scuoladi Giovanna Lo Presti

Una società, come quella basata sul profitto sfrenato,
che non fa onore ai propri insegnanti, è difettosa

(George Steiner).

Dopo Berlinguer, Moratti e Gelmini adesso anche Renzi vuole lasciare il suo segno sulla scuola italiana: la quarta “riforma” della scuola italiana nel breve volgere di tre lustri sta per approdare in Senato. Noi speriamo che quel tratto di mare che la “riforma” deve ancora percorrere sia molto, molto agitato – tanto da impedire all’ingegnosa navicella renziana di raggiungere il porto. Speriamo, insomma, in un bel metaforico naufragio; e speriamo che quello della “buona scuola” sia il primo, importante insuccesso di Matteo il Giovane, perché questo paese non ha bisogno di un primo ministro che auspichi il Partito Unico, il Sindacato Unico e la «Buona Scuola». A differenza del Partito e del Sindacato, la Scuola della Repubblica dovrebbe davvero essere unica – invece ha un suo “doppio” nella scuola privata, che lo Stato vorrebbe far crescere a detrimento della propria scuola. Tant’è che anche quest’anno il “doppio” è già stato rimpinguato con un bel po’ di soldi: più di 470 milioni di euro.

Tale è il protagonismo di Matteo il Giovane da averlo spinto a eclissare la già scialba figura del ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, sinora distintasi per l’aria sprezzante e per una singolare (almeno per una glottologa) povertà linguistica: non ha trovato di meglio, per un gruppo di insegnanti che la stavano contestando, che definirli «squadristi».

Più di una affinità con il ventennio fascista, ahimé, la si può rintracciare invece proprio nella «buona scuola»: il rafforzamento del potere dei presidi che, nella riforma gentiliana era funzionale e organica a una visione della scuola e della società, nel documento renziano entra in conflitto con una melassa falsa e bugiarda che dovrebbe costituire la «finalità» della «buona scuola», «una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva, di garantire il diritto allo studio e pari opportunità di successo formativo per gli studenti e l’educazione permanente per tutti i i cittadini». Parole vuote, come sono vuote le parole sulla presunta autonomia scolastica, che dovrebbe comportare «la programmazione plurisettimanale e flessibile dell’orario complessivo del curricolo e di quello destinato alle singole discipline, anche mediante l’articolazione del gruppo della classe; il potenziamento del tempo scolastico anche oltre i modelli e i quadri orari, nei limiti della dotazione organica dell’autonomia […] tenuto conto delle scelte degli studenti e delle famiglie; la programmazione plurisettimanale e flessibile dell’orario complessivo del curricolo e di quello destinato alle singole discipline, anche mediante l’articolazione del gruppo della classe», – insomma, una sorta di scuola on demand, a patto che tutto stia «nei limiti delle risorse strumentali e finanziarie disponibili». Una vera sciocchezza. Difatti, non c’è riforma della scuola possibile senza un netto e reale aumento della spesa per l’Istruzione: e l’Italia è all’ultimo posto tra i paesi Ocse per spesa per l’istruzione rispetto al Pil1. Sappiamo inoltre che, tra le caratteristiche della scuola italiana, c’è quella di avere la classe docente più vecchia d’Europa. Il dato vale sia per il personale assunto a tempo indeterminato sia per il personale precario; l’ultimo forum sui lavoratori della Pubblica Amministrazione, tenutosi nel 2014, ha messo in luce come, nel complesso, l’età media dei docenti sia di 51 anni. Due insegnanti italiani su tre sono ultracinquantenni, l’11,3% ha più di 61 anni e appena lo 0,2% ha meno di 30 anni. Nei paesi Ocse, invece, in media i docenti giovani under 30 sono il 10%. Già prima della “riforma” Fornero la situazione non era tranquillizzante: un’indagine della Fondazione Agnelli, presentata nel febbraio del 2009, rilevava un’età media dei docenti superiore ai cinquant’anni (47 anni nella scuola primaria, 51 anni nella scuola secondaria inferiore, 53 anni nella secondaria superiore). Gli insegnanti con più di 50 anni risultavano, già nel 2008, essere più del 55% del totale. La differenza, rispetto al 2011 (che partorisce a fine anno la “riforma” Fornero) è che, in quel momento, la vita lavorativa di un cinquantenne non andava oltre il decennio. Adesso, a cinquant’anni ci si deve attendere di lavorare ancora per diciassette o diciotto anni.

