[Nel marzo 2010 scrivevo sul «Ponte» l’articolo che riporto. Oggi, dopo sette anni da questo scritto, il governo italiano ha messo a disposizione di Casa Savoia un aereo per riportare in Italia, a spese nostre, le spoglie di Vittorio Emanuele III. Non ne sentivamo la mancanza. Vorremmo comunque evitare la vergogna che il “re fellone” venga tumulato nel Pantheon. Riaffermiamo con Calamandrei che quella dei Savoia è una presenza sciagurata, il ricordo di una spaventosa sconfitta morale e materiale.]
«Non chiediamo punizioni rigorose: le ville principesche in riva ai mari tropicali non sono prigioni crudeli. Ci lascino a ricostruire da noi queste povere catapecchie crollate. Ma se ne vadano, tutta la famiglia: comprendano, una volta tanto, il loro dovere di discrezione. Spariscano: ci liberino di questa loro sciagurata presenza che è il ricordo vivente di una spaventosa sconfitta morale». Con queste parole il 2 giugno 1946 Piero Calamandrei si rivolgeva ai Savoia perché lasciassero l’Italia. La «spaventosa sconfitta morale» era ovviamente il fascismo e gli esiti che questo aveva avuto con il consenso – e non solo – di Vittorio Emanuele III. Ma il discorso, da Vittorio Emanuele III, si potrebbe allargare alla storia di tutta la casa reale e chiamare in causa Vittorio Emanuele II, Umberto I e in qualche misura anche Umberto II, il re di maggio, perché se l’8 settembre 1943 questi avesse capito (e per capirlo non ci voleva una grande intelligenza) che era giunto il momento di schierarsi con la Resistenza, chi ci avrebbe poi scrollato di dosso questa sciagurata monarchia sabauda? La sua insipienza fu la nostra fortuna, ma fu questa l’unica volta in cui rispetto ai Savoia fummo fortunati.
Di Vittorio Emanuele II, il padre della patria immortalato a Roma con un monumento di gusto discutibile, se non addirittura di cattivo gusto, Denis Mack Smith mise in rilievo, con un libro laterziano del 1973, l’incapacità, ma nel contempo la velleità, a governare. Credeva di essere un grande condottiero di eserciti, ma le guerre che intraprese mostrarono quanto in realtà valesse. Dopo queste esperienze, fu abbastanza intelligente da capire che, piú che la guerra, gli si addicevano la caccia, la cura dei cavalli e le attenzioni alle donne giovani e prosperose, lasciando le questioni di governo ai suoi ministri, i quali si mossero – con il suo consenso – con mano pesante e spesso indussero la popolazione, specialmente quella del Sud, a rimpiangere i precedenti governi. È proprio di questo periodo il detto «si stava meglio quando si stava peggio».
Umberto I, detto il «re buono» per essersi interessato di persona al contenimento dell’epidemia di colera a Napoli nel 1884, dette in realtà prova della sua “bontà” nell’ordinare la repressione dei moti del 1898 e nell’onorare con la Gran Croce dell’Ordine Militare di Savoia e un seggio in Senato il generale Fiorenzo Bava Beccaris che a Milano, sparando cannonate sulla folla, aveva provocato una strage: 80 morti e 450 feriti. Era l’epilogo di una politica autoritaria tutta quanta tesa a contenere con la forza le rivendicazioni sociali e politiche dell’appena nato Partito socialista. Il «re buono» cadrà in un attentato ordito dall’anarchico Gaetano Bresci a Monza il 29 luglio 1900. I democratici e i socialisti non gioirono di questo misfatto, anche perché l’uccisione di un re non comporta l’estinzione dell’istituzione (morto un re, se ne fa un altro), ma non si rattristarono piú di tanto perché comunque era uscito di scena un reazionario di prim’ordine.
Vittorio Emanuele III era persona introversa e complessata. E avrebbe meravigliato il contrario, se si prende in considerazione la sua statura e l’educazione che aveva ricevuto nell’infanzia (cfr. di Giorgio Pasquali, Educazione di un re, «Il Ponte», febbraio 1948). Non fu comunque troppo diverso da suo padre per quanto concerneva l’autoritarismo e l’avversione alle forze socialiste che nel paese crescevano considerevolmente. Ritenendo, forse come suo nonno, di essere a capo di una grande nazione e di un grande esercito, non esitò con un colpo di Stato mascherato da volontà popolare («le radiose giornate di maggio») a gettarsi in un’impresa – la Prima guerra mondiale – che il giovane Stato italiano non era in grado di sopportare. E quando a Caporetto i nodi vennero al pettine, non esitò a ritenere responsabili le truppe, ree di non combattere con il dovuto coraggio (si veda al proposito di Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1938). E quando, a guerra finita, il paese spossato reclamava riforme sociali e politiche (in modo particolare la terra ai contadini) e il Partito socialista sembrava prendere in mano le redini del potere, Vittorio Emanuele III ritenne opportuno affidarsi ai fascisti e dare inizio a quel rapporto che porterà prima alle leggi razziali e poi definitivamente a quella spaventosa sconfitta morale di cui parla Calamandrei.
A guerra finita, come ricorda Calamandrei, il popolo non chiese punizioni rigorose e sia Vittorio Emanuele III sia suo figlio Umberto II lasciarono l’Italia con le loro gambe: unico esempio in Europa di trapasso pacifico e civile da una monarchia a una repubblica. Si pretese solo con la XIII Disposizione transitoria e finale della Carta costituzionale che ai discendenti maschi di Casa Savoia fosse vietato l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. E se questa Disposizione fosse stata mantenuta anche gli attuali Savoia ne avrebbero tratto vantaggio perché il popolo italiano non si sarebbe accorto della loro incultura, della loro insipienza e anche della loro propensione a delinquere. Ma Nemesis ha voluto metterci qualcosa di suo.