di Giancarlo Scarpari

All’inizio del secolo, Robert A. Dahl, riflettendo su quanto successo alle elezioni presidenziali americane del 2000 – che avevano visto il vincitore del voto popolare, Al Gore, soccombere di fronte a Bush Jr dopo la contestazione dei voti in un unico Stato, quello della Florida – si era interrogato su quanto democratica fosse la costituzione degli Usa; e, tra le carenze riscontrate, aveva indicato l’«anomalia» della «rappresentanza ineguale» al Senato (ogni Stato, qualunque sia la sua popolazione ha diritto a due senatori, con la conseguenza che a quello più popoloso, la California, spettano gli stessi rappresentanti del Wyoming, quello meno abitato); un altro fattore dissonante era costituito dal fatto che la Corte Suprema, un organo non eletto, contrapponendo le intenzioni alle parole della legge, aveva nel tempo esteso i suoi poteri, prendendo decisioni politiche che riguardano la vita e il benessere di milioni di americani; e il politologo si chiedeva, infine, se fosse adatto a un moderno sistema democratico un presidente che «combinando le funzioni di capo dello Stato e capo dell’Esecutivo era divenuto l’equivalente di un monarca e di un primo ministro messi insieme»

La vittoria del Partito democratico nel 2008, letta da alcuni, sbrigativamente, come la vittoria della democrazia tout court e quella personale di Obama, considerata la prova evidente della capacità di rinnovarsi del sistema, avevano relegato sullo sfondo questi e altri dubbi avanzati sulla reale natura di quella forma-Stato.

Il partito vincitore, poi, aveva conquistato la maggioranza alla Camera e al Senato, l’aveva mantenuta per due anni, ma in quel periodo di dominio assoluto dei democratici la dialettica con l’opposizione non era uscita dai binari tradizionali, né i comportamenti del presidente avevano evidenziato particolari criticità del sistema. La situazione era cominciata a cambiare quando i democratici, dopo aver perso la maggioranza alla Camera sin dal 2010, la perdevano anche al Senato nel 2014 in favore di un Partito repubblicano reso sempre più conflittuale sotto la spinta del Tea Party, un movimento composito ultraliberista, ostile alle tasse, al governo federale, agli immigrati. Ma la forma del confronto politico mutava radicalmente quando Trump, nel 2016, trasformava le differenze in fratture, contrapponeva multiculturali e nativisti e, puntando sulla paura dei bianchi di divenire minoranza nel paese e su quella dei lavoratori di vedersi “rubare il posto” dagli immigrati, trascinava il Partito repubblicano, all’inizio riluttante, alla vittoria, conquistando Presidenza, Camera e Senato, pur perdendo ampiamente nel voto popolare.

Quest’ultimo esito, poco in linea con i principi della rappresentanza, non suscitava però particolari meraviglie, essendosi verificato altre 18 volte in passato e rientrando perciò in un’“anomalia” tradizionale; così come la stessa conduzione della campagna elettorale, impostata sulle fake news in danno dell’avversario, veniva ricondotta nei termini di una propaganda virulenta nei toni, ma destinata a ricomporsi, come sempre era successo in passato, una volta proclamato il vincitore.

Senonché questa volta Trump chiariva, nel suo discorso alla nazione del 20 gennaio 2017, che «oggi non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un’amministrazione a un’altra, da un partito all’altro, ma stiamo trasferendo il potere da Washington a voi, al popolo americano», sottolineando così una netta cesura rispetto al passato e la nascita di una “nuova visione”, in prospettiva un nuovo ordine, basato sulla contrapposizione tra “noi e loro”, tra il leader e il suo popolo, da un lato, e quell’élite politica che aveva permesso, per troppo tempo, a dei «poteri stranieri di distruggere industrie e infrastrutture del paese».

Naturalmente il popolo americano cui si rivolgeva non era quello reale, frastagliato e diviso, ma una sua parte, la classe media bianca, simbolicamente assunta a rappresentare il tutto; così come quelle affermazioni non avevano bisogno di prove o riscontri, poiché erano basate sulla parola del Capo, come tale autosufficiente; e del resto, la forma stessa della comunicazione (i 140 caratteri del tweet potevano contenere accuse, insulti, ma non spiegazioni) conteneva già l’intero messaggio destinato al popolo.

Conseguenti erano state poi le scelte politiche e istituzionali che avevano inverato quei messaggi: e le prime, per poter essere attuate, erano state veicolate da evidenti forzature delle seconde.

Il presidente ha infatti dichiarato addirittura lo stato di emergenza nazionale per dirottare i fondi destinati alla Difesa per costruire il “muro” al confine messicano; è ricorso a una legge risalente al conflitto coreano per emettere, quale presidente in tempo di guerra, decreti «nell’interesse della nazione», quando il Covid, da lui prima ignorato, ha continuato a produrre migliaia di morti; ha invocato, sia pure inutilmente, l’Insurrection Act del 1807 per ottenere che l’esercito intervenisse contro le manifestazioni antirazziste; ha fatto, poi, gran uso degli “ordini esecutivi” per legiferare in vari campi, sottraendo così le sue decisioni al controllo del Congresso; ha fatto e disfatto la sua stessa amministrazione, sostituendo oltre 50 funzionari e collaboratori, non in grado di seguire le sue “intuizioni”, tra cui ben tre consiglieri della sicurezza nazionale.