Un altro dato: il concorso Profumo del 2012 ha visto la partecipazione di 321.210 candidati alla prova pre-selettiva, per 11.542 cattedre a bando. Fra i partecipanti le donne erano 258.476, gli uomini 62.734. Età media vicina ai quarant’anni, fatto inquietante, se vivessimo in un paese normale e normalmente governato. Avere la conferma che esiste in Italia una sacca di disoccupazione intellettuale equivalente agli abitanti di una città come Bari dovrebbe destare un allarme sociale. Così come è un allarme sociale quello di una classe docente abnormemente vecchia. Che nessuno si chieda quali siano le conseguenze per i docenti “anziani”, precari o stabili, e per gli studenti, è segno della colpevole incuria con cui la nostra classe dirigente pratica il proprio lavoro.

Troppe scuole italiane si sono trasformate in luogo di conclamato malessere; ce lo raccontano, con tono scandalistico, frequenti fatti di cronaca. In questa sede vorremmo andar oltre la notizia “gridata”, lasciare sullo sfondo (senza dimenticarlo) il disegno di legge ironicamente denominato «La buona scuola» e cercar di capire perché a scuola, troppo spesso, si viva male.

Aggiungiamo soltanto che nel ddl «La buona scuola» nessuno dei punti che segue è affrontato in modo credibile: è evidente invece l’intenzione di limitare la libertà di insegnamento dando maggiori poteri ai dirigenti scolastici e, parallelamente, decontrattualizzando il rapporto di lavoro. Appena approvato il ddl, per esempio, qualsiasi parte del Ccnl in vigore (scaduto da sei anni) in contrasto con il ddl perderà di efficacia. Si immagina senza fatica dove si andrà a parare: abbiamo già capito che, rispetto al lavoro dipendente, lo slogan preferito di chi ci comanda è «più orario e meno salario». Dopo l’approvazione del ddl sarà abbastanza semplice applicarlo al milione di lavoratori della scuola.

Parlare dello stato della scuola in Italia richiederebbe senz’altro un’analisi molto articolata; qui ci limiteremo a mettere a punto alcune tesi per il benessere di studenti e insegnanti, tenendo sempre presente il problema da cui partiamo – e cioè il fatto che, nell’ultimo ventennio, i problemi reali della scuola di massa sono stati sottovalutati e che, parallelamente, la figura dell’insegnante ha subito una perdita di status drammatica. A chi, come Matteo il Giovane, è convinto che i lavoratori della scuola difendano delle «rendite di posizione»2 e pensino quindi che «la scuola sia intoccabile» siamo tentati di rispondere in un solo modo: venite a verificare personalmente quale rendita di posizione sia insegnare nelle nostre scuole.

Le tesi

1) L’istruzione è la via principale per raggiungere la meta fissata dall’articolo 3 della Costituzione italiana: «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Lo Stato si impegna a rimuovere tali ostacoli – ergo lo Stato dovrebbe fare delle proprie scuole un luogo in cui si sta bene e si impara bene, qualunque sia la famiglia di provenienza dello studente.

Guardiamole, invece, le nostre scuole: luoghi fatiscenti, non abbastanza puliti, non decorosi, carenti delle attrezzature fondamentali per la didattica. Mentre scrivo ho dinanzi agli occhi la biblioteca della scuola in cui lavoro: una specie di magazzino, zeppo di mobili di recupero. Negli scaffali, il segno di un passato migliore, di tempi in cui i libri si potevano ancora acquistare; brutte luci al neon, che illuminano squallidi tavoli. Un unico computer del quale, personalmente, non ho ancora capito la funzione, visto che non lo si può usare. Guardiamole, le nostre aule: pareti scrostate, lavagne antiquate, arredi acquistati secondo il criterio dell’economia. Cosa comunicano ai bambini, ai ragazzi questi ambienti, se non il fatto che sono ospitati in un luogo che non vale la pena di rispettare? Quindi, in primo luogo, le scuole devono essere luoghi dignitosi – e non a parole, e non seguendo la logica sbruffona dell’attuale primo ministro, secondo il quale per le scuole «belle e sicure» erano a disposizione tre miliardi di euro già lo scorso anno. Peccato che non si sappia che fine abbiano fatto.

