Intoniamo pure il nostro “avanti popoli”, se questo può rincuorarci, ma resta il fatto che la situazione generale è bruttissima. La Gran Bretagna esce dall’Europa grazie a una manovra e a un calcolo del suo governo conservatore, che ha indetto un referendum al fine di risolvere le proprie beghe interne, e nemmeno ci riesce (pensate, del resto, che un’Europa in conclamata crisi politica non abbia la capacità di ricontrattare con i britannici, dal punto di vista economico-finanziario, all’incirca le stesse condizioni che sussistevano in precedenza?). In Italia avanza nei sondaggi una nebulosa neoqualunquistica che, a conti fatti, oggi ha tutto l’interesse a sostenere le epocali riforme renziane, prima tra tutte quella elettorale di tipo plebiscitario. In Spagna l’azzardo di Podemos (che non è una forza populistica, ma una formazione che nasce da un movimento sociale ed è in grado di costruire alleanze politiche) finisce nel nulla, anzi con un rafforzamento della destra di Rajoy che, con un pugno di deputati in più, può ora affermare di essere legittimato a governare. Soltanto in Francia i Valls e gli Hollande si sono trovati davanti un’ondata di scioperi e manifestazioni di notevole portata, con in testa la Cgt e altre sei sigle sindacali capaci di dialogare con gli studenti e i precari – a dimostrazione del fatto che una cosa è il conflitto sociale aperto, dispiegato, che può smuovere la stessa politica ufficiale, un’altra il vicolo cieco della protesta antipolitica, inquinata da pulsioni xenofobe (la questione dell’immigrazione è stata al centro del referendum britannico, come dell’elezione presidenziale in Austria, ahinoi da ripetere).
Bisogna insistere su un punto: il populismo di sinistra non esiste, al fondo esso è sempre di destra. Se si esclude il populismo russo studiato da Franco Venturi (che era un insieme di forze intellettuali, sia pure disparate, orientate tuttavia all’aspirazione comune verso una trasformazione socialista della Russia zarista), nel suo atto di nascita ottocentesco il populismo è bonapartista. In poche parole, si tratta di un idoleggiamento strumentale del principio democratico della “sovranità popolare” adattato e ridotto in chiave plebiscitaria. Questo populismo scaturisce certamente “dall’alto”, è una strategia delle élites. Ma con la sua trasformazione novecentesca, nella sua forma più pura con il peronismo in Argentina, spinto dalla stessa logica interna, diventa qualcosa “dal basso”: resta tuttavia il problema che – confondendo o distruggendo il campo su cui si dispone la politica democratica, quello dell’articolarsi della distinzione tra una destra e una sinistra – il populismo finisce con l’impedire l’autonomia politica e organizzativa di qualsiasi sinistra, in modo speciale di quella fondata su un’ipotesi di fuoriuscita dal capitalismo.
Il filosofo Ernesto Laclau, non per nulla argentino – quasi per disperazione, direi, provenendo dalle file del socialismo –, ha tentato di dimostrare come, componendo un blocco di forze popolari “dal basso”, il populismo sarebbe un’alternativa a una sinistra ormai esausta. Ma questo movimento non può prescindere dal riferimento a un capo carismatico come a un “significante vuoto”, che può essere cioè l’una cosa o l’altra (Perón “amorfo e cosmico”, come dicono gli argentini, indicando con ciò che, mediante il suo nome, si può alludere a contenuti politici di segno opposto, nazionalisti, fascistoidi, neoliberali o perfino rivoluzionari), certificandone così l’inidoneità a esprimere un’autonomia politica e organizzativa di qualsiasi tipo. I presunti vantaggi di un movimento “dal basso” sono in questo modo cancellati. La democrazia diretta trapassa nel “direttismo” che la sopprime. Il cosiddetto popolo (nozione quanto mai scivolosa, anche prima di essere vòlta in quel plurale in cui, più o meno spaventosamente, fanno la loro comparsa i fantasmi del sangue e del suolo) è portato in trionfo in un indistinto – i lavoratori insieme con i loro padroni –, nella prospettiva di una lotta all’oligarchia (che esiste ma è sempre sfaccettata allo stesso titolo del “popolo”), laddove una sinistra, in grado di confliggere e quindi fare alleanze politiche, dovrebbe saper distinguere.
In breve, rifocalizzando ora bruscamente l’obiettivo sull’Italia odierna, credete davvero che il raggruppamento nato dall’incontro di un imprenditore dei nuovi media con un comico già famoso per le sue sparate antipolitiche, da un “blog” quale recente trasformazione dell’adunata oceanica e del “filo diretto” – e da un processo di paretiana “circolazione delle élites“, attraverso cui una classe dirigente in fieri prende il posto di una vecchia –, possa essere l’alternativa di cui abbiamo bisogno nel nostro paese, e magari qualcosa che possa contribuire a rinnovare una costruzione europea, che non chiede di essere distrutta ma di essere profondamente riqualificata?