di Giampiero Ballotti

Del carcere non importa nulla a nessuno. O meglio, a pochissimi. Ogni tanto se ne parla un po’ grazie all’opera umanitaria di qualche partito o associazione o di qualche esponente politico per farsi pubblicità: i Radicali, l’associazione fiorentina «L’altro diritto», un centro di documentazione i cui avvocati seguono le violazioni commesse in carcere.

Nel 2013, la Carta europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia con una «sentenza pilota» per i trattamenti inumani e degradanti riservati ai detenuti. Ma tutto va come prima: Sollicciano continua a essere invivibile come già lo trovammo qualche anno fa.

Numerosi risarcimenti per ingiuste detenzioni, anche solo in custodia cautelare, cui è seguita l’assoluzione. Per le domande di risarcimento, nel 2014 ne sono state accolte 995 per 35 milioni di euro e dal 1991 al 2012 lo Stato ha speso 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente finiti in prigione.

Luigi Manconi, sociologo e senatore del Pd, autore di Abolire il carcere, dice che il carcere è un prodotto umano e come tale va sottoposto a un test di validità. Il criterio fondamentale è quello relativo alla quantità di bene e alla quantità di male che ne derivano. Ovvero: il carcere produce bene se risponde allo scopo per il quale è stato creato. Produce male se non raggiunge il fine al quale è destinato e se determina danni che superino i benefici ottenuti.

E allora vediamo: nel 1998, un anno come tutti gli altri, 5.772 persone già condannate in via definitiva furono scarcerate al termine della pena. Sette anni dopo, nel 2005, 3.951 di loro finirono di nuovo in carcere, accusate e condannate per aver commesso nuovi reati. Il 68,4% di chi aveva scontato la sua pena nel 1998 è dunque rientrato in prigione: una percentuale enorme che mette in dubbio l’efficacia rieducativa della pena.

L’utopia possibile, da Beccaria a Basaglia

Non è realistico illudersi di abolire il carcere in quanto lo Stato è titolare di un diritto soggettivo di difendersi contro la criminalità. Irrinunciabile. E quel piccolo libretto che nel 1764 Cesare Beccaria dava alle stampe, e che tanto rumore era destinato a fare in Europa, oggi non verrebbe neanche preso in considerazione in una procedura di abilitazione universitaria (troppo smilzo, privo di un apparato di note, di incerto confine disciplinare, e affidato alla critica partigiana degli amici del «Caffè» milanese). Il titolo: Dei delitti e delle pene. Ora, per quanto in particolare riguarda la pena di morte, se la proposta abolizionista di Beccaria fosse stata messa ai voti popolari, sarebbe morta sul nascere. Ma quella proposta era forte, aveva un’altra idea della pena e della vita umana cosicché riuscì a imboccare la strada che ha portato la maggioranza degli Stati moderni a rinunciare alla pena capitale, di conseguenza l’utopia abolizionista ha vinto sul cattivo realismo di chi, al tempo, derise il giovane marchese per la sua ingenuità buonista.

È storia nostra quella dell’abolizione dei manicomi. E, in fondo, carcere e manicomio nascono insieme e si parlano di continuo passandosi il testimone nella custodia della devianza, soprattutto di quella parte di essa che non riesce a essere spiegata con la comune razionalità. Ora questa cultura è dura a morire, ma i manicomi sono stati chiusi, realizzando così la semplice idea di Franco Basaglia, testimoniando ancora una volta quanto sia possibile raggiungere obiettivi apparentemente impensabili fidando sulle buone ragioni dei propri argomenti.

Così noi dovremo operare per realizzare una ragionevole abolizione del carcere, di “questo” carcere, posto che anche il campo delle scienze penali e criminologiche è da tempo attraversato da correnti abolizioniste di diversa natura e diversa provenienza. Correnti che sono di tre specie: abolizionistiche, sostituzionistiche, riformatrici, e cioè quelle che prospettano la riduzione della sfera dell’intervento penale o l’abolizione in favore di sanzioni penali meno afflittive di quella specifica pena moderna che è la reclusione carceraria.

La nostra proposta va in questa direzione: per esempio sarebbe necessario in prospettiva abolire le pene detentive perché eccessivamente e inutilmente afflittive e per molti aspetti dannose.

L’ultima inventiva abolizionista è compresa in queste pubblicazioni: Abolire le pene? del norvegese Niels Christie e Pene perdute dell’olandese Lonk Hulsman nonché il congresso parmense Liberarsi dalla necessità del carcere del memorabile assessore Mario Tomassini, sulla via dell’approvazione della Legge Basaglia e da ultimo il «Piano per l’abolizione del carcere» del norvegese Thomas Mathiesen. Inoltre sono in corso attualmente i contributi abolizionisti di Angela Davis e Gherardo Colombo per i quali «la sfida più ardua e urgente è quella di esplorare territori nuovi della giustizia, nei quali le prigioni non fungano più da nostro principale punto fermo».

Dunque, verso nuove forme di composizione dei conflitti: se non si può educare al bene attraverso il male, il perdono responsabile è la via per le alternative alla punizione e al carcere. È la via della mediazione tra la vittima e il reo, la quale parte dalla necessità di superare l’istituzione penitenziaria.

Questo è lo stato della dottrina in materia: la distruzione di “questo” carcere è un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio. La relazione che Basaglia scrisse nel 1964 recava il titolo La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. I manicomi vennero poi effettivamente chiusi, le carceri devono ancora esserlo.

