Quali sono le regole ufficiose, quelle vere non quelle scritte, per diventare docente? Questo libro lo devo pubblicare o forse no, magari il “maestro” s’incavola perché gli metto in crisi le gerarchie stabilite? A quale associazione mi devo iscrivere? (Non posso sbagliare, se mi metto coi perdenti sono fregato). Posso tentare di scavalcare proditoriamente quel mio collega, o è troppo protetto da un docente forte? E via discorrendo. Sono le domande che deve farsi chi cerca di diventare docente universitario in Italia.
Stupisce lo stupore che accompagna le presunte rivelazioni che riguardano il caso dei docenti indagati dalla procura di Firenze, per effetto della denuncia di Philip Laroma Jezzi, cittadino dalla doppia nazionalità inglese e italiana; e già si cerca di delimitare il caso e restringerlo a responsabilità parziali e individuali. Eppure tutti coloro che hanno avuto a che fare con l’università italiana sanno bene che il sistema rivelato dall’inchiesta è estremamente diffuso. Le associazioni disciplinari – governate da un gruppo dirigente ristretto – predeterminano con largo anticipo i vincitori dei concorsi. Si richiede un rispetto assoluto per le gerarchie così stabilite, che solo di rado hanno a che fare col merito e, molto più spesso, con l’obbedienza e l’affiliazione. Esiste poi una collusione che porta a compromettersi verbalmente e praticamente con questo sistema, se mai qualcuno voglia avere speranze di diventare ricercatore o docente: come lamentarsi o dissociarsi se si è comunque iscritti alla lobby associativa che gestisce il sistema? E come non iscriversi, se questa è la condizione necessaria e imprescindibile per continuare a lavorare nell’università?
A questa condizione già grave si aggiungono le normative nazionali che privilegiano nei concorsi i cosiddetti abilitati “interni” (al dipartimento in cui lavorano), per motivi clientelari ed economici; sicchè può accadere che uno studioso altamente qualificato, magari fornito di dottorati nazionali e internazionali prestigiosi, trovi gravi difficoltà a diventare docente perché gli è preferito il più mediocre degli “interni”: “Può così accadere […] che un signore abilitato per ordinario, magari in più materie, non riesca a sfangarsi un posto da ricercatore […]. Non faccio nomi per non danneggiare ulteriormente gli interessati, ma si sappia che costoro si contano a decine” (M. Cacciari, su Repubblica del 28/9/17). Non si possono “fare i nomi”, Cacciari ha ragione: ma ci rendiamo conto di che cosa significa? Di quale livello di “banalità del male” sia presente in questo sistema? Va detto che, al fine di evitare inconvenienti del genere di quelli evidenziati da Cacciari, come dimostra il caso in questione di Philip Laroma Jezzi, le commissioni tendono a escludere i concorrenti “importuni” fin dalle abilitazioni.
Spiegare a un pubblico non addetto ai lavori le regole ufficiose, bizantine e oscure che determinano le gerarchie accademiche è talmente noioso e poco divertente, da giustificare il pubblico disinteresse per questo mondo chiuso in se stesso. La curiosità si risveglia solo quando emergono particolari piccanti, come i favori concessi a figli, amanti e mogli di qualche accademico (casi diffusi, ma che infine inducono a trascurare l’opacità generale). Basti dire che tali regole non hanno nulla a che vedere con le leggi pubbliche e scritte, con cui sono in palese e totale contrasto. Come diceva Debord, se non ha più corso la legalità astratta, impersonale, uguale per tutti del diritto, allora le gerarchie, i ruoli, le funzioni devono essere attribuiti su base diversa. Prevale così la cooptazione e l’affiliazione diretta entro gli organismi paralleli delle “associazioni”, e cioè un sistema di dipendenza personale, tuttavia non proclamato pubblicamente, che ha le sue regole e i suoi codici non scritti: la cui semplice conoscenza è già un segno di familiarità e di possibile accettazione entro le logiche del potere.
Non so se l’università italiana sia redimibile o riformabile. Forse occorrerebbe fornire qualche garanzia giuridica a chi decide di denunciare le storture subite e ammettere una effettiva possibilità di ricorso contro le decisioni delle commissioni d’esame. Naturalmente va reso omaggio al coraggio di Philip Laroma Jezzi: lui non rischia il confino e la galera (come i pochi docenti che si rifiutarono di prestare fedeltà al fascismo all’inizio degli anni Trenta), ma l’isolamento e il boicottaggio professionale sicuramente sì; soprattutto quando sarà passato il primo clamore mediatico e il sistema avrà ripreso il suo placido funzionamento.