A parlarne sembra di vedere un altro pianeta. Ma se in una giungla di combinati disposti, di leggi e leggine, e soprattutto di ipocrisie, di interpretazioni coi paraocchi, di formalismi assurdi prostituiti al cinismo, si incontra una toga con un cervello sopra e un cuore dentro, bisogna apprezzare. Se poi quella toga sa anche fare un sorriso sull’eterno cantiere polveroso della giustizia, meglio.
Alessandro Prefetti. Questo era il soprannome dato da Piero Calamandrei a Carlo Galante Garrone, perché era stato – ad Alessandria, appunto – uno dei prefetti provenienti dalla Resistenza, nominati subito dopo la Liberazione. Prefetti messi presto da parte, per compiacere la continuità e l’affarismo; in definitiva per proteggere l’immutabile padronato e i fascisti, tornati di moda con la benedizione degli Alleati e del Vaticano.
Galante Garrone, uomo di spirito, non se lo fece dire due volte: prese al volo il nomignolo e ne fece una bandiera. Lo mise persino nel titolo di un libro arguto, quasi un’autobiografia asimmetrica, un resoconto eclettico e spezzettato di una vita di impegno, pubblicato nel 1992, che è anche un sassolino nella scarpa[1]. Un libro necessario, perché è bene capire cosa è stato, cosa si poteva fare, cosa può essere quando si fa, cosa succede quando ce ne sono le condizioni e soprattutto le determinazioni. E anche quanto si paga, dopo, se le cose giuste si lasciano a metà.
Che questa esperienza e questa voce vengano dal Piemonte non è un caso: il vento del Nord non ha sempre portato odor di raduno leghista e di salsicce. L’ombra buona del Risorgimento è nelle premesse della Resistenza, e prima ancora è nell’opposizione al fascismo nascente e nella cospirazione, sin dalla chiusa del celebre discorso di Giacomo Matteotti, quello del 30 maggio 1924. Per avere un’idea di quel non so che di pulito, di proporzionato, di antiretorico, basta visitare lo studio di Duccio Galimberti, a Cuneo, oggi museo e biblioteca, con la sua atmosfera vecchiotta, profonda, riflessiva. Oppure guardare certe fotografie di Ferruccio Parri, col soprabito spiegazzato e l’aria di chi vuole fare, non apparire.
Ma Carlo Galante Garrone ha qualcosa di tutto suo. È proprio un giurista, un leguleio ferrato, uno di quelli da cui ti aspetti linguaggio astruso e furberie. Specialmente se fa la libera professione, ovvio. Si dice che a Ivrea, nel Canavese, quando aprirono uno dei primi cinema, proiettarono radiografie di un corpo umano. La sala è buia, compare sullo schermo un teschio, il campo è riempito dai denti enormi, ed ecco fulminea una voce paesana, dal fondo: «’n avuca’!», è un avvocato! Così è visto il mestiere, nella capitale come in un piccolo centro. Ceto famelico, canini prensili. E Galante Garrone, prima magistrato e poi avvocato, nei processi ha fatto tutte le parti in commedia. Altra cosa, altra storia è che quest’uomo rigoroso si spenda per la giustizia, in un ruolo come nell’altro. E che si opponga al fascismo, e che dopo, nell’Italia liberata e nella Repubblica, faccia di tutto perché l’antifascismo non sia solo a parole. Per lui, l’antifascismo innerva ogni difesa delle esigenze politiche e sociali più rigorose, nel solco della Costituzione democratica.
Si può arrestare un magistrato nel palazzo di giustizia? Non è successo solo a una giudice negli Stati uniti, quest’anno, perché non è allineata ai programmi feroci del miliardario zazzeruto e dei suoi soci col braccio teso facile. È già successo ad altri, e anche a Carlo Galante Garrone: arrestato dalla polizia fascista durante la repubblichina collaborazionista, ma subito sfuggito in maniera rocambolesca dalle grinfie dei questurini. Dopo la guerra le cose cambiano, ma troppo poco. È magra, la soddisfazione di veder processare l’«ometto con l’impermeabile bianco» che era venuto a prelevarlo in ufficio quando si rischiava la fucilazione o la deportazione; quello, l’ometto, ha solo l’incomodo di un’innocua udienza con tanto di difesa. Ma almeno, un gesto vale:
Il brigadiere Nicastro è invitato dal presidente a riconoscere o contestare la propria scrittura. Prima che si muova il cancelliere mi alzo, prendo il foglio dalle mani del presidente, mi avvicino alla gabbia, e fra le sbarre lo consegno al brigadiere Nicastro, che lo rigira fra le mani e china il capo senza parlare[2].
