Sulle stragi nazifasciste – trentamila morti dal 1943 al 1945 – dopo la guerra furono celebrati pochi processi, poi ci fu l’insabbiamento: è lo scandalo noto come Armadio della vergogna. L’archivio con le indagini, rimasto negli uffici della giustizia militare, negli anni Novanta fu rimesso in moto in circostanze mai chiarite. La rifrequentazione avvenne in un giorno imprecisato del 1994, probabilmente in primavera o all’inizio dell’estate: del fatto, che coinvolse un ambiente di magistrati e cancellieri, non esistono né un verbale né una fotografia. Il trentennale, quest’anno, è passato sotto silenzio, malgrado la gravità della vicenda. Era stata sabotata la giustizia su crimini atroci: massacri commessi per contrastare l’affermazione di un’Italia nuova, quella su cui si fondò il quadro politico postbellico. Un fatto senza paragoni.
La storia dell’Armadio della vergogna è intrecciata con quella della giustizia militare; la stessa giustizia che, appunto dagli anni Novanta, con quel materiale ha ripreso l’attività giudiziaria. La proporzione fra le moltissime indagini svolte da allora, e poi chiuse senza esito, e i pochi processi invece celebrati è stata molto sfavorevole: più del 95% dei procedimenti non è arrivato al giudizio. In concreto i dibattimenti sono stati una ventina, con una tempistica desolante: l’ultimo è terminato nel 2015, ventuno anni dopo la rifrequentazione dell’archivio e settanta dopo la guerra. A quel punto, di meno di cento condannati, i tre andati effettivamente in carcere (Priebke, Hass e Seifert) erano già morti; gli altri, rimasti in Germania, un po’ alla volta si sono spenti anche loro, l’ultimo nel 2020. Nello stesso anno – si è parlato di «ironia della tempistica, pur se verosimilmente casuale»[i] – è stato deciso il conferimento di un’alta onorificenza tedesca, la Grosses Verdienstkreuz mit Stern, a Marco De Paolis, il magistrato militare che ha avuto maggiore notorietà per l’esercizio, nel XXI Secolo, delle funzioni requirenti su questi casi.
Intanto, a partire da una decisione impostata nel 2008 in un vertice italo-tedesco, a Trieste, era stata avviata una campagna di finanziamento con denaro tedesco di varie iniziative culturali e memoriali – la più estesa è l’Atlante delle stragi, comprensivo di un libro e di un sito – , per promuovere l’immagine della Germania, senza né consegna dei criminali né risarcimenti alle vittime. Nell’insieme, un roseo insuccesso della giustizia.
Scelgo il 27 gennaio 2020, Giorno della memoria, per realizzare un progetto a cui pensavo da tempo: invio a tutti i magistrati militari un questionario sull’Armadio della vergogna.
Il ruolo della magistratura militare è di 58 unità. In quel momento, tutti i magistrati in servizio o sono entrati quando l’attività giudiziaria su questi crimini era in corso, oppure sono entrati negli anni Ottanta, prima della rifrequentazione dell’archivio, quando l’opinione pubblica ne ignorava l’esistenza. Solo nel 2021 entrerà con un nuovo concorso un piccolo numero di altri magistrati: il questionario non l’hanno ricevuto e non li riguarda. Qui di seguito, le domande che pongo[ii].
«Quando hai sentito parlare per la prima volta dell’Armadio della vergogna, e come?
A quanti processi per strage hai partecipato?
Cosa hai provato, quando hai saputo per la prima volta che avresti partecipato a un processo per strage?
Secondo te, quanti sono i morti nelle stragi nazifasciste in Italia? e i deportati durante l’occupazione?e i morti per deportazione? Fra i morti nelle stragi, quante erano le donne e quanti i bambini? e quanti i partigiani disarmati?
C’è qualche fatto specifico, accaduto nelle vicende di cui hai trattato i processi, che ha particolarmente colpito la tua attenzione?
Nei casi che hai trattato furono uccisi bambini? furono commessi stupri?
Secondo te, quante donne in gravidanza, che sopravvissero alle stragi o comunque vi si trovarono coinvolte, subirono un aborto involontario causato dal trauma? E quante persone in età infantile o giovanile, poi non riuscirono ad avere figli?
Hai mai sentito raccontare di bambini lanciati in aria per colpirli a volo?
Hai mai sentito qualche storia del tedesco buono? Ti sembra credibile?