Inoltre, così come deve essere dignitoso l’ambiente scolastico, allo stesso modo deve essere dignitosa la figura dell’insegnante (e anche, va da sé, quella degli altri lavoratori della scuola). Ma se lo stesso ministro dell’Istruzione Giannini (mi riferisco a un episodio recente, che sarà ancora nella memoria di molti) in una trasmissione televisiva tratta gli insegnanti con protervia e supponenza, come si può pensare che l’opinione pubblica guardi agli insegnanti con simpatia? Quella dell’insegnante è peraltro una professione su cui tutti, a torto o a ragione, hanno qualcosa da dire. Nessuno si sognerebbe di dar consigli a un professionista nel suo ambito di competenza, mentre tutti sanno cosa c’è che non va negli insegnanti e nella scuola. Un’analisi acuta del discredito sociale che grava sull’insegnante l’ha compiuta Adorno, in un suo saggio ormai lontano nel tempo, ma che voglio ricordare sia perché non è molto conosciuto sia perché ciò di cui il filosofo parla è materia del tutto attuale. Dunque, Adorno sostiene che sull’insegnante grava una sorta di tabù, in senso freudiano:

Tabù è un vocabolo polinesiano che ci è difficile tradurre perché non possediamo più il concetto che corrisponde a tale vocabolo. Il concetto era ancora familiare agli antichi romani: il termine latino sacer è l’esatto equivalente del tabù dei polinesiani […]. Per noi il significato di tabù si sviluppa in due direzioni opposte e divergenti. Da un lato vuol dire santo, consacrato. Dall’altro lato: perturbante, pericoloso, proibito, impuro3.

Tabù sta insomma a indicare un’ambivalenza emotiva, un sentimento insieme di attrazione e repulsione, di divieto e di volontà di infrazione. Anche quando i motivi remoti che hanno generato un tabù non sono che pallidissime tracce, i residui di tali motivi restano operanti nella mentalità collettiva, dando origine a un tabù sociale. Nel suo saggio Adorno mette a fuoco una serie di elementi che giustificano l’atteggiamento di ambiguità che il corpo sociale ha nei confronti dell’insegnante, la cui figura, per quanto necessaria, è colpita da un discredito che, a quanto pare, è tanto forte oggi quanto nella Germania degli anni sessanta. Tale discredito è da Adorno spiegato con una pluralità di argomenti, primo fra tutti il fatto che l’insegnante sia l’evoluzione di una figura sostanzialmente servile, quella del precettore. Nello stesso tempo, fra le professioni intellettuali quella dell’insegnante si caratterizza per il fatto di non essere una libera professione: il rapporto di tipo impiegatizio che l’insegnante mantiene con il suo datore di lavoro toglie qualsiasi aura di “audacia” alla professione dell’insegnante, che è ridotto a essere qualcuno che preferisce non rischiare, qualcuno che si tiene fuori dall’agone, che si sottrae, imboscandosi, alla competizione. E ancora, come spiegare la mancanza di prestigio dell’insegnante a confronto dell’indubbio prestigio del docente universitario? Lasciando da parte la netta differenza di retribuzione (in una società mercantile chi guadagna poco inevitabilmente vale poco) resta ciò che ci porta al cuore del problema. Mentre l’insegnante deve necessariamente affrontare l’aspetto disciplinare, questo non è richiesto al docente universitario. I suoi studenti frequentano liberamente, sono soggetti autonomi che non devono essere più educati ma soltanto introdotti al sapere, guidati verso la conoscenza. All’insegnante è invece demandato il compito dell’educazione. Per capire quanto un lavoro così prezioso e importante sia potuto cadere così in basso nell’apprezzamento collettivo non basta certo dire che ciò succede perché gli insegnanti non sanno fare il loro lavoro. Bisogna piuttosto riflettere su qual sia il lavoro che si pretende da loro. È in questo stesso lavoro che, secondo Adorno, si annidano tutti gli elementi che portano alla formazione del tabù della professione dell’insegnante. La società, afferma Adorno, è «ora come sempre, fondata in sostanza sulla violenza fisica». Attualmente, però, non è certo con la violenza fisica che la società vuole imporre i suoi ordinamenti, pur essendo indubbio che una qualche forma di violenza indiretta vada esercitata.

