di Marcello Rossi
«Il 2 giugno non saranno elezioni: sarà la riconciliazione di un popolo. Attenderanno, alle porte dei seggi elettorali, ancor prima che arrivino gli elettori, lunghissime file di ombre: i nostri morti, lontani e recenti: i giovinetti partigiani caduti alla macchia, i vecchi che non parlarono sotto la tortura, le donne e i bambini spariti nelle nebbie della deportazione. Chiederanno la pace: e l’avranno, la pace con giustizia: la repubblica».
Questo brano in cui Piero Calamandrei proponeva sul Ponte una sua interpretazione del referendum monarchia/repubblica del 2 giugno 1946 mi sembra si addica a quei parlamentari catalani che il 27 ottobre u. s. hanno votato per la repubblica. Anche loro hanno voluto dar voce ai loro morti: ai giovinetti partigiani che caddero combattendo contro Francisco Franco, ai vecchi che non parlarono sotto la tortura franchista. La repubblica per loro rappresenta la vittoria sulla dittatura. Qui sta la grande differenza tra la Spagna e il resto d’Europa che sconfisse fascismo e nazismo settantadue anni or sono. L’Europa – e in particolare l’Italia con la Resistenza – ha vinto sul nazifascismo, la Spagna no: la sua monarchia è un lascito del franchismo.
La Catalogna, come già a suo tempo documentò Orwell, è l’antifranchismo. Ci si può meravigliare allora se non accetta quella costituzione castigliana che è alla base del potere di una dinastia reale riportata in auge da Francisco Franco? Il diritto del Regno di Spagna può essere il diritto della Repubblica catalana?
Questo dovrebbero chiedersi tutti coloro che – a cominciare dal nostro ineffabile ministro degli Esteri – si appellano alla costituzione “spagnola” per non riconoscere alla Catalogna, contro ogni rimando alla storia della guerra civile del 1936, il diritto di proclamarsi repubblica.
C’è un altro grande problema che l’indipendenza della Catalogna presenta: la proclamazione della repubblica è un “sintomo” della crisi dello Stato nazionale. In quanto sintomo, non è dato comprendere immediatamente come si evolverà, comunque è la spia di qualcosa di grande che potrebbe profilarsi all’orizzonte: un’Europa che non può essere più – secondo un’immagine gollista – l’Europa degli Stati nazionali né l’Europa della finanza.
Nel dicembre 1950, sempre sul Ponte, Calamandrei annotava: «Nessuno può dire se e quando si arriverà a un’Europa unita e federata, come nessuno può dire se e quando l’Europa organizzerà la propria economia in senso socialista. Ma essere pessimisti sulle possibilità immediate non vuol dire rinunciare a cercare di realizzarle nei modi in cui oggi sono possibili, soprattutto se non si vede un’altra alternativa di politica europea. […] Prima o poi, prima di altre catastrofi o dopo di esse, l’impulso ad allargare i confini della patria non mediante guerra e conquista, ma mediante una libera associazione di popoli, dovrà pure arrivare a costituire l’interesse fondamentale degli europei. Meglio decidersi prima che dopo».
La Catalogna può essere un’alternativa alla politica europea?