di Rino Genovese
L’Italia, si sa, è il paese che il fenomeno fascista lo ha inventato: è questo uno dei suoi più tristi primati. C’è un fascismo endemico nel nostro paese, che altre volte mi è capitato di chiamare sempiterno, con un riferimento alla definizione gobettiana del fascismo in quanto “autobiografia della nazione”, come di qualcosa, cioè, ancorato nella cultura antropologica. C’è una tradizione illiberale e antidemocratica della borghesia italiana (per non parlare delle forze politiche che hanno egemonizzato l’unità nazionale, come la monarchia sabauda, senza la cui complicità il fascismo non avrebbe potuto affermarsi – altro che “rivoluzione”, come crede un revisionista storico quale Emilio Gentile).
Mio padre (per fare un esempio), negli anni settanta, quando imperversava la “strategia della tensione” – che aveva origine negli apparati dello Stato ma si serviva della manovalanza neofascista –, mi diceva della “parentesi democratica” che l’Italia aveva vissuto fino a lì, a partire dalla proclamazione della Repubblica, persuaso com’era che prima o poi sarebbe ritornato un governo apertamente autoritario. Era un po’ la teoria del fascismo come parentesi enunciata con facile ottimismo da Croce, che lui rovesciava in un facile pessimismo. Le vicende storiche sono più complesse, la teoria “parentetica” non regge né in un senso né in un altro: però quel pessimismo la diceva lunga sulla sensazione che una coscienza progressista non poteva fare a meno di riflettere. In Italia c’era l’humus per qualsiasi avventura reazionaria.
C’è ancora? In un certo senso sì. Non possiamo che osservare sgomenti – come nella recente tragedia prodottasi a Macerata e in altri episodi minori – il riorganizzarsi dei gruppi fascisti secondo una logica aggressiva con una virtuale base di massa. Non si tratta semplicemente dello squilibrato isolato. Anche a Firenze, qualche anno fa, un fascista sparò in un mercato a degli immigrati senegalesi uccidendoli, e poi si tolse la vita. Era un po’ l’uovo del serpente della sparatoria di Macerata, che oggi fa invece dell’aggressore una specie di eroe sostenuto da una parte dell’opinione pubblica. Qui l’humus fascista del paese lo si può osservare intatto.
Ciò che manca, per poter dire che ci sia propriamente un pericolo fascista in Italia, è il contesto più generale. Diciamo la verità, il razzismo circolante anti-immigrati non ha nulla del pimpante nazionalismo d’antan: piuttosto è il piccolo risentimento contro l’ “altro” di una popolazione ridotta negli anni scorsi a tirare la cinghia, furiosa contro l’euro, l’Europa, quindi alla disperata ricerca di un capro espiatorio.
Come ho sostenuto più volte, anche su questo sito, il passaggio da una mescolanza dei tempi storici per così dire autoctona – quella per cui il meridionale che andava a lavorare a Torino era “razzizzato” all’incirca quanto oggi l’immigrato straniero – a quella in cui il passato coloniale dell’Europa ritorna in un processo inarrestabile di spostamento di grandi masse umane dal sud verso il nord del mondo – questa nemesi della modernità occidentale, se così vogliamo chiamarla –, non può produrre altro se non uno sconvolgimento. Al suo interno si apre indubbiamente uno spazio per i gruppi di una variegata estrema destra. Ma basta osservare come il Pil dei maggiori paesi europei, tra cui l’Italia, sia tornato a crescere nel 2017 per comprendere che non ci sono le condizioni, al momento, per un reale affermarsi di prospettive autoritarie, mentre le larghe o larghissime intese di governo (a cominciare dalla Germania) hanno il vento in poppa.