Pena blanda davvero, quella poca vergogna insincera, per chi arrestava al servizio dei nazifascisti. E consolazione semplice, bonaria, quella di chi si compiace della sentenza: «Fa piacere ogni tanto trovare nelle pronunce dei magistrati il segno che la Resistenza ha fatto breccia anche nell’animo dei giudici». Breccia? Diciamo meglio fessuretta scarsa, buchino, pertugio presto rimarginato: la Cassazione manda tutti liberi e le carriere dei neri figuri proseguono. La polizia del dopoguerra sarà inquinata per decenni dai rottami golpisti e carrieristi del fascismo. Adesso, invece, i bastonatori e depistatori di Genova, quelli del 2001, arrivano ai posti chiave della pubblica sicurezza.
Quando Arturo Carlo Jemolo gli scrive è conversazione di giganti. Jemolo ammira i giovani magistrati; invece in Cassazione, fra gli altri, nota questi:
C’è poi una scoria, di persone così chiuse a ragionamenti giuridici ed alle argomentazioni politiche od economiche o sociali, di persone così sorde, pure fuori dell’ambito del diritto, ad ogni interessamento culturale, che discutere dinanzi a loro mozza il fiato e gli argomenti. E questi si può esser certi che provengono tutti dagli uffici, dove si son formata la mentalità del “precedente”, criterio sicuro per tutto risolvere[3].
L’indifferenza a ciò che non fa parte dei ferri del mestiere, per i giuristi, è cecità professionale e civica, oltre che morale. E questa cultura del precedente, oltretutto nata in società immobili e poi trapiantata di forza nel mondo tecnologico, sa di orecchie basse, di conformismo, di allineamento. Il rifiuto della storia. A chi invoca meccanicamente il precedente, come si fa a spiegare che la Costituzione («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…») vuole che l’Italia cambi? Vai un po’ a parlare ai sordi. E i peggiori sono quelli che non vogliono sentire.
Davvero, ci sono situazioni torve che mozzano il fiato e gli argomenti. Le disegna bene Leonardo Sciascia, nel Contesto, proprio con la figura di un magistrato. Il presidente Riches ha spiegato in un trattato, «una spessa fila di quinterni», la sua visione fanatica del lavoro processuale; secondo lui l’errore giudiziario non esiste perché il processo è paragonabile alla messa, che vale indipendentemente dalla fede del chierico: «Pensi a quel prete che, dubitando, al momento della consacrazione si ebbe sangue sulle vesti. E io posso dire: nessuna sentenza mi ha sanguinato tra le mani, ha macchiato la mia toga…»[4]. La scena, nel film Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (all’atroce presidente dà il volto Max von Sydow), mozza il fiato anche quella per il senso di chiuso, di bigotteria senza fede e di colpa universale senza rimedio. Per me, rivendico che certe decisioni, specialmente quelle ingiuste che non posso impedire, mi sanguinino fra le mani.
Galante Garrone vede lontano, quando magistrati democratici vengono accusati ingiustamente, e poi finalmente assolti dal Consiglio superiore della magistratura:
Altri nodi verranno, presto, al pettine dei giudici, e anche del Csm: magistrati “scomodi” non mancano, per fortuna. […] Si vedrà in quelle occasioni se il barometro segnerà “bello stabile”: se anche ai giudici sarà riconosciuta la libertà di avere (e di esprimere) un’opinione spregiudicata, e magari un tantino irriverente, sulle cose della giustizia (e non solo su queste)[5].
Da scrivere a lettere d’oro, questo parere distillato dall’esperienza di un giurista cospiratore e partigiano, adesso che ai magistrati si chiede di tacere, di ubbidire, di circondare il lavoro di forma e reticenza, di applicare senza interpretare, di scrivere senza pensare, di fare sentenze senza fare giustizia.
Nel 2025 si toccano i vertici dell’assurdo: un consigliere di nomina politica, proprio al Csm, propone di fissare le linee guida per i magistrati su come esercitare la libertà di espressione, di riunione e di associazione. Le linee guida per la libertà: come dire i binari di un aquilone, gli orari di balneazione dei delfini, le briglie delle nuvole. Davvero, la realtà supera ogni fantasia. Del resto, si diceva che il gerarca fascista Achille Starace avesse inventato le divise per i militari quando volevano vestire in borghese.