La delega a esercitare una potenziale violenza, base dell’educazione conforme alle richieste sociali, viene affidata all’insegnante. Questa violenza fisica viene delegata dalla società, e nel contempo rinnegata al livello in cui si collocano gli individui a essa delegati. Coloro che la praticano costituiscono dei capri espiatori per coloro che prescrivono questa stessa violenza. Il fatto che l’insegnante-bastonatore sia un lontano ricordo, che la violenza fisica non venga ormai esercitata se non in qualche prestigioso college britannico (ammesso che sia vero) non nega che il ricordo dell’insegnante che punisce sia sedimentato nella memoria collettiva e lavori inconsciamente nella formazione del tabù. Non solo, quindi, l’insegnante esercita una forma di violenza, ma la esercita anche slealmente, su soggetti non autonomi e in stato di minorità fisica e intellettuale. E ancora, la smania della pedagogia che vuole adeguare il materiale da insegnare alla misura dei soggetti che lo debbono assimilare, provoca quella che Adorno definisce una falsità immanente, parte essenziale della scorrettezza ontologica dell’insegnante, che sa già tutto prima e meglio del suo allievo. Dal saggio di Adorno è da accogliere un’altra riflessione: quella che sottolinea insieme l’infantilismo dell’insegnante e la chiusura della scuola, definita come un mondo a parte con proprie regole.

Mi è capitato spesso di constatare quanto gli insegnanti tendano a riprodurre il rapporto docente-discente nel momento in cui devono confrontarsi con il loro diretto superiore. Quella stessa subordinazione che gli allievi dovrebbero avere nei confronti del loro insegnante, il timore di essere ripresi, una reale mancanza di autonomia, il supino adeguarsi a ciò che il preside-dirigente richiede, fanno parte del comportamento di molti insegnanti nel loro luogo di lavoro.

Abituati ad avere come interlocutori per gran parte della loro attività soggetti in stato di minorità (per età e per grado di conoscenza) è come se gli stessi insegnanti non fossero mai usciti dalle mura scolastiche e non conoscessero altro rapporto se non quello tra chi impara (e subisce) e chi insegna (e dà ordini). L’assenza di un rapporto di lavoro adulto, in cui si contrappongono soggetti che esercitano funzioni diverse ma a partire dallo stesso grado di autonomia intellettuale, è dimostrabile con lo stato delle nostre scuole, che non sarebbero certo così se un maggior numero di insegnanti pretendesse di esercitare capacità critica rispetto al proprio lavoro.

Abituati a vivere con minori, molti insegnanti non si emancipano mai realmente e questo contribuisce non poco al conformismo che dilaga nelle nostre aule. C’è qualcosa di squilibrato nel fatto stesso che una persona adulta svolga gran parte della sua attività lavorativa con bambini o con adolescenti. Le occasioni formali in cui gli adulti-docenti possono parlare tra di loro non riequilibrano nulla – è il discorso logoro e vuoto dei collegi docenti e dei consigli di classe, ben lontani dal favorire un qualche scambio intellettuale e invece sedi privilegiate dell’anima burocratica della scuola. Chiusi nelle loro aule, a confronto con la classe, gli insegnanti vivono in una dimensione che ha regole proprie, avulso dal mondo reale.

Si incrociano, nella riflessione di Adorno, sia le motivazioni sociali che gettano discredito sulla professione dell’insegnante sia motivazioni più radicali, che hanno a che fare con quello che Freud avrebbe definito il disagio della civiltà. L’uscita dallo stato di natura attraverso l’educazione è evidentemente percepita dalla collettività come una violenza, per quanto necessaria e simbolica. L’insegnante è la figura adulta che deve rendere conformi i giovani individui alle richieste sociali – quanto l’universo scolastico abbia a che fare con una dimensione di controllo totale è oggi, nel momento in cui il problema disciplinare è diventato un’emergenza, drammaticamente chiaro.

Il crimine di cui l’insegnante si è macchiato coincide con il suo lavoro e credo che non si possa spiegare la mistica dell’insegnamento, la superfetazione retorica che vorrebbe fare del lavoro dell’insegnante una “missione” se non con un elementare processo di denegazione. Ciò che davvero si pensa di tale lavoro è che è un lavoro sporco, il più sporco di tutti i lavori “missionari”. In fondo il medico si batte contro la morte e la malattia e il religioso cura le anime, mentre l’educatore sottrae innocenti creature allo stato di natura e le immette nel corso forzoso della civiltà.

