaro: «l’imprenditore Carlo Russo mi ha chiesto di intervenire su un appalto da 2,7 miliardi di euro per conto del babbo di Matteo e di Verdini. Mi dissero che erano gli arbitri del mio destino professionale».

Il maxi-appalto per il facility management (gestione integrata dei servizi di pulizia, manutenzione, gestione energetica, ecc.), bandito nel 2014 da Consip, la centrale unica degli acquisti della pubblica amministrazione interamente controllata dal Tesoro, è al centro dell’inchiesta che ha portato all’arresto di Romeo con l’accusa di aver corrotto il dirigente Consip Marco Gasparri. Il padre dell’ex premier, com’è noto, è indagato per concorso in traffico di influenze, il reato del mediatore di un accordo corruttivo. Sostenere che «ci sono tantissime illazioni e c’è solo una ipotesi di corruzione» – come ha affermato Raffaele Cantone il 19.09.2017 a Radio Capital – mi sembra riduttivo. La testimonianza di Luigi Marroni assieme alla confessione di Marco Gasparri, alle telefonate intercettate, ai riscontri oggettivi sulle somme percepite fanno dello scandalo Consip uno dei più gravi episodi di corruzione avvenuti in Italia dalla nascita della Repubblica. Secondo Marroni, sarebbe stato proprio il ministro dello Sport, Luca Lotti, a dirgli di essere intercettato. «Mi disse di averlo saputo da Del Sette», ha specificato Marroni. Nel primo interrogatorio avvenuto la scorsa estate si era ridimensionata la circostanza da parte di Ferrara, affermando che si era trattato «di un generico avvertimento a stare lontano da Romeo». Una versione che evidentemente stride con le verifiche svolte in seguito. Non solo. In seguito Ferrara avrebbe ritrattato quanto ha detto. E così è stato formalmente accusato.

Adesso, dopo tutto quello che è accaduto nell’inchiesta sulla centrale acquisti della pubblica amministrazione – e che ha fatto finire in secondo piano l’episodio di corruzione da cui era partita – il Consiglio superiore della magistratura ha deciso che è arrivato il momento di prendere in esame le presunte irregolarità che sarebbero state commesse nell’indagine Consip, nell’indagine sulla Cpl-Concordia e sulla metanizzazione dell’isola di Ischia, che, oltre ad avere lo stesso magistrato titolare, il pm napoletano Henry John Woodcock, ha subito il medesimo trattamento: fughe di notizie, informative manipolate, intercettazioni penalmente irrilevanti finite sui giornali, scontri tra procure. Il Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli ha investito del caso la prima commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati per incompatibilità, dopo aver ricevuto una lettera del procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, che esercita la vigilanza sulle toghe del distretto. I riflettori del Csm saranno puntati sulle modalità con cui Woodcock ha condotto le due inchieste (quella Consip è stata poi in parte trasmessa a Roma per competenza, ndr), costellate da identici incidenti di percorso. I relatori della pratica saranno i consiglieri togati Aldo Morgigni e Luca Palamara. Il consigliere laico Pierantonio Zanettin ha commentato: «Finalmente il comitato di presidenza del Csm ha deciso di affrontare il caso Consip in prima commissione. I contenuti della pratica non sono noti, in quanto secretata, tuttavia il sollecito rivolto alla prima commissione a definire il fascicolo sulla questione Concordia, di cui avevo chiesto l’apertura nel 2015, unitamente alla trasmissione della informativa proveniente dalla procura generale di Napoli, costituiscono una svolta».

Finora il Csm si era tenuto fuori, pur avendo inizialmente ipotizzato di istruire una pratica sul presunto scontro tra la Procura di Napoli e quella di Roma. I pm della capitale avevano deciso di aprire un fascicolo per fuga di notizie sui carabinieri del Noe e sulla polizia giudiziaria di riferimento di Woodcock. A quest’ultimo avevano deciso di revocare la delega di indagine, mentre il magistrato napoletano gli aveva confermato l’incarico e la fiducia. Poco dopo è giunta l’indagine per falso nei confronti del capitano del Noe, Giampaolo Scafarto, sospettato di aver alterato un’informativa, e per depistaggio nei confronti del vicecomandante del nucleo, Alessandro Sessa.

I riflettori del Csm punteranno inevitabilmente anche sulle intercettazioni, non agli atti, che qualche manina ha fatto finire sui giornali. Nella vicenda Consip si tratta della conversazione privata tra Matteo Renzi e il padre, in cui l’ex premier lo sollecitava a dire la verità. Pur non avendo alcuna rilevanza penale, è arrivata a «Il Fatto Quotidiano», lo stesso giornale che ne pubblicò un’altra ugualmente inutile ai fini dell’indagine nell’ambito dell’inchiesta Cpl-Concordia, fra il generale della Finanza Michele Adinolfi e ancora Renzi, in cui il segretario del Pd dava dell’«incapace» a Enrico Letta. Un’inchiesta diversa con analogie impressionanti, sempre targata Woodcock e condotta dal suo uomo del Noe preferito, il solito Scafarto. Su tutto questo la prima commissione comincerà gli accertamenti istruttori.