Tutto questo è stato seguito con un certo distacco dagli opinionisti di casa nostra, così solerti invece nel cogliere i tratti illiberali dei regimi dell’Est Europa e della Russia. Né l’attenzione era aumentata quando, avvicinandosi la scadenza elettorale e imponendo il Covid la necessità del voto per posta su larga scala, un sondaggio pubblicato in agosto indicava che gli elettori di Biden, che avevano scelto questa opzione, erano il doppio di quelli di Trump; per questo il presidente – la cui precedente elezione aveva pure visto 36 milioni di voti per posta – questa volta era insorto e aveva deciso di boicottarla, invitando i suoi elettori della Nord Carolina a votare due volte (solo per dimostrarne l’inaffidabilità) e affermando pubblicamente che non intendeva finanziare le poste per questo loro impegno eccezionale (e ciò al fine di evitare brogli elettorali).

Ma non era che l’inizio. Il 18 settembre moriva Ruth Bader Ginsburg, giudice progressista della Corte Suprema e a Trump si presentava l’insperata possibilità di sostituirla con l’ultracattolica antiabortista e anti-immigrati Coney Barret. Avendo già nominato nel corso della sua presidenza due giudici “conservatori” che già avevano posto in netta minoranza i tre magistrati “progressisti”, Trump non perdeva tempo e si precipitava a far approvare dal Senato, prima delle elezioni, la nomina della Barret, rinsaldando così ulteriormente la maggioranza esistente.

Poi aveva pubblicamente illustrato la sua strategia.

Il 23 settembre, in una conferenza-stampa, Trump si diceva sicuro di vincere le elezioni, ma avvertiva che, in caso contrario, le stesse dovevano considerarsi truccate, per cui sin da allora non si impegnava a un «pacifico passaggio di poteri»: l’affermazione era già grave di per sé (tanto che il leader dei senatori Mc Connel si era affrettato a smentirlo, sostenendo che la transizione sarebbe stata invece, come sempre, «ordinata»), ma era il contesto che esaltava la carica eversiva del messaggio: a maggio Trump senior aveva lodato i bianchi repubblicani armati che avevano inscenato manifestazioni nel Michigan e in Virginia e a settembre era stato Trump Junior a lanciare un appello online per la formazione di «un’armata di americani» capace di vigilare sulla legittimità del voto; in questo clima creato ad arte, in ottobre, sei miliziani bianchi armati e sette loro fiancheggiatori venivano arrestati per aver elaborato un piano per sequestrare la governatrice democratica del Michigan, Gretchen Witmer, “responsabile” di aver deciso un parziale lockdown nel mese di aprile.

Per inquinare ulteriormente la scadenza elettorale, Trump, dopo aver richiesto, inutilmente, all’ultimo Procuratore generale da lui nominato nel 2018, William Barr, di perseguire Obama e Biden «per aver spiato la sua campagna del 2016», riusciva a ottenere da lui la rimozione del divieto che impediva ai procuratori federali, prima del voto, di indagare per “sospetto” di frode elettorale, così da consentire loro, in questa occasione, di convocare persone, sentire testimoni ed elevare accuse alla vigilia o nel corso stesso delle elezioni.

Lasciando pendere sul capo dell’avversario questa possibile minaccia, Trump iniziava già alla metà di ottobre una vera e propria guerriglia giudiziaria volta a contestarne l’eventuale esito negativo del voto, schierando a tal fine una serie di legali guidati da Rudy Giuliani e da Jay Sekulov, l’avvocato che l’aveva difeso al tempo dell’impeachment; nei giorni successivi definiva, in un comizio a Macon, in Georgia, la famiglia Biden «un’impresa criminale, una delle più corrotte della storia americana», ribadendo poi che la parola decisiva sul vincitore delle elezioni l’avrebbe pronunciata la Corte Suprema.

In questo clima e alimentando nei suoi elettori la convinzione che gli avversari, già da tempo, avevano deciso di falsificare l’esito del voto, Trump poneva le premesse per “turbare” in concreto le operazioni elettorali, puntando sul fatto che lo spoglio riguardava prima le schede votate il 3 novembre e poi quelle inviate per posta, per lui, come visto, le meno favorevoli; ma proprio le conseguenze oggettive di questa sfasatura – l’avversario rimontava inesorabilmente nei conteggi, mano a mano che si completava lo spoglio dei voti postali – venivano interpretate soggettivamente come la prova dei brogli preannunciati. Di qui la reiterata affermazione del presidente in carica di avere già vinto, la notte stessa del voto, accompagnata, il giorno dopo, dalla parola d’ordine «Stop ai conteggi», lanciata nelle sedi in cui i nuovi dati lo penalizzavano.