Crollati i baluardi dell’educazione tradizionale, in cui valeva il principio di anteriorità, che garantiva immediatamente l’autorità dei singoli adulti, siamo approdati nel deserto dell’educazione in cui, delle costruzioni precedenti, rimangono soltanto macerie scomposte. Sono quelle stesse macerie, ridotte a spazzatura, senza la dignità delle rovine, che contribuiscono a formare, oggi, il tabù che grava sulla professione dell’insegnante. Per l’opinione pubblica egli è un servo, un bastonatore, anche se in realtà non lo è più da tempo; e resta per molti uno sleale aguzzino, un individuo fuori dal mondo e fuori dal mercato. Sino a quando non si cercherà di ridare dignità sociale all’insegnante – e sino a quando gli insegnanti stessi non la pretenderanno – a scuola non si potrà star bene.

2) L’aspetto centrale della scuola consiste nella relazione tra chi insegna e chi impara: la qualità di tale relazione determina la natura della scuola.

Si tratta di una relazione complessa e che contiene in sé potenziali contraddizioni e che dunque andrebbe sorretta da un’organizzazione del lavoro che non facesse ricadere sul singolo tutta la responsabilità della relazione stessa. Cominciamo con il dire che parlare di “scuola italiana” è un’astrazione; sotto l’etichetta “scuola italiana” si comprendono realtà concrete assai differenziate. Nel nostro paese vige una sorta di particolarismo feudale in cui il tipo di scuola e la collocazione geografica determinano situazioni molto diverse tra di loro: tale varietà dipende essenzialmente dal contesto sociale, culturale, economico da cui provengono gli studenti che confluiscono nella singola scuola. Limitandoci alle superiori, un liceo classico avrà, per forza di cose, problemi diversi da un istituto tecnico o professionale; a sua volta un istituto tecnico metropolitano si differenzierà non poco da un istituto analogo di provincia; e, in generale, tra Nord e Sud le differenze sono spesso notevoli.

Resta il fatto che oggi, in gran parte delle scuole italiane, è difficile insegnare. Esistono, certo, isole felici in cui tutto funziona bene; ma ciò non può oscurare le difficoltà rilevanti, che travagliano le nostre scuole, in particolare quelle che si devono far carico di rimediare a tutto ciò che gli studenti non ricevono dall’ambiente da cui provengono.

Infatti, la nostra è una scuola classista: ce lo dicono i dati statistici. Su quattro ragazzini licenziati con “ottimo” dalla scuola media, tre provengono da famiglie benestanti. Circa l’84% dei figli di famiglie benestanti si iscrive al liceo. Il rapporto Istat 2013 evidenzia come i figli di genitori con al massimo la scuola dell’obbligo abbiano un tasso di abbandono scolastico del 27,7%, che scende al 7,8% per i figli di genitori con il diploma di scuola media superiore e arriva al 2,9% per i figli di genitori laureati. Non c’è bisogno di molto altro per evidenziare il declino della scuola come fattore di promozione sociale. I superficiali discorsi sulla “meritocrazia” dovrebbero, in primo luogo, tener conto di questo stato di cose.

In sintesi: ci sono le scuole metropolitane, le scuole di provincia, le scuole dei piccolissimi centri, le scuole del Nord, del Centro, del Sud, i licei, gli istituti tecnici, i professionali – e ciascuna di queste determinazioni si intreccia con le altre, sino a formare un quadro molto complesso e ricco di sfumature. Anche l’“insegnante italiano” è un’astrazione: c’è chi il mestiere lo fa per amore, c’è chi lo fa per professione, c’è il doppiolavorista (sempre più raro, perché la crisi si fa sentire e l’impegno a scuola lascia poco tempo libero), ci sono la mamma e il padre di famiglia, c’è chi non ne può più di stare a scuola e c’è chi passa le ore a formulare il «Piano dell’offerta formativa». Fra gli insegnanti ci sono persone coltissime e altre che non toccano un libro da anni – non dobbiamo avere paura di dirlo. Non esiste un idem sentire fra i lavoratori della scuola, c’è invece molto individualismo e l’incapacità di riconoscere, in genere, le ragioni dell’altro (insegnanti che guardano con sospetto i bidelli e il personale di segreteria e viceversa).