La storia: a partire dalla fine del secolo dei Lumi, si volle conferire a carceri e manicomi una funzione positiva, non meramente custodialistica o repressiva: curare, rieducare, correggere e riabilitare folli e criminali, senza rinunciare al compito di renderli inoffensivi. Ora il carcere tradizionale ha ormai dimostrato di essere totalmente inefficace per quanto concerne le finalità costitutive di rieducazione e risocializzazione dei rei. Un fallimento attestato dal tasso di recidiva, attualmente in Italia ben al di sopra del 70%.

Si tratta quindi di riconoscere il fallimento radicale dell’istituzione carceraria e procedere coerentemente alla sua totale distruzione senza farsi scoraggiare dalla forza dell’esistente e senza farsi imbrogliare dalla sua logica assurda, considerando che abbiamo a che fare con un’istituzione che, a dispetto di innumerevoli e ormai plurisecolari tentativi di riforma, talvolta piuttosto profondi, ha mostrato e continua a mostrare una sorta di spiccata ritrosia a essere migliorata in modo significativo e stabile. Si pensi per esempio alla piaga del sovraffollamento, denunciato ininterrottamente a tutti i livelli.

Il metodo Basaglia sembra – a questo punto – essere il miglior candidato per affrontare la questione carcere. Adottandolo, si potrà dispiegare la distruzione del carcere attraverso il susseguirsi di riforme graduali ma ininterrotte. Si pensi per esempio al modello delle colonie scandinave e al ricorso deciso a varie forme di pene alternative, oltre a lavorare – a monte – sulla depenalizzazione di tutta una serie di reati. Il tutto si farà per tappe intermedie, quali fasi evolutive di un processo che, attraverso continue crisi, dovrà approdare al pieno superamento della forma carceraria tradizionale e alla costruzione contestuale di una forma alternativa che è bene resti preliminarmente indeterminata.

La negazione del carcere – come accadde per i manicomi – non può infatti non condurre a un ripensamento di molti dispositivi giuridici, forme e pratiche culturali, sociali e politiche che stanno alla base delle istituzioni carcerarie. Intanto però si tratta di avviare con la massima urgenza il processo di distruzione delle istituzioni carcerarie.

No prison

La situazione oggettiva sopra descritta non è bastata a far comprendere che è necessario modificare tutto il sistema e sembra che nulla incida a far cambiare le scelte in termini di carcerazione in quanto gran parte del mondo della politica usa da sempre strumentalmente la gestione dell’esecuzione perché sbandierare la soglia di sicurezza crea consenso e porta voti. Così si continua ad alimentare lo spettro della paura attraverso gli organi di informazione e si arriva all’equazione “più carcerati uguale maggiore sicurezza”, soprattutto se extracomunitari; un calcolo perfido che crea i presupposti per giustificare l’esistenza di luoghi disumani e contrari alle stesse leggi che li affermano.

In quasi quarant’ anni di frequentazione delle patrie galere abbiamo incontrato diversi detenuti. Tra questi, tante vite giovani, alcune volate via troppo presto, altre mai uscite dal circuito della devianza, tutte però portatrici di dolore, inserite in quel girone infernale che sono le carceri italiane.

Si comincia con le impronte digitali, fotografie, consegna di quanto in possesso, spoliazione, lettura delle regole minime, consegna del materasso e delle lenzuola, approdo in una cella dopo un lungo percorso a piedi, circondato da occhi e commenti. Il pensiero del suicidio che accompagna le prime ore e le prime giornate di un «nuovo giunto» è qualcosa a cui nessuno sfugge, sia che l’idea lo tenti o che solo lo sfiori. E poi la violenza: una menomazione della quale, una volta provata, non te ne potrai più liberare.

Sono trascorsi quarant’ anni dalla legge 354 ed è davanti agli occhi di tutti il fallimento del carcere in tutti i suoi presupposti: dall’aspetto punitivo a quello rieducativo.

Viene tenuto in piedi un carrozzone che costa circa tre miliardi di euro l’anno e che, nella sostanza, diventa mistificazione. Di questa somma solo il 10% viene destinato alla “rieducazione” (eppure l’art. 27 della Costituzione afferma che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»); e al «trattamento della personalità e assistenza psicologica» vengono destinati 8 centesimi al giorno, mentre 11 centesimi sono devoluti alle «attività scolastiche, culturali, ricreative e sportive».

Quanto sopra significa prendere letteralmente in giro tutte le persone detenute. È quindi necessario ripensare completamente le modalità di esecuzione delle condanne, eliminando dal nostro lessico il termine “pena” che tanto ricorda la “gogna” dell’afflizione, restituendo dignità anche alle parole che vengono usate per indicare gli obblighi e i doveri.

No prison è una meteora-metafora che vuole rompere i muri delle discussioni politico-giudiziarie per approdare a scelte politiche precise allo scopo di cogliere e rappresentare l’idea di una giustizia riparativa come presupposto di un modello penale diverso da quello attuale, percorrendo strade di partecipazione da contrapporre alle insufficienze degli attuali modelli retributivi e riabilitativi.

E infatti come sarà possibile riportare le persone alla legalità e al rispetto delle regole se le regole di questo sistema non sono rispettose della persona? Se i luoghi preposti per il tempo di espiazione sono stati pensati per l’afflizione e la punizione, non per costruire il ravvedimento? Come possono centrare l’obiettivo se sono offensivi e violenti? Perché è violenza tenere le persone per anni nella completa inattività, incluse 20 ore su 24 dentro una cella. È violenza mettere nella stessa cella soggetti con situazioni e patologie che diventano conflittuali e distruttive.

Dopo tanti anni di frequentazioni di questi luoghi di vendetta sociale, abbiamo sentito la necessità, l’obbligo morale, di promuovere questa “idea”, anche se diventerà fondamentale collocare il tutto all’interno di una riformulazione del contratto sociale, della stessa convivenza nella società, per non continuare a chiedere cose giuste in un mondo ingiusto.