Hai mai sentito paragoni fra le stragi di italiani e lo sterminio degli ebrei, o ti sono venuti in mente? Cosa ne pensi?
Hai mai sentito paragoni fra i crimini nazifascisti e il trattamento dei migranti o le loro condizioni di vita? Cosa ne pensi?
Ci sono altre violenze, pensabili insieme ai crimini nazifascisti? Per esempio il bullismo, il mobbing, il femminicidio, le mutilazioni genitali, le violenze in ambiente familiare, i maltrattamenti degli anziani o dei bambini nei contesti di accudimento, le violenze nei luoghi di detenzione o cura, la promozione del consumo di stupefacenti e di altre dipendenze?
Se di queste violenze (bullismo, mobbing eccetera) si facesse una narrazione pubblica, senza pena né risarcimento, ma finanziata dai colpevoli come condotta riparatoria, riconciliativa o simili, senza giustizia, ti sembrerebbe accettabile?
All’epoca dei processi cui hai partecipato, hai notato commenti nell’ambiente di lavoro?
Negli atti processuali o nelle fonti che hai consultato, c’è qualche fotografia che ti è rimasta impressa?
Ricordi il nome o il viso di qualche testimone, e riconosceresti quella persona se la incontrassi per caso?
Hai visitato i luoghi delle stragi o hai avuto voglia di visitarli?
Durante la trattazione dei processi hai notato qualcosa nel tuo umore? nell’appetito? nel sonno? nella vita di relazione?
Vuoi ricordare qualche episodio personale, estraneo ai processi cui hai partecipato, ma avvenuto all’epoca del loro svolgimento?
In famiglia hai mai parlato di questi argomenti? I familiari ti hanno chiesto di parlarne o di cambiare discorso?
Ritieni che sia emersa tutta la verità sull’insabbiamento delle indagini nell’Armadio della vergogna e sulle vicende connesse?
La partecipazione dei fascisti italiani alle stragi, pensi che sia stata determinante? Ritieni che questo abbia avuto un peso nell’insabbiamento delle indagini?
Il mancato risarcimento economico alle famiglie delle vittime, lo consideri collegato all’Armadio della vergogna?
Secondo te, quante persone hanno saputo dell’esistenza dell’archivio, poi chiamato Armadio della vergogna, fra il 1945 e il 1994?
Ritieni o escludi, che i magistrati consapevoli dell’archivio prima del 1960, abbiano informato della sua esistenza i colleghi entrati in servizio successivamente?
In quale anno collochi, presumibilmente, la cessazione dal servizio dell’ultimo magistrato, fra quelli consapevoli prima del 1994 dell’esistenza dell’archivio?
Secondo te se un magistrato, in servizio o in pensione, prima del 1994 avesse rivelato l’esistenza dell’archivio, cosa sarebbe successo?
Le persone consapevoli prima del 1994 dell’esistenza dell’archivio, che problemi di coscienza hanno avuto? Ritieni che ne abbiano parlato in famiglia o che i familiari abbiano intuito il loro stato d’animo?
Fra prima della partecipazione ai processi e dopo, su questi temi sono cambiate di più le tue nozioni o i tuoi sentimenti?
Hai mai fatto sogni sulle stragi, sull’occupazione, sulla guerra? Li hai fatti durante i processi, oppure prima o dopo? Se non hai fatto sogni di questo tipo, allora puoi provare a immaginare: se li avessi fatti, ora li racconteresti?
Ti è mai venuto da piangere su questi argomenti? e da scherzare?
C’è un rapporto fra l’impunità delle stragi nazifasciste e la consumazione di stragi o altri delitti di Stato oggi o domani?
Le istituzioni europee e internazionali devono interessarsi di questi temi, in favore dei familiari delle vittime e per prevenire altri crimini?
Pensi che oggi si possa parlare liberamente di queste cose, o che ci siano limiti o condizionamenti?
L’amore per la vita, per le persone care e per il nostro paese è messo alla prova, da tutto questo?
Ricordi il giorno in cui giurasti fedeltà alla Repubblica? Che cosa provasti? Raccontasti il giuramento in famiglia o fra le tue amicizie? Rammenti qualche dettaglio?
Le tue sensazioni a queste domande sono state di piacere, di disagio, o quali? Racconterai questo questionario ad altre persone?