Ripetiamo: esistono numerose eccezioni, ma, poiché il disagio è diffuso è bene concentrarsi su quello. Il grande “corpo scolastico” è malato: non diagnosticarne la malattia, in nome del fatto che uno o più organi funzionano perfettamente sarebbe come non voler curare un malato di polmonite con la scusa che ci vede benissimo.

Già quelle esposte in precedenza sarebbero ragioni sufficienti a spiegare da dove nasca il disagio degli insegnanti, che si esprime nel diffuso fenomeno del burnout e, nei casi più gravi, in serie patologie nervose. Questo quadro complesso e variegato da qualche anno, da quando cioè non si può più uscire dal lavoro attorno ai 55 anni, conosce un’altra variabile: quella degli insegnanti “anziani”, spesso logorati non soltanto sul luogo di lavoro ma anche in famiglia. Tenuto conto che la gran parte dei docenti è donna, chi oggi si colloca tra i 50 e i 60 anni (quindi in piena attività lavorativa) ha spesso da fare i conti con impegni famigliari che prevedono l’accudimentio di figli ancora non abbastanza grandi e di genitori non più autonomi. Che conseguenze può avere su queste lavoratrici un carico di lavoro oggettivamente aumentato (oggi a scuola si lavora peggio e di più rispetto a trent’anni fa) e di impegni domestici anch’essi più gravosi?

3) È necessario riequilibrare la relazione tra chi insegna e chi impara

Abbiamo avuto in quindici anni la riforma Berlinguer (legge 10 febbraio 2000, n. 30 «Legge quadro in materia di riordino dei cicli dell’istruzione»), la riforma Moratti (legge 28 marzo 2003 n. 53), la riforma Gelmini (una serie di atti normativi che iniziano con legge 30 ottobre 2008, n. 169); adesso sta per essere varata (ma noi speriamo di no!) la «buona scuola» di Renzi. Ancorché il filo rosso che attraversa le tre riforme sia chiaramente rintracciabile nella necessità di ridurre le spese per la scuola statale e, contemporaneamente, nella volontà di accrescere il flusso di denaro pubblico verso le scuole private, non si può fare a meno di mettere in evidenza due elementi che hanno caratterizzato gli ultimi quindici anni:

a) la riforma precedente veniva cancellata da quella successiva e in nessuna delle sedicenti riforme esistevano provvedimenti concreti concernenti lo specifico del lavoro docente;

b) si scaricava totalmente sulle spalle dell’insegnante la questione dell’emergenza educativa, resa ogni anno più seria dall’aggravarsi di problemi esterni alla scuola (crescente disagio sociale causato dalla crisi economica, crescente numero di studenti non italiani e di recente immigrazione, crescente discredito dell’istituzione, crescente numero di studenti per classe, crescente età media degli insegnanti, crescente confusione e pressione sui docenti a causa di riforme che partivano e poi venivano sostituite da altre).

In realtà la disparità insita nel lavoro dell’insegnante, di cui parlavo già prima, andrebbe riequilibrata. Se ne era reso conto Freud, all’inizio del Novecento, in tempi in cui il modello educativo non era ancora esploso in una miriade di modelli (ed è principalmente a causa della moltiplicazione dei modelli educativi che le relazioni tra scuola e famiglia si sono trasformate da solidali in conflittuali):

L’educazione deve quindi cercare una via tra Scilla del lasciar fare e Cariddi del divieto frustrante. Ammesso che il compito non sia comunque insolubile, deve essere trovato un optimum per l’educazione in modo che essa possa ottenere il massimo e nuocere il minimo […]. Se si considerano ora i difficili problemi che si presentano all’educatore – riconoscere le caratteristiche costituzionali specifiche del bambino, indovinare da piccoli indizi che cosa si svolga nella sua vita psichica incompleta, accordargli la giusta quantità d’amore pur mantenendo un sufficiente grado di autorità – si deve concludere che l’unica preparazione adeguata alla professione di educatore è un rigoroso apprendistato psicoanalitico. […] L’analisi degli insegnanti e degli educatori sarebbe una misura profilattica più efficace che quella degli stessi bambini4.

