Bersanidi Rino Genovese

Dunque Pisapia sembra infine essersi reso conto che presentarsi alle elezioni con Renzi sarebbe stato deleterio – oltre che sostanzialmente impossibile se si è compresa un po’ la psicologia del superometto fiorentino – e ha concluso un patto, siglato in piazza sabato primo luglio con il movimento dei fuoriusciti dal Pd, che per il momento si è dato un nome anche più anodino di quello scelto dagli stessi scissionisti (“Articolo 1 – Movimento democratico e progressista”). Si chiama infatti “Insieme”. Ma insieme per fare che cosa, con quali finalità?

Nel discorso di maggiore spessore politico, tenuto da Bersani, è apparsa quella che potrebbe essere la parola magica di un possibile programma di riforme: “protezione” (che tra parentesi compare anche nell’articolo di Nicolò Bellanca qua sotto, con riferimento a una intervista di Luca Ricolfi). Non v’è dubbio che, se pensiamo a che cosa significhi Stato sociale, il suo scopo è quello di difendere i cittadini nelle disavventure della vita: per esempio, quando ci si ammala, c’è la sanità pubblica che interviene indipendentemente dal fatto che si abbiano o no i mezzi per pagarsi le cure. In questo senso è vero che la parola “protezione” una sua importanza ce l’ha. Ma potrebbe mai essere sufficiente?

Bersani, nella sua analisi, ritiene che una sinistra attenta alla realtà debba oggi rispondere a ciò che egli chiama il “ripiegamento della globalizzazione”. Qua c’è il mio dissenso dal suo discorso: non c’è mai stato un ripiegamento della cosiddetta globalizzazione, perché fin dall’inizio si sarebbe potuto facilmente intuire che il capitalismo dispiegato, insieme con la potenza della rivoluzione tecnologica avviata negli ultimi decenni del Novecento, avrebbe prodotto nuove diseguaglianze. Bersani cerca di salvarsi l’anima. Essendo stata la “terza via” – una via sostanzialmente centrista, quella del blairismo d’antan  – l’ideologia dominante della sinistra europea nella fase pimpante (da cui è nato lo stesso Pd), deve sostenere che sia mutata la fase per giustificare il suo cambiamento. Sarebbe più giusto dire che Bersani, e con lui svariati altri, avevano preso un abbaglio, rassegnandosi a quel mediocre neoliberismo soft che per anni è stato l’essenza della sinistra. A cui – visto che siamo in Italia, paese cattolico per eccellenza – fu abbinata (e meno male, viene da dire) un’ideologia umanitaria che faceva da contrappeso. È stato sostanzialmente questo il centrosinistra del passato.

Ora, una sinistra d’ispirazione socialista non può affatto accontentarsi del termine “protezione”, sia pure declinato “secondo i nostri valori”. Non si tratta, non si è mai trattato per il socialismo, di limitarsi alla protezione dei cittadini, quanto piuttosto di trasformarne i rapporti sociali. Quindi è giusto, come ha fatto Bersani, sostenere che una politica basata sulla progressività dell’imposta deve mettere al bando uno slogan come “meno tasse per tutti”, perché la leva fiscale è uno strumento che serve ad attuare una ridistribuzione del reddito, e indirettamente del potere, a favore dei più svantaggiati. Fin qui ci siamo. Dove casca l’asino, invece, è quando, come nel caso della questione epocale dei migranti, la sinistra pensa di potersela cavare con l’umanitarismo del primo soccorso (che pure è necessario) e facendo un po’ la voce grossa con un’Europa che non sostiene adeguatamente l’Italia.

I migranti sono il segno più evidente del fallimento di un modello di sviluppo a livello mondiale. Il capitalismo non riesce a liberare dalla fame e dalla miseria larghe parti del pianeta (poi c’è anche il problema delle guerre e dei rifugiati, ma voglio riferirmi qui in particolare alle migrazioni di carattere economico, per nulla secondarie). C’è inoltre l’eredità postcoloniale dei paesi europei, segnatamente della Francia e della Gran Bretagna, ma non solo: anche l’Italia contribuì agli orrori del colonialismo. I due fattori combinati insieme – uno prettamente attuale, quello del modello di sviluppo planetario, e l’altro come una pesante eredità storica – spiegano perché, quando si discorre di migrazioni, si dovrebbe immediatamente passare a una critica del capitalismo e delle sue storture. E c’è di più: con la questione dei migranti la parola “protezione” mostra la sua insufficienza, a meno di non volere inseguire la destra facendone un puro e semplice problema di ordine pubblico.

Ciò che andrebbe a poco a poco fatto comprendere alle popolazioni, diciamo così, originarie dell’Europa è che è arrivato il momento di cessare di considerarsi il centro del mondo. Altro che protezione! La questione dei migranti andrebbe ricollocata in un grande piano di trasformazione della società, la forza lavoro immigrata inserita all’interno di una transizione di lungo periodo, finanziata da investimenti pubblici – a livello europeo, non solo nazionale –, che spostino l’accento dai consumi privati ai bisogni sociali, in una ormai improcrastinabile riconversione ecologica. Bersani ha opportunamente richiamato nel suo discorso la necessità di un programma di “manutenzione” del nostro paese, funestato dagli squilibri di uno sviluppo che ha abbandonato le città e i paesi alla mercé di eventi disastrosi come i terremoti, o alla quotidiana sporcizia delle strade. Ebbene, in questo contesto avrebbe dovuto almeno accennare ai lavori socialmente utili in cui una giovane forza lavoro immigrata andrebbe impiegata – a condizione di una rottura con il modello di sviluppo fin qui dominante.