Se hai letto questo questionario su uno schermo, ci sono state interruzioni con messaggi o notifiche, durante la lettura? Che sensazioni hai ricevuto dalle interruzioni?
Pensi che fra queste domande in un primo momento ce ne fossero altre, oltre a queste, o lo escludi?
Quali domande aggiungeresti a queste domande?»
Preparando il questionario mi ero accorto che le domande si potevano distribuire in gruppi abbastanza omogenei, e le avevo sistemate tenendone conto, per fare un po’ d’ordine e un certo voluto disordine. Le aree tematiche sono: a quali processi hai partecipato; cosa accadde in Italia dal 1943 al 1945; la tua memoria dei processi; cos’era, davvero, l’Armadio; che cosa sei adesso, dopo l’Armadio. Insomma, l’interrogativo di fondo era: vediamo se siamo usciti dall’Armadio.
Il questionario conteneva inizialmente anche altre domande, poi scartate. Qui ne riporto qualcuna. Ecco la prima:
«Racconta tre episodi della tua vita privata, nell’ordine in cui ti vengono in mente, avvenuti senza relazione coi processi cui hai partecipato, ma all’epoca del loro svolgimento».
Avevo letto della flashbulb memory a proposito di gravi crimini, e intervistando superstiti avevo notato come collegavano fatti importanti ad altri minimi e privati. Per esempio: già nel 1945 una sopravvissuta a una strage associava l’arrivo improvviso dei tedeschi a un suo gesto di cura personale, allo specchio; rievocando il fatto, nel 2013, prendeva e riprendeva una sua fotografia. Potevano esserci cose collegabili all’esperienza dei processi, anche cose apparentemente insignificanti, e mi interessava l’ordine della loro emersione. Un’altra:
«Nelle parole “Armadio della vergogna”, quale delle due ti colpisce di più?»
Nel film dei Taviani San Michele aveva un gallo un bambino viene chiuso fra due porte, al buio come in un armadio, e da grande diventa un cospiratore; è ispirato a un racconto di Tolstoj, però quella scena è solo nel film, come se avesse qualcosa in più che riguarda gli italiani. Armadio della vergogna: c’è un senso di chiusura e costrizione, di fabbrica di colpa, in quell’espressione fulminea creata da Franco Giustolisi. Si trattava di stimolare. L’invito a scegliere era falso, perché le due parole funzionano insieme; ma a volte una domanda falsa aggira l’attenzione e fa uscire un elemento vero. Ecco l’ultima:
«Fra le domande a cui non hai risposto, ce n’è qualcuna a cui ti vergogni di non rispondere?»
Questa, considerando come sono andate le cose, è una domanda che mi pento di non avere fatto.
Nel 2020 i magistrati militari tacciono, con una eccezione: Gabriele Casalena. In quel momento è presidente dell’Associazione nazionale magistrati militari (Ammi), ma non mi dichiara la qualifica; l’ipotesi che le sue righe siano frutto di una decisione in sede associativa non avrebbe riscontri. Il magistrato ringrazia per le domande e ricorda di aver lavorato in due processi. Sulla sostanza:
«Non mi sento di rispondere al questionario perchè, pur avendoli condivisi con pochissimi parenti e amici strettissimi, non mi sento di condividere emozioni, pensieri e sentimenti che sono profondamente intimi al di fuori di quella ristrettissima sfera personale che ciascuno di noi coltiva come un giardino prezioso. Credo che comprenderai».
Casalena vuole riservatezza. Inviando il questionario ho precisato che chi avesse risposto avrebbe potuto chiedere che non fosse riportato il suo nome, e che in quel caso si sarebbe tenuto conto solo del senso delle risposte. Con chi ha scelto di non rispondere, quell’impegno non può valere. Poi, la richiesta di riservatezza di Casalena, considerando il tempo trascorso, la cessazione della sua presidenza dell’Ammi e il suo transito fuori del ruolo dei magistrati militari – subito dopo l’insediamento del governo Meloni ha assunto un incarico alla Presidenza del consiglio – , non ha più ragione.