In Italia c’è chi insiste a mettere i giuristi gli uni contro gli altri, per corporazioni. Chi li perseguita quando osano accendere la coscienza sa bene dove colpire e non fa differenze di categoria. Ma c’è chi sta peggio: in Turchia, per esempio, magistrati e avvocati sono stati messi in galera. Le richieste di allineamento non risparmiano neanche gli organismi internazionali, e a maggio di quest’anno nove paesi, Italia e Danimarca in testa, senza vergogna hanno chiesto alla Corte europea dei diritti dell’uomo di adeguarsi alla politica. Una nota del segretario generale del Consiglio d’Europa ha risposto per le rime, ma gli attacchi all’indipendenza continueranno.
L’ubbidienza non si chiede solo alle toghe. Galante Garrone ricorda che in un processo a un pacifista, a Genova, il pubblico ministero dice che «i militari non bisogna farli pensare, eccitarli con certe pubblicazioni sobillanti, perché hanno già da pensare alla casa e alla fidanzata», e anche che «la patria deve essere una fiamma che arde in tutti i cuori»; al partigiano il commento viene da sé: «fiamma che arde in tutti i cuori, e via sbrodolando». L’ubbidienza, quella ubbidienza, non è fra le sue virtù. Anche per questo la scelta dell’impegno politico-culturale è immediata. Siamo a Torino, nel maggio 1945, è appena finita l’apnea espressiva fascista:
Mi fermo davanti ad ogni libreria, in contemplazione dei libri e delle riviste che dall’Italia liberata portano al Nord il soffio della vita nuova. I soldi in tasca sono pochi, molti i peccati di desiderio. Ma una copertina bianca, quell’omino sul ponte e il nome Calamandrei sono irresistibili. Entro nella libreria Lattes, ne esco con due copie della rivista. E subito raggiungo Livio Bianco nel suo studio. Ti ho portato una primizia, gli dico. Mi guarda, sorride e smette di lavorare. E insieme leggiamo, in silenzio, il corsivo che apre il primo fascicolo. Con lo stesso nodo di commozione, e con la gioia di sapere che ora potremo fare con Piero Calamandrei il cammino che ci attende[6].
Calamandrei sa bene cosa promette quella fermezza, lo vuole su questa Rivista e gli scrive:
Attendo con grande ansietà l’articolo promesso. Per quel che riguarda me e il Ponte, figurati se non mi par vero di pubblicarlo: e quanto più è scandaloso meglio è. Ma mi preoccupo per te. Da quando (come sa Manfredini) ho conosciuto più da vicino certi ambienti dell’alta magistratura burocratica ministeriale, ho capito quali persone vi si annidano: e son convinto che ogni tuo generoso slancio ti viene segnato a demerito, e certamente ti danneggerà nella tua ascesa di magistrato[7].
Il nome di Giuseppe Manfredini vale una chiosa. Già componente della Consulta nazionale col Partito d’azione, è il giudice che a maggio 1956 partecipa a un processo per droga in cui viene emessa una condanna a sette anni; le prove sono serie però qualcuno, anche dopo, continua a sostenere l’innocenza del condannato. Manfredini è tormentato dal dubbio, ne parla con gli amici ma lo rassicurano. Lui si uccide[8]. Ipersensibilità? Oppure rigore d’altri tempi, eccezionale nobiltà, severità morale da Roma repubblicana? Se lo è, allora è la stessa che Galante Garrone vede brillare in certe pagine del libro di Armand Gaston Camus, Lettres sur la profession d’avocat, che trova nella biblioteca di Dante Livio Bianco[9].
È per questo, che Galante Garrone fa quello che fa. È nella Commissione inquirente sullo scandalo Lockheed ed Eugenio Scalfari gli chiede, per prendere le distanze dalle brutture, di dimettersi o «vuotare il sacco e uscire all’aperto». La risposta è da schiena dritta:
Uscire all’aperto? L’esortazione non mi trova impreparato e, tanto meno, contrario: anche se esiste un’arcaica norma che impone il segreto sui lavori della Commissione. In realtà, già in passato, e ripetutamente, sono “uscito all’aperto”: e ho l’intenzione di perseverare in questo vizio, se è vero che ai fini di una vera democrazia l’informazione è necessaria come l’aria che si respira. Poco male se, dopo avere sperimentato nella mia vita i banchi del giudice, del pubblico ministero e dell’avvocato, avrò modo di completare la mia esperienza sul banco degli imputati. Ma risolutamente contrario sono, e resterò sempre, al consiglio di abbandonare la lotta[10].
Quella dirittura lo rende consapevole della gravità non solo del caso Sifar, ma anche del fatto che sia approfondito così poco, per la contrarietà della maggioranza al governo e specialmente del presidente del consiglio Aldo Moro[11]. Ancor oggi quella vicenda di schedature si staglia come uno snodo non chiarito fra ricatti politici, trame eversive e sabotaggio della giovane Repubblica; una vicenda collegata all’indietro, per vari aspetti, al doppiogiochismo e allo stragismo durante l’occupazione tedesca, con nessi significativi che la accostano al vertice della giustizia militare, e quindi all’archivio sui massacri nazifascisti noto come Armadio della vergogna. Ma il caso Sifar è collegato anche in avanti, attraverso la loggia P2, alla strategia del sangue e proprio al caso Moro. Gli eccidi fra il 1943 e il 1945, gonfi di colpe e di segreti, erano ben presenti all’antifascista, al partigiano, al prefetto della Resistenza in Alessandria, una provincia combattente e colpita con durezza; fra l’altro, dalla strage della Benedicta. Ecco due giuristi: sul caso Sifar, Moro non vuole piena luce (ne approfitta la P2, che avrà un peso nella sua morte), mentre Galante Garrone, che di Moro è un oppositore, vorrebbe la verità. C’è da riflettere.
L’impegno non impedisce divagazioni gustose. In Parlamento Galante Garrone e Franco Antonicelli spiegano al senatore a vita Eugenio Montale – poeta e quindi, come l’albatro di Baudelaire, goffo su cose da nulla – i tre tasti per votare in aula. Gli insegnano ad associarli mentalmente alla parola asino (a come astenuto, sì, no). Avvezzo ad abitare le sillabe – «qualche storta sillaba», ha promesso in Ossi di seppia – , il premio Nobel Montale riesce a votare in Senato pensando a un asino.
Con lo pseudonimo Isidoro Pagnotta, compagno del soprannome Alessandro Prefetti, sempre Galante Garrone ha scritto anche Viva il capomastro! È una raccolta umoristica di frasi originali di Mussolini prese da pubblicazioni del regime; venne diffusa tra i partigiani e in seguito stampata da un editore. Ebbe un lettore entusiasta, Benedetto Croce, che all’autore – della silloge, certo, e non delle corbellerie originali del chiorbone – scrisse:
Per me ha una speciale importanza perché, non avendo mai ammesso nella mia biblioteca libri fascistici (salvo uno che non poteva mancare nella mia raccolta vichiana, nel quale si prende a dimostrare che G.B. Vico era fascista), questo solo tiene per me il luogo di tutti: è il brillante che raccoglie tutti i raggi[12].
Bisognerà tener presente Viva il capomastro!, in questi anni sanguinari e padronali. Impazzano i deliri dei capetti e delle maestrine che prendono pose capomastresche, adesso. Si deve imparare anche a sorriderci sopra, perché i denti non sono fatti solo per mordere. Sorridere si può anche, pensando all’oggi, grazie ai versi di Galante Garrone nel 1950, quando in Stornelli di mezzo secolo scrive: «Fioretti rari / non si vide giammai più bel serraglio / di ministri e di sottosegretari».
[1] Carlo Galante Garrone, Vita e opinioni di Alessandro Prefetti, FrancoAngeli, Milano 1992.
[2] Ivi, p. 43.
[3] Ivi, p. 74.
[4] Leonardo Sciascia, Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino 1971, pp. 84-94, specialmente p. 87.
[5] Galante Garrone, Vita e opinioni di Alessandro Prefetti, cit., p. 157.
[6] Ivi, p. 51.
[7] Ivi, pp. 82-83.
[8] Ivi, pp. 104-105.
[9] Armand Gaston Camus, Lettres sur la profession d’avocat et Bibliotheque choisie des livres de droit, qu’il est le plus utile d’acquérir et de connaitre, B. Warée, libraire de la Cour Royale, au Palais de Justice, Paris 1818.
[10] Galante Garrone, Vita e opinioni di Alessandro Prefetti, cit., p. 180.
[11] Ivi, pp. 138-141.
[12] Ivi, p. 75.
Immagine: da Cadaveri eccellenti, regia di Francesco Rosi, 1976