Ricordiamoci che “insegnare” deriva dal latino in-signare, che significa “segnare”, “lasciare il segno”; “educare” deriva da e-ducere, “trarre fuori”. Nell’insegnare c’è l’idea dell’imposizione di un ordine, nell’educare l’idea di far emergere quello che di buono c’è in ogni bambino, in ogni ragazzo. Conciliare l’esigenza dell’imporre un ordine con quella di aprire alla vita le menti giovani è sempre stato un compito arduo: lo è ancora di più oggi, nella nostra modernità “liquida” e complessa che preme con forza sulle fragili pareti del “recinto” scolastico. È necessario che insegnanti e dirigenti riflettano su tutto ciò e distinguano, separandole, le inefficienze di sistema dalle inefficienze del singolo. L’acquisizione di consapevolezza porterà a giuste rivendicazioni e impedirà che la responsabilità educativa ricada integralmente sulle spalle del singolo. Tanti casi di burnout, tanti cedimenti dipendono proprio dalla scarsa stima di sé, derivante dall’attribuire il fallimento educativo unicamente a una incapacità personale e dalla mancata comprensione che le condizioni in cui si lavora sono fortemente carenti.

La soluzione, che qui indichiamo sommariamente, passa quindi attraverso un’accresciuta consapevolezza del problema da parte dei docenti che non può prescindere da un lavoro collettivo, necessariamente solidale. Altro che competitività tra i docenti o “premio al merito”!

Un secondo fattore, indispensabile quanto più la situazione scolastica è difficile, è quello di creare contesti in cui il dialogo diretto con ogni studente sia possibile: quindi, una didattica per piccoli gruppi, in cui il rumore di fondo (in tutti i sensi) non renda torbida la comunicazione. C’è poi la via indicata da Freud: «l’analisi degli insegnanti e degli educatori sarebbe una misura profilattica più efficace che quella degli stessi bambini». E qui vengono in mente le tante sciocchezze riassunte sotto le sigle recenti Bes, Dsa, ecc.

4) I processi di burocratizzazione del lavoro dei docenti contribuiscono a rendere ancor più estraniato il lavoro degli insegnanti; è necessario contenere tale aspetto.

La burocratizzazione è un fenomeno che certo non riguarda soltanto la scuola. Ma a scuola essa assume un aspetto particolare, perché viene sentita dagli insegnanti come una forzatura del loro lavoro, un’imposizione inutile e autoritaria. Si spiega così la diffusa resistenza a una serie di innovazioni (dal registro elettronico, alla timbratrice per rilevare le presenze) e di pratiche imposte dal ministero (prima tra tutte l’ostilità alle prove Invalsi e la resistenza verso le tante carte da riempire). In ogni caso, la pesante burocratizzazione contribuisce ad accrescere il senso di estraneità dei docenti verso il proprio lavoro. L’ordine rigoroso della “scuola di carta” confligge e contrasta, dolorosamente, con il caos magmatico e vitale della scuola vera. La difficoltà di dare un ordine a tale caos è accresciuta da griglie, schemi, prospetti che girano a vuoto, come una vite spanata. La burocratizzazione non fa che aggiungere ansia in un ambito lavorativo già di per sé decisamente ansiogeno. Inoltre, la sottrazione di senso che deriva dall’adempiere pratiche inutili non può che influire negativamente sul lavoratore.

5) Rivendicare hic et nunc quello che spetta a lavoratori della scuola e studenti, rifiutarsi di accettare un futuro minaccioso, impegnarsi contro la rottura del patto tra generazioni.

Esistono crimini contro l’umanità non contemplati in nessun codice penale e che determinano uno stato di violenza senza spargimento di sangue, un asservimento di fatto degli esseri umani pur in un apparente stato di libertà. Tre di questi crimini continuano a essere perpetrati in Italia dalla classe dominante: la rottura del patto tra generazioni (patto che prevedeva una buona trasmissione ereditaria – in tutti i sensi – da una generazione all’altra), la vanificazione della speranza in un futuro migliore, il reiterato ricorso ad argomentazioni evidentemente illogiche, finalizzate a rendere naturali, inevitabili, necessari sia il presunto antagonismo tra generazioni sia il futuro-minaccia.

In tempi recenti, il governo Monti è stato il punto d’approdo di un lungo percorso, caratterizzato dall’erosione dei diritti conquistati dai lavoratori in lunghi anni di lotta e da una crescente posizione di privilegio da parte del padronato. Il progetto manifesto era quello di ridisegnare i rapporti sociali, sottraendo ulteriori diritti alla gran massa degli individui e confermando, per pochi, spropositati privilegi. Renzi non fa che procedere sulla stessa strada. Mentre il pianeta rischia la catastrofe ecologica, i nostri tecnocrati sproloquiano di aumento del Pil e di sviluppo e invocano il fantasma dell’Europa e quello della globalizzazione per convincerci che tutto si decide altrove.