Casalena non offre dati, non dice nulla di compromettente, anzi non dice nulla. Ma questo nulla deve restare riservato, come se il livello di indicibilità fosse oltre ogni immaginazione. In realtà si tratta di un nulla apparente. Il vuoto è pieno. Anche la mancata giustizia, dopo la guerra, fu una scelta. Dell’ultima parte del messaggio è chiaro il senso, eppure si sente la mancanza di due virgole, una dopo sentimenti e l’altra dopo intimi. Senza, sembra che i sentimenti siano intimi e allo stesso tempo fuori della sfera personale. Grazie a questo scusabile lapsus, lo scritto dice una terribile verità: su questi temi, ciò che sentiamo è insieme personale e collettivo, anche quando ci pesa ammetterlo. Nel messaggio tutto si risolve in emozioni; eppure il questionario poneva temi concreti. Per esempio: chi fosse consapevole dell’archivio prima del 1994, come il segreto fosse stato trasmesso e quali magistrati lo avessero conosciuto. La realtà è tenuta a distanza, oltre un perimetro personale invalicabile, un muro coi montaliani «cocci aguzzi di bottiglia»: i superlativi pochissimi, strettissimi, ristrettissima.
Senza addebitare nulla a Casalena, entrato nella magistratura militare dopo la rifrequentazione dell’archivio e quindi estraneo all’insabbiamento, significativa è tutta la situazione, e il linguaggio esprime uno stato d’animo diffuso. L’Armadio è ancora fra noi, la vergogna non è stata superata. Nel 2020 il paragone del magistrato è col giardino, di nuovo un luogo chiuso, accessibile a frequentatori selezionati, ma pregevole e sottratto agli sguardi, un hortus conclusus. Non è che una coincidenza, ma in un dramma di successo scritto nel 1944 da Ugo Betti, scrittore e magistrato allineato al fascismo, il giudice traditore della legalità è indicato come «una specie di fiore velenoso» e un presidente sospettabile – forse solo di aver taciuto ciò che sapeva – racconta sconsolato che a volte finge di andare al lavoro e invece si rifugia in un giardino[iii].
Mettiamo in fila tre parole: armadio, atlante, giardino. Le stragi erano in un archivio segreto; poi, anche grazie a processi spettacolari senza esito pratico, i dati sono stati riordinati in archivi consultabili e la Germania ha fatto bella figura spendendo poco; a cose fatte, i magistrati serbano un giardino interiore e preferiscono non far neanche sapere che esiste. Come in un rito, ciò che era nel buio del tabernacolo è stato distribuito nella luce della cerimonia: il sangue è diventato un’ostia pagana che molti hanno assunto, un po’ per uno, e che adesso devotamente portano dentro, contriti e muti. Il sacrificio umano non potrebbe essere più chiaro, più accettato, più monumentalizzato. Bisogna ritrarsi con orrore dal sospetto che nella storia delle stragi nazifasciste e della mancata giustizia ci sia qualcosa, in fondo, di una messa nera. È solo una suggestione.
Di certo questo mancato approfondimento, questo interdetto di gruppo è un dato negativo. I magistrati militari giurano fedeltà alla Repubblica: è nata dalla Resistenza, un combattimento dentro la guerra mondiale, in cui le stragi furono strumento del nazismo e del fascismo. Dalla vittoria del blocco antifascista e della Resistenza nasce la Repubblica. Ma i magistrati militari, di fronte a queste domande, non rispondono.
Viene anche da chiedersi se sia bene estendere la giurisdizione dei tribunali militari, come è stato proposto, sino a comprendere i crimini internazionali: i crimini nazifascisti hanno vincoli di appartenenza e vicinanza con i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e i genocidi. Nell’eco della stessa parola umanità c’è un richiamo all’attenzione, alla consapevolezza, a quello che Bruno Bettelheim chiama informed heart; è il titolo di un saggio in cui scrive:
«Sembra che, anche quando vengono trattati gli aspetti più raccapriccianti di una società di massa oppressiva, la difesa intellettuale costituita dalla comprensione sia ancora la garanzia più efficace per non sentirsi del tutto impotenti e poter anzi salvaguardare la propria personalità»[iv].
Appunto: la comprensione. Quel cuore informato, vigile, nella magistratura militare non si fa sentire. A volte, anzi, l’attenzione sembra dirigersi altrove.