Un messaggio che veniva raccolto dai suoi militanti armati a Phoenix, in Arizona, che si radunavano, con fucili e pistole, davanti al seggio elettorale al grido di «Stop al furto»; e che veniva rilanciato alla grande a Filadelfia, in Pennsylvania, dove Giuliani convocava una conferenza-stampa, accusando la città di «avere una lunga e provata storia di frodi elettorali» e di aver fatto in quei giorni numerosi brogli, come potevano attestare alcuni testimoni oculari, fatti salire appositamente sul palco.

Malgrado la strategia di sovvertire l’esito elettorale fosse stata proclamata alla luce del sole, in Italia quasi tutti gli osservatori della politica americana, abituali cultori dello Stato di diritto, erano impegnati, sin da settembre, a denunciare, giustamente, le elezioni della Bielorussa, ma non erano parsi molto interessati ad analizzare quanto stava avvenendo al di là dell’Atlantico. Il 4 novembre, a urne chiuse, sul «Corriere della sera», Sabino Cassese interveniva con un dotto articolo, evidenziando la “debolezza” del modello costituzionale americano, sottolineando i vasti poteri spettanti al presidente e la volontà dei giudici della Corte Suprema di interpretare la Costituzione, vecchia di oltre due secoli, secondo la volontà propria dei Padri Fondatori. Nessuna parola, peraltro, su come l’avesse interpretata Trump.

Orbene, si può convenire sulla debolezza del modello. Ma ciò che rende discutibile quello della Corte americana non è tanto la qualità delle sue sentenze (che nel corso dei decenni sono state espressione di orientamenti diversi), quanto piuttosto la sua composizione, esclusivamente “partitica” (l’ultimo caso della Barret è illuminante sotto questo profilo). E, quanto ai poteri presidenziali, lo stesso elenco fatto da Cassese (una stessa persona è comandante in capo delle forze armate, capo del partito di maggioranza, capo dello Stato e del governo, con la facoltà di porre il veto sulle leggi, emanare ordini esecutivi, nominare discrezionalmente da 6 a 8.000 funzionari federali e, con l’assenso del Senato, i giudici federali, compresi quelli della Corte Suprema) rende evidente come, soprattutto nel caso di un presidente omogeneo alle maggioranze dei due rami del Congresso, i confini tra poteri presidenziali e poteri dittatoriali siano francamente labili. Rimangono, a marcare la differenza, il termine fissato per due mandati (ma si è visto come, nel tempo, si sviluppino cordate famigliari) e, soprattutto, l’obbligo di fissare ogni quattro anni libere elezioni (che possono determinare, col mancato rinnovo, la fuoriuscita del presidente in carica).

Questa è dunque la scriminante che rende appetibile la forma liberale della democrazia. Ma è proprio contro questo caposaldo dello Stato di diritto che il comportamento eversivo di Trump si è abbattuto, lasciando sul terreno rovine non facilmente rimovibili. Ma non è solo il modello che è stato sfregiato, è l’intero assetto costituzionale che dalle elezioni esce ulteriormente indebolito, poiché i democratici, sostenitori di quei valori liberali, non hanno saputo spazzare via col voto colui che quei principi ha calpestato di continuo, superandolo solo di poco al termine della campagna elettorale. Segno che la metà circa della popolazione di quel paese segue ormai, stabilmente, altri valori o ritiene comunque che i propri interessi non possano essere soddisfatti nelle forme della politica tradizionale. Forse, quando i conteggi saranno definitivamente terminati, i democratici dovranno ringraziare quel Jo Jorgensen, candidato della destra radicale, che, secondo i dati riportati da Portelli («il manifesto», 08.11.2020), ha sottratto alla destra di Trump oltre 61.000 voti in Georgia, 77.000 circa in Pennsylvania, oltre 47.000 in Arizona, Stati che, per le “anomalie” di quel sistema elettorale, sono risultati decisivi anche in questa tornata elettorale e non a caso sono oggi nel mirino dell’ex presidente.

Il danno che le accuse di brogli e lo stallo provocato dalla volontà di rivalsa di Trump hanno arrecato e continuano ad arrecare all’immagine del paese e alla credibilità delle sue istituzioni è enorme: colui che ha perso le elezioni continua a esercitare i pieni poteri, licenzia il capo del Pentagono, blocca il passaggio delle consegne, promuove causa allo Stato della Pennsylvania, contando di rovesciare l’esito del voto, facendo affidamento sulla catena dei giudici da lui nominati o comunque “repubblicani”; la transizione, in questa prospettiva, si annuncia tutt’altro che “ordinata”; l’Europa e la Nato hanno applaudito la vittoria di Biden, ma la Russia, forse anche compiaciuta della prova offerta dalla “più grande democrazia del mondo”, non ha partecipato agli applausi, è rimasta a guardare, in attesa degli eventi ulteriori.