Non è vero: tutto si decide qui e ora. È qui e ora che deve cominciare la riscossa. Nessuna guerra è vinta per sempre – e questo vale anche per i Signori della Borsa. Recuperare il senso del futuro è un’urgenza – e non solo per le giovani generazioni che, giustamente, hanno individuato nei ladri di futuro i loro antagonisti. La possibilità di pensare il tempo futuro è la caratteristica che ci rende quel che siamo, e cioè esseri umani. Ma il futuro che ci appartiene è il nostro futuro, non un futuro generico. Inutile pensare sui tempi lunghi, perché, come ci ricordava un economista di statura ben diversa dai nostri Monti e Tremonti, sui tempi lunghi saremo tutti morti.

È tempo di giocare il nostro hic et nunc contro l’hic et nunc di chi ci governa. Il loro è l’hic et nunc della mancanza di memoria storica, dell’appiattimento degli eventi, della trasformazione di decisioni umane in decisioni metafisiche, inappellabili, stoltamente naturali (è il leitmotiv del “si deve fare così, perché così vogliono i mercati”). Il nostro deve essere l’hic et nunc di chi ragiona, si rifiuta di accettare un futuro minaccioso e sente perciò l’urgenza di un cambiamento positivo. Dar senso alla nostra finitezza mantenendo vivi i legami sociali è quello che siamo chiamati a fare. Contro il conformismo, contro il futuro-minaccia, contro la prospettiva di una crescita esponenziale della diseguaglianza, contro la morte della speranza dobbiamo giocare la carta del dire no a tutto quanto vuol rendere la nostra vita peggiore. È questo l’unico modo di batterci anche per i nostri figli. Oggi i padroni di turno stanno togliendo loro l’aspettativa di una vita dignitosa; l’unica, vera eredità che possiamo lasciare alle nuove generazioni è quella della speranza, che si nutre di ragione e che si ribella – sempre – quando la ragionevolezza viene calpestata in nome del privilegio di pochi.

La classe dominante ci vuole indigenti e precari, dalla culla alla tomba. Un’istruzione pessima, un lavoro indecente, gravoso e mal pagato, una pensione da fame, da percepirsi in età avanzata, è tutto quello che ci vogliono offrire. Quando Monti parlava di equità della sua manovra diceva paradossalmente il vero: non solo i precari, ma anche gli stabilizzati devono patire. L’allineamento verso il basso è l’equità reale del banchiere Monti e dell’imbonitore Renzi. Si tratta di un’aggressione inaccettabile al benessere della maggioranza dei cittadini. Dalla scuola, dal luogo in cui si incrociano le vite delle nuove e vecchie generazioni, può partire la risposta adeguata, poiché una scuola regressiva è un ossimoro.

Chiedamoci chi, se non chi a scuola vive e lavora, è chiamato a spiegare quanto siano lontani dalle esigenze reali di studenti, insegnanti, lavoratori della scuola le proposte dei nostri politici. Si pensi alla “riforma” Gelmini, o alla proposta di legge “Aprea” o, infine, alla “buona scuola” di Renzi e si giudichi in che misura i problemi urgenti esposti in precedenza vengano presi in considerazione. Il primo passo per uscire dal burnout, accresciuto oggi da uno spropositato spostamento in avanti dell’età della pensione, è il recupero di un ruolo attivo, all’interno di un’azione collettiva volta al miglioramento della nostra scuola.

1 Dato messo in rilievo dall’«Annuario statistico» pubblicato dall’Istat a fine 2014. La spesa pubblica per la scuola in Italia ammonta al 4,6% del Prodotto interno lordo: la Danimarca, che guida la classifica, spende oltre tre punti percentuali in più per l’istruzione rispetto al nostro paese.

2 Come recentemente ha affermato Matteo Renzi all’incontro genovese della «Repubblica delle Idee» (6 giugno 2015).

3 Th. W. Adorno, Tabù sulla professione dell’insegnante in Parole chiave, Milano, SugarCo Edizioni,1974, pp. 95-117.

4 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, vol. XI, Torino, Boringhieri, 1979, pp. 254-255.