Lo scorso 23 maggio, in Senato, si svolge un convegno su iniziativa e con la partecipazione di parlamentari di Fratelli d’Italia, il partito della presidente del consiglio[v]. Otto magistrati militari sono relatori e altri sono presenti nel pubblico, compresa l’intera presidenza della Corte militare d’appello; c’è anche il titolare della Procura militare di Roma, che è competente sui reati commessi all’estero e lo sarebbe sui crimini internazionali[vi]. Il totale dei magistrati al convegno supera un quinto del ruolo della struttura; in proporzione, è come se si trattasse di duemila magistrati ordinari. L’incontro si svolge in piena campagna elettorale per le europee (con l’occasione, il principale promotore ricorda una sua proposta di legge sull’attività intramoenia dei sanitari militari[vii]). La formazione politica promotrice si richiama alla fiamma tricolore e al Msi, nato dal fascismo repubblichino, che fu collaborazionista e correo delle stragi. Dell’incontro, si segnalano alcune cose.
Il relatore Filippo Verrone, presidente del Tribunale militare di Napoli, non è d’accordo con la rilevabilità in ogni stato e grado del difetto di giurisdizione dei tribunali militari per motivi di connessione; sul punto, secondo Verrone una sentenza della Cassazione a sezioni unite, particolarmente limpida, sarebbe invece improntata a una «spinta ideologica»[viii]. La tesi di Verrone non si concilia con la posizione di un giurista del Novecento, che in tema di giustizia militare si espresse per il rafforzamento della tutela giurisdizionale in Cassazione perché, altrimenti, vi sarebbe «quasi tutta una giurisdizione speciale arbitra di se stessa»; invano si cercherebbe quel giurista a un convegno di Fratelli d’Italia: è Giacomo Matteotti[ix]. Nei suoi studi è stato notato un preciso orientamento politico-giuridico, proprio in tema di tutela in Cassazione:
«Garanzia di libertà in tempi normali, […] indispensabile in tempo di guerra o di accelerato conflitto sociale, in cui la tendenza del potere esecutivo era di servirsi di organi di giustizia militare o comunque indebolire la tutela del condannato prevista dall’ordinamento»[x].
Sempre nel convegno, il relatore Marco De Paolis, procuratore generale militare in appello, esprimendosi sulla Commissione per elaborare un progetto di codice dei crimini internazionali (presidenti Palazzo e Pocar), del 2022 – ne hanno fatto parte professori, magistrati ordinari, un giudice della Corte penale internazionale, funzionari della Giustizia e degli Esteri – , considera un’anomalia che sia stata istituita dal Ministero della giustizia, perché «il ministro della difesa, come sappiamo, è il ministro della giustizia militare». Non esistono né un ministero né un ministro della giustizia militare, che è esercitata da uffici giudiziari sia ordinari sia militari, con alcune funzioni dei dicasteri della Giustizia e della Difesa, limitate e non giurisdizionali. Nel convegno l’Armadio della vergogna non viene ricordato; solo De Paolis fa un breve cenno ai processi, ma non all’archivio e all’insabbiamento.
Ancora sul questionario. In seguito l’ho condiviso con superstiti delle stragi e familiari delle vittime. A quel punto le domande non erano dirette a loro, che hanno già sofferto abbastanza, ma potevano servire per approfondimenti. A me, per esempio, per capire qualcosa in più sulla condizione del giurista, specialmente di fronte all’estremo. Proprio lui, il giurista, si trova a essere la cerniera tra il fatto e il più ritualizzato dei postfatti, che può diventare molte cose, anche un seguito del crimine con altri mezzi: il processo.
Superstiti e familiari non hanno offerto contributi determinanti. Forse il questionario era misurato su un’esigenza che presuppone la posizione delle vittime senza reificarla, che le invita ma non le strattona, che le vuole presenti ma né sul palcoscenico né nel pubblico. Le vittime sono rimaste decentrate, e in questa fase della ricerca doveva essere così. Di un solo superstite, A.C., qui ricordo un commento a «Ti è mai venuto da piangere su questi argomenti? e da scherzare?»; secondo lui è una domanda che riassume le altre. Di fronte alla sua chiosa, emersa su un prato toscano, quasi in primavera, fra persone a me care, devo ammettere l’inadeguatezza di qualsiasi comprensione strutturata; aggiungo solo qualcosa su di lui.
È un uomo sopravvissuto a un episodio di sangue, in un vasto massacro, e familiare di una vittima. Dal 1944 gli è negata persino la padronanza cognitiva della vicenda: piccolissimo, fu visto tra le braccia del padre poco prima dell’arrivo dei tedeschi; nel momento della violenza erano loro due soli; quando gli altri italiani poterono avvicinarsi, il padre era salma. Il suo ricordo è nitido sui corpi raccolti dopo, per il funerale, ma si sforza invano di tornare al prima. La sua sopravvivenza è un enigma intrecciato alla morte. Anche il mio questionario – me ne rendo conto mentre scrivo – cerca nitidezza su un dopo perché è sfocato il prima. Fare di una sopravvivenza una vita è stato uno sforzo immenso, per quell’uomo, e se considero questo intravedo quanto sia importante il conferimento di senso, un’esigenza che le vittime di violenze sentono ogni giorno. Ai giuristi, invece, viene insegnato a rievocare quel senso con altre misure, nelle rigide fasi processuali, in atti formalizzati, e poi a ridurlo al silenzio, perché bisogna essere freddi, perché non sta bene commuoversi. Spezzare questo silenzio, interrompere l’anestesia dell’anima, togliere le parentesi alla coscienza è fra gli scopi di questo scritto.
[i] Paolo Caroli, Crimini tedeschi e soldi italiani? Osservazioni sull’epilogo della triste saga dei risarcimenti alle vittime degli eccidi nazisti, in «www.lalegislazionepenale.eu», 15 settembre 2022; anche, in inglese, in «Journal of International Criminal Justice» (2023), p. 5.
[ii] Inviando il questionario segnalo che non c’è obbligo di rispondere e che il materiale potrà essere usato per future pubblicazioni. Aggiungo: «Ringrazio davvero molto chi risponde, per la collaborazione; e comunque tutti e tutte, anche chi preferisce fare diversamente, per la gradita attenzione e la cortese pazienza. Colgo l’occasione per condividere un consapevole Giorno della memoria».
[iii] Ugo Betti, Corruzione al palazzo di giustizia. Dramma in tre atti, Cappelli, Rocca San Casciano 1959, pp. 37 e 82.
[iv] Bruno Bettelheim, The Informed Heart. Autonomy in a Mass Age, 1960, trad. Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Adelphi, Milano 1998, p. 119.
[v] Convegno Questioni di diritto penale militare: aspetti pratici e risvolti disciplinari, 23 maggio 2024. L’iniziativa è del sen. Marco Silvestroni, FdI, già An; partecipano anche l’on. Alessandro Palombi, FdI, già An, e il sen. Sergio Rastrelli, FdI.
[vi] I relatori sono Marco De Paolis, Filippo Verrone, Francesco Paolo Fasoli, Emanuele Quadraccia, Andrea Cruciani, Antonella Masala, Luca Sergio, Enzo Santoro. Sono presenti Giuseppe Mazzi, Gioacchino Tornatore ed Eugenio Rossi, che hanno funzioni presidenziali nella Corte, e Antonio Sabino, procuratore militare di Roma.
[vii] La proposta (Senato, 648 della XIX legislatura, senatori Silvestroni e Zullo) va a incidere sulla legge n. 120 del 2007 e in realtà riguarda tutti i sanitari, non solo quelli militari; prevede l’estensione indiscriminata dell’attività sanitaria intramoenia del personale infermieristico, ostetrico, riabilitativo e simili.
[viii] Si tratta di Cass. sezioni unite 25 novembre 2021, dep. 9 marzo 2022, n. 8193. La motivazione ripercorre la giurisdizione militare secondo le norme dell’Italia postunitaria, l’estensione nel 1930 e nel 1941, cioè durante il fascismo, e i lavori dell’Assemblea costituente. Apprezza la sentenza Francesco Caprioli, nella relazione Rapporti tra tribunali ordinari e tribunali militari, al convegno Giurisdizione militare e Costituzione: la connessione tra reati e tra procedimenti nel diritto vivente, a cura del comitato scientifico del Consiglio della magistratura militare, Roma, 21 novembre 2022; anche in Francesco Caprioli, Giurisdizione penale ordinaria e giurisdizione militare: una tormentata coesistenza, in «Archivio penale», 2023, n. 2.
[ix] Giacomo Matteotti, Oggetti di ricorso per cassazione nelle giurisdizioni non ordinarie (militare, marittima, coloniale, ecc.), supplemento a «Rivista penale», V (1918), vol. V, pp. 196-217, poi in Giacomo Matteotti, Scritti giuridici, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 2003, tomo I, pp. 307-332.
[x] Carlo Carini, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Olschki, Firenze 1984